Kahlil Gibran
Il profeta e il bambino
Avvertenze e ringraziamenti
Per le voci arabe presenti in questo volume sono stati osservati i criteri della traslitterazione scientifica. Se non nel testo, la traslitterazione di termini, nomi e toponimi, con le relative osservazioni o spiegazioni, è stata comunque riportata nelle note al piede.
Il nome dell’autore viene citato sia nella forma originale araba, completa di patronimico, sia in quella occidentale, abbreviata e modificata, con cui egli stesso si presentava ai conoscenti non arabofoni e firmava le sue opere in inglese. Si troveranno dunque nel testo le seguenti versioni: Ğubrān Ḫalīl Ğubrān e Kahlil Gibran, ma anche Gibran Khalil Gibran e Khalil Gibran, a seconda dei contesti e delle fonti bibliografiche o testimoniali di riferimento.
I titoli della maggior parte dei contributi sono stati assegnati arbitrariamente dal curatore, tranne nei casi indicati in nota.
Si desidera ringraziare tutti coloro che, a vario titolo, hanno contribuito alla realizzazione di questo volume. In particolare: Tarek Chidiac, presidente del Gibran National Committee (GNC), Beirut, per le preziose indicazioni bibliografiche; l’arabista Kegham Jamil Boloyan (Università del Salento), per la revisione delle traslitterazioni dall’arabo; l’anglista e gibranista Alessandro Perduca, per la collaborazione nella traduzione di alcuni frammenti epistolari; l’editor Marco Beck, per la paziente e accurata revisione della resa italiana.
Capitolo primo
«Sono venuto al mondo per imparare»
Frammenti (auto)biografici
Le cose che un bambino ama restano nella sfera del cuore fino alla vecchiaia. La cosa più bella della vita è che le nostre anime rimangono ad aleggiare nei luoghi dove una volta siamo stati felici. Io sono uno di coloro che ricordano quei luoghi al di là della distanza o del tempo. Non lascio neppure un solo fantasma sparire con le nuvole, ed è il mio eterno ricordo del passato che è causa talvolta del mio dolore. Ma se dovessi scegliere tra gioia e dolore, non cambierei i dolori del mio cuore per tutte le gioie del mondo1.
1. Bišarrī, Monte Libano, Siria (1883-1895)2
1.1. La nascita del poeta nel racconto dell’amico Mikhail Naimy (6 gennaio 1883)3
Quando la levatrice sentì i vagiti del neonato, girò il volto illuminato da un largo sorriso verso la madre e annunciò la lieta notizia: «Un maschio! Un maschio! Grazie a Dio, è andato tutto bene».
I muscoli del viso della madre, contratti per il dolore, si sciolsero allora in un sorriso dolce e tenero, come raggi di luna che filtrano tra le nuvole, e la donna rispose alla levatrice con un sussurro appena udibile: «Che Dio accetti i tuoi ringraziamenti, cara sorella». Subito nella piccola, umile stanza risuonò quella parola magica che aleggiò come un uccello liberato da una gabbia, ripetuta dalle donne riunite intorno al braciere presso il giaciglio della madre, riecheggiata dalle pareti cieche – eccezion fatta per la porta – e dal soffitto annerito dal fumo, per consegnarsi al vento freddo all’esterno – il vento invernale che tesse un burnūs4 bianco per la gola del Wādī Qādīšā, per i pronipoti dei Cedri di Salomone e per le cime che vegliano gelosamente su quegli alberi sacri fin dall’alba dei tempi: «Maschio! Maschio!».
Le donne si felicitarono con la madre e vicendevolmente, come se quel bimbo appena nato fosse il figlio di ciascuna di loro: «Benedetto questo figlio che ci è stato donato!».
Tra i vagiti del bimbo, i sospiri della madre, i mormorii della levatrice e il chiacchiericcio di vicine e parenti, la porta si spalancò d’improvviso, lasciando entrare nella casa una folata d’aria gelida. Sull’uscio apparve un uomo di media statura, sulla quarantina, robusto, dal portamento fiero, con gli occhi azzurri e i baffi castani. La levatrice, indignata, gli gridò contro: «Sciagurato, chiudi la porta! Farai ammalare il bambino e tutte noi!».
L’uomo entrò sbattendo la porta alle sue spalle. Con due o tre ampie falcate raggiunse il lato del letto della madre, vi restò in silenzio e senza respirare per qualche istante. Poi, arricciandosi i baffi con orgoglio, gridò di gioia: «Un maschio! Un maschio!».
La levatrice, che non aveva peli sulla lingua, gli rispose tra il serio e il faceto: «Troppo bello per te… Tu non lo meriti!».
«No, no, Umm Ḥannā5, non dire così. Ḫalīl [Sa‘īd] Ğubrān6 merita questo e altro! Anche se sono ubriaco, sono un timorato di Dio». Poi, rivolgendosi alla moglie: «Kāmilah! Giuro di bere l’acqua con cui ti laverò i piedi. Benedetto questo figlio che ci è stato donato! Sai come lo chiameremo? Nostro figlio porterà il nome del fondatore della famiglia: Ğubrān7! Tienilo a mente, donna, non dimenticarlo».
Un sottile velo di tristezza scese sul viso dolce e gentile della madre, che si voltò dall’altra parte per nascondere al marito le due lacrime imprigionate tra le lunghe ciglia.
«Ma… Kāmilah! Kāmilah! Ma perché piangi? Ma quale vergogna! Se non brindo in un’occasione speciale come questa, quando dovrei brindare?».
«Come se qualcuno ti avesse mai visto sobrio!» commentò la levatrice.
«Umm Ḥannā… Umm Ḥannā… Non allargarti troppo! Il tuo lavoro è di tirare fuori i bambini dal grembo delle madri, non di tirare fuori gli uomini dalle botti. E tu, Kāmilah, smettila di piangere! Va tutto bene, sta’ tranquilla. Vedrai che smetterò di bere. Lo giuro su Ğubrān e su questi baffi». E l’uomo si allisciò i baffi con le dita, poi si precipitò verso un armadio a muro da cui trasse manciate di uvetta, mandorle e noci, e iniziò a distribuirle alle donne presenti dicendo: «Mangiate, mangiate alla salute del piccolo Ğubrān!».
Le donne presero e mangiarono il cibo offerto e pregarono a voce alta per la madre e per il figlio: «Che il tuo bambino cresca sano e forte e che Dio sia ringraziato per il tuo parto». Poco dopo accesero le lanterne e si incamminarono nelle tenebre, ciascuna per fare ritorno a casa propria, tutte tranne la levatrice, che rimase accanto alla madre.
1.2. Il mio primo ricordo8
La prima cosa che ricordo è di essere stato ripescato da una piccola vasca – la fontana nel cortile. Stavo giocando con una grossa palla. La palla vi cadde dentro, e io pure. Mi raccontarono in seguito che avevo due anni e mezzo.
1.3. Le tempeste9
«Non so come abbiano fatto a sopportarmi. Solo mia madre, in tutto il mondo, avrebbe potuto capire quello strano bambino che ero. Ero un piccolo vulcano, un vero terremoto».
E raccontava di un giorno in cui cadeva una pioggia battente che lo chiamò, lo chiamò per nome, e lui si spogliò dei vestiti e corse fuori nudo per rispondere a quel richiamo, corse finché la madre e la bambinaia, ormai senza fiato, lo raggiunsero e lo riportarono a casa in braccio mentre lui tentava di divincolarsi e protestava.
«Mi strappai i vestiti e corsi fuori per andare incontro alla tempesta. Mi rincorsero e mi riportarono indietro. Ero fradicio e mi sfregarono con l’alcol. Ma mi è capitato molte altre volte di correre incontro a una tempesta. Tutto ciò che ho fatto di più grande è venuto da una tempesta. Perciò ho intitolato uno dei miei libri Le tempeste10 ».
1.4. Due talenti innati11
«Quale delle due arti Gibran considerava più sua, quale amava di più, la poesia o la pittura?». Quando la gente glielo chiedeva, lui sorrideva. Una volta rispose al padre di due gemelli: «Quale dei tuoi figli puoi dire sia più caro al tuo cuore?».
I due talenti gli appartenevano da sempre. Quando il piccolo Kahlil aveva circa quattro anni, scavò una buca profonda in giardino e vi piantò piccoli pezzi di carta perché mettessero radici dando vita a un folto cespuglio che avrebbe prodotto bei fogli bianchi su cui poter scrivere e disegnare!
Le sue prime poesie non erano scritte in parole, ma erano plasmate con la neve e modellate nella pietra. Figure di una strana bellezza, realizzate in modo tutt’altro che infantile, durante tutto l’inverno prendevano forma dalle sue mani nel giardino di suo padre, e la gente che si trovava a passare di lì diceva: «Guarda cosa ha fatto oggi il piccolo Ğubrān!».
E quando arrivava la primavera, nel mese che in Oriente chiamano di Nīsān12, la neve si scioglieva e le anemoni, «macchiate dal sangue di Tammūz13 », fiorivano in Libano, il bambino raccoglieva dei sassi per costruire piccole chiese e cattedrali all’ombra dei grandi alberi scuri.
Poi da un giorno all’altro, pare, imparò a scrivere. Allora, per un certo tempo, smise quasi di costruire e modellare. Cominciò invece a scrivere a ritmi forsennati, pagina dopo pagina, per poi rileggere quello che aveva scritto e strappare i fogli in mille pezzi. «Non ero mai soddisfatto» diceva nei suoi racconti, per spiegare il motivo del suo gesto.
Ben presto, poi, cominciò a disegnare e a dipingere adoperando matite colorate e pennelli con un fervore davvero inconsueto per un bambino, distruggendo puntualmente le sue opere appena terminate, perché «non erano mai come le mie visioni a occhi chiusi».
Questi eventi della sua infanzia g...