Dalla parte di Lee. La vera storia della Guerra di secessione americana. Con uno scritto di Murray N. Rothbard
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Dalla parte di Lee. La vera storia della Guerra di secessione americana. Con uno scritto di Murray N. Rothbard

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About this book

"Ho combattuto contro i nordisti perché credevo volessero strappare al Sud i suoi diritti più preziosi."
Robert Edward Lee Per quattro anni l'America sanguinò. La Guerra di secessione mise a ferro e fuoco gli Stati Uniti. Il presidente Lincoln, che non era mai stato un abolizionista, fece credere che la guerra civile fosse nata per la questione della schiavitù. Fu veramente così? Oppure fu il protezionismo industriale del Nord a mettere a repentaglio l'economia agricola del Sud e spingere gli stati verso la secessione? Il Nord combatteva per il progresso, il Sud per sopravvivere. Il Nord aveva le risorse, il Sud aveva un uomo: Robert E. Lee. Il generale che tenne in scacco per quattro anni la macchina militare-industriale di Lincoln. In queste pagine vengono ricordate le gesta dell'ultimo condottiero dell'Ottocento, il mito del generale a cavallo, baluardo e simbolo della resistenza tenace di una nazione.

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Information

1.
Due Americhe

La prima battaglia della Guerra di secessione americana fu combattuta il 21 luglio 1861 a cavallo del Bull Run, un torrentello nella Virginia settentrionale fino allora senza fama. Ma il primo uomo in uniforme era caduto sul campo quasi due mesi prima: si chiamava Elmer Ellsworth, aveva ventiquattro anni, faceva l’avvocato a Chicago e, come hobby, allenava formazioni paramilitari. Allo scoppio delle ostilità, aveva riunito in un reggimento di volontari i vigili del fuoco di New York, li aveva rivestiti a sue spese in uniformi copiate da quelle degli zuavi francesi (pantaloni rossi, giacca blu, fez in testa) e li aveva guidati nella prima invasione del Sud: la cittadina di Alexandria, in Virginia, appena qualche chilometro fuori Washington. Per difendere Alexandria i “ribelli” non avevano soldati, e i civili si erano chiusi in casa. Era chiuso anche l’unico albergo della città, la Marshall House, ma dal suo balcone sventolava una bandiera confederata. Il “colonnello” Ellsworth sfondò la porta, salì le scale, ammainò il vessillo e uscì dall’albergo tenendolo arrotolato sotto il braccio. Sulla soglia lo aspettava l’albergatore, un patriota virginiano di nome James T. Jackson, che vendicò l’affronto scaricandogli nel ventre un fucile da caccia.
La grande guerra era ancora così piccola che le sue vittime e i suoi eroi avevano nome, cognome e indirizzo. Sappiamo anche come si chiamava il primo morto civile: Robert W. Davis. Era un commerciante, aspettava il suo treno su un marciapiede della stazione di Baltimora. Arrivò prima un treno di volontari del Massachusetts in transito per Washington. All’apparire dei volontari nordisti, dalla folla si levarono insulti, frammisti a evviva per il presidente ribelle Jefferson Davis. Qualche soldato rispose sparando attraverso il finestrino e mandò al Creatore il Davis sbagliato: era il 19 aprile 1861. La guerra era ufficialmente cominciata una settimana prima, con i colpi di cannone sparati – senza vittime – dalle batterie confederate di Charleston, contro la guarnigione federale di Fort Sumter.
Come avrebbe fatto l’Europa mezzo secolo dopo, l’America scivolò nella sua Grande guerra senza che nessuno prevedesse dimensioni e conseguenze, anzi in seguito a previsioni totalmente errate da ambo le parti. Nessuno immaginava che sarebbe stato un conflitto così lungo (quattro anni) né così sanguinoso (seicentomila caduti: così si chiamavano allora le vittime). Ciò accadde, paradossalmente, anche per l’impreparazione iniziale degli uni e degli altri e per la conseguente improvvisazione. Né il Nord né il Sud credevano che si sarebbe arrivati alla guerra. Il Nord e il Sud erano sicuri che, in quella eventualità, il nemico non si sarebbe battuto. Nord e Sud furono presi del tutto alla sprovvista materialmente, anche se ideologicamente erano più che pronti. La secessione ebbe radici che affondavano nella genesi stessa della nazione americana e la rendevano dunque pressoché inevitabile.
La contraddizione esisteva da sempre. Le costituzioni degli stati fondatori dell’Unione derivavano direttamente dagli statuti dati alle colonie americane dal parlamento inglese, che le concepiva come unità politiche distinte. Coloro che avevano attraversato l’Atlantico per insediarsi in Virginia avevano nei confronti di coloro che stavano popolando il Massachusetts sentimenti paragonabili a quelli che, al tempo del futuro Commonwealth, avrebbero nutrito i canadesi per i sudafricani di lingua inglese. Erano diversi culturalmente, a cominciare dalle radici religiose. La Nuova Inghilterra era puritana, il Sud anglicano. Nelle parole del virginiano Thomas Jefferson, scritte prima della rivoluzione e dell’indipendenza, «la gente del Nord ha la mente fredda. È sobria, laboriosa, puntigliosamente indipendente. Quella del Sud è fiera, indolente, più facile all’ira e all’entusiasmo, più sensuale, gelosissima delle proprie libertà».
E nacquero diverse strutture economiche. Ogni colonia era stata fondata a partire da uno o più porti, continuava a dipenderne ed era sostanzialmente indipendente dalle altre per i commerci. Soprattutto durante l’inverno, era più comodo e meno rischioso attraversare l’Atlantico e ripartire dall’Inghilterra che scendere o risalire lungo la costa da un porto americano all’altro. Una separazione ulteriormente approfondita dal clima. Quello della Nuova Inghilterra e del Mid Atlantic, come New York e la Pennsylvania, non consentiva le monoculture e stimolava invece la piccola e media proprietà agricola, la pesca, la caccia alle balene, i commerci. La scarsità di prodotti da esportare per pagare le importazioni stimolava l’artigianato, la sua diversificazione, i germogli dell’industria. Gli insediamenti che sarebbero poi divenuti gli stati del Sud avevano invece un suolo ricco, un clima umido e torrido, una bassa pianura costiera penetrate da fiumi con maree: tutto vi favoriva le monoculture e quindi un’unità di produzione che si chiamava piantagione e richiedeva vaste estensioni e una forza lavoro di basso costo, resistente al caldo umido. Fin dagli inizi della colonizzazione del Nuovo Mondo, questa era costituita ovunque da una manodopera di importazione coatta dall’Africa.
Era una forma moderna di schiavitù, contraddistinta dalla tratta. La tratta degli schiavi non si identifica con la schiavitù e la schiavitù in sé non si identifica affatto con l’uomo bianco. La praticavano in primo luogo africani su altri africani: facevano razzie e vendevano la merce a prezzi di mercato. Sulle carte dell’epoca questa realtà era espressa crudamente dai nomi dati dagli acquirenti a vari tratti della costa africana: Costa d’Oro, Costa d’Avorio, Costa delle Spezie, Costa degli Schiavi.
I clienti erano arabi nell’Africa a oriente dei grandi laghi, europei nell’Africa occidentale. I primi si portavano a casa il bottino umano con le carovane, i secondi li caricavano su navi sovraffollate, in cui le condizioni erano orrende: come in ogni operazione commerciale, si cercava di “ridurre i costi” al minimo per massimizzare il profitto. I bianchi pagavano meglio e soprattutto acquistavano all’ingrosso. Cercavano braccia robuste per le piantagioni, mentre gli arabi si rifornivano prevalentemente di donne e ragazze, spesso a fini di “consumo” voluttuario più che di “investimento” o di sfruttamento economico. È il motivo per cui le depredazioni arabe, nonostante il volume inferiore, erano più devastanti per la fertilità e lo spopolamento.
La tratta per le Americhe ebbe per destinazioni prevalenti, soprattutto all’inizio, le colonie europee nei Caraibi, dove c’era richiesta di manodopera per le piantagioni di canna da zucchero. Il continente nordamericano era del tutto marginale. Narrano le cronache che la prima vendita di schiavi sull’odierno territorio degli Stati Uniti avvenne nel 1619, quando una nave olandese mise sul mercato in un porto della Virginia “venti negri in soprannumero”. Il mercato dei futuri Stati Uniti crebbe d’importanza in seguito per poi diversificarsi secondo le condizioni naturali e sociali. Il commercio di carne umana toccò il suo massimo volume attorno al 1780, con quasi centomila “trasporti” l’anno, contemporaneamente alla Dichiarazione d’indipendenza americana. Tutte le tredici colonie originarie riconoscevano l’istituto della schiavitù, che per quasi un secolo non fu dunque un “problema del Sud” ma dell’intera nazione che si veniva maturando. Ai primi dell’Ottocento c’erano più schiavi nella città di New York che a New Orleans, principale metropoli del Sud. Nel Nord fu presto chiaro che la schiavitù non sarebbe attecchita: era freddo e l’economia cresceva articolandosi in piccole aziende, con un grande bisogno di talenti artigianali. Lo schiavo importato dall’Africa costava di più – e rendeva di meno – del libero lavoratore bianco, che il flusso migratorio dall’Europa rendeva reperibile facilmente e a buon mercato. Per motivi di efficienza capitalista, oltre che per gli scrupoli morali di una parte dei coloni, soprattutto quaccheri, il Nord rinunciò ben presto ad acquisire schiavi. I mercanti di Boston continuarono a praticare il commercio, esportando rum e importando schiavi: ma per il Sud, per le condizioni climatiche e il tipo di coltivazioni, essi diventarono la base dell’economia.
La schiavitù diventò così una frontiera, presto più importante di quelle che delimitavano i singoli stati. La tracciarono ufficialmente due agronomi inglesi, Charles Mason e Jeremiah Dixon, e passò alla storia come “la linea Mason-Dixon”. Il suo tratto principale correva fra le colonie della Pennsylvania e del Maryland; a nord di quel segno era proibito possedere schiavi, a sud era lecito. E gli Stati Uniti nacquero divisi. Consistevano di due società differenti, simboleggiate rispettivamente dal piccolo agricoltore del Connecticut – o dal mercante del Massachusetts – e dal piantatore della Virginia o della Carolina del Sud con i suoi schiavi. I padri fondatori furono costretti a prenderne atto. Jefferson dettò nella Dichiarazione d’indipendenza che “tutti gli uomini sono stati creati uguali”, ma si rese conto presto che senza un compromesso sulle conseguenze pratiche di questo principio l’impresa sarebbe fallita sul nascere. E compromesso ci fu, facilitato dal fatto che in quegli anni pareva che la schiavitù fosse sul punto di morire di morte naturale, per motivi economici, anche nel Sud e ciò aiutò i firmatari della Dichiarazione d’indipendenza a ignorare il problema proprio perché lo consideravano – nordisti e sudisti – come temporaneo e destinato a risolversi da solo.
Le cose cambiarono, di colpo, in un anno fatidico anche per l’Europa: il 1793. Nel momento in cui il Vecchio Continente inventava il “terrore”, in America, Eli Whitney inventò il cotton gin, una macchinetta di semplice uso che permetteva l’utilizzazione industriale del cotone a fibra corta, di cui il Sud abbondava. Negli stessi anni, l’Europa che si stava industrializzando – e cominciava proprio dall’industria tessile – sviluppò un appetito insaziabile per il cotone. Nel 1800 gli Stati Uniti esportarono cotone per 5 milioni di dollari; nel 1860, per 121 milioni, che equivalevano al cinquantasette per cento del totale delle esportazioni del Paese. Il Sud era diventato un impero, ed era “l’impero del cotone”. Tutto quello che bisognava fare era raccoglierlo, a braccia, al minor costo possibile, e portarlo alla macchinetta di Whitney. Per questo lavoro gli schiavi ridiventarono convenienti, anzi insostituibili.
Il principale partner commerciale del Sud era, risvolto ironico, la Gran Bretagna, dove nello stesso tempo fiorivano le iniziative per l’abolizione della schiavitù. Nel 1807, come primo passo, la Camera dei comuni mise fuori legge la tratta. Fu un gesto unilaterale, per motivi umanitari e compiuto con mano pesante dalla superpotenza dell’epo...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Presentazione
  5. La giusta guerra del Sud di Murray N. Rothbard
  6. Presentazione dell’autore
  7. 1. Due Americhe
  8. 2. Secessione
  9. 3. Sorpresa sul Bull Run
  10. 4. L’armata del Potomac
  11. 5. Il blocco navale
  12. 6. L’altra faccia della guerra
  13. 7. L’invasione della Virginia
  14. 8. Morsa sul Mississippi
  15. 9. Lee al contrattacco
  16. 10. Emancipazione
  17. 11. Napoleone sul Rio Grande
  18. 12. Jackson: vittoria e morte
  19. 13. Gettysburg
  20. 14. Sommossa a New York
  21. 15. La ricetta di Sherman
  22. 16. Atlanta brucia
  23. 17. Guerra totale
  24. 18. La caduta di Richmond
  25. 19. La sciabola di Lee
  26. 20. “Sic semper tirannis”
  27. 21. Un secolo di dopoguerra
  28. Lista dei nomi e dei luoghi citati