Non si può insegnare tutto
eBook - ePub

Non si può insegnare tutto

  1. English
  2. ePUB (mobile friendly)
  3. Available on iOS & Android
eBook - ePub

Non si può insegnare tutto

About this book

Pensieri e racconti di vita, il percorso personale di una delle maggiori filosofe italiane e la storia del secondo Novecento. Un dialogo utile per uscire dalle immagini stereotipate del movimento delle donne, comprendere lo spessore politico e filosofico del femminismo della differenza e intravedere un'altra pratica dei rapporti tra i sessi, anche all'interno della vita della Scuola. Le riflessioni di Luisa Muraro riaprono alcuni discorsi troppo affrettatamente chiusi, tra cui quello sul rapporto tra la ricerca femminile (e maschile) della libertà e della felicità e la possibilità di usare ancora la parola "Dio". «Il mondo è fatto di relazioni e se pratichi rapporti dove non domina il tornaconto, se dai vita a relazioni in cui trovi il modo di restare fedele a te stesso, agli altri e a ciò che accade, allora stai già partecipando alla trasformazione del mondo».

Frequently asked questions

Yes, you can cancel anytime from the Subscription tab in your account settings on the Perlego website. Your subscription will stay active until the end of your current billing period. Learn how to cancel your subscription.
At the moment all of our mobile-responsive ePub books are available to download via the app. Most of our PDFs are also available to download and we're working on making the final remaining ones downloadable now. Learn more here.
Perlego offers two plans: Essential and Complete
  • Essential is ideal for learners and professionals who enjoy exploring a wide range of subjects. Access the Essential Library with 800,000+ trusted titles and best-sellers across business, personal growth, and the humanities. Includes unlimited reading time and Standard Read Aloud voice.
  • Complete: Perfect for advanced learners and researchers needing full, unrestricted access. Unlock 1.4M+ books across hundreds of subjects, including academic and specialized titles. The Complete Plan also includes advanced features like Premium Read Aloud and Research Assistant.
Both plans are available with monthly, semester, or annual billing cycles.
We are an online textbook subscription service, where you can get access to an entire online library for less than the price of a single book per month. With over 1 million books across 1000+ topics, we’ve got you covered! Learn more here.
Look out for the read-aloud symbol on your next book to see if you can listen to it. The read-aloud tool reads text aloud for you, highlighting the text as it is being read. You can pause it, speed it up and slow it down. Learn more here.
Yes! You can use the Perlego app on both iOS or Android devices to read anytime, anywhere — even offline. Perfect for commutes or when you’re on the go.
Please note we cannot support devices running on iOS 13 and Android 7 or earlier. Learn more about using the app.
Yes, you can access Non si può insegnare tutto by Luisa Muraro in PDF and/or ePUB format, as well as other popular books in Social Sciences & Feminism & Feminist Theory. We have over one million books available in our catalogue for you to explore.
Capitolo terzo
“La traiettoria siamo noi”
“All’improvviso, la Storia è entrata nelle nostre esistenze”: hai detto a proposito del ’68. Ti devo dire che sono rimasto un po’ incantato da quello che questa frase lascia intravedere, ma anche da quello che fa venir voglia di ipotizzare.
Credo di intuire che cosa t’impressiona e perché. Oggi, sembra che la storia ci abbia voltato le spalle. E sono soprattutto i giovani a sentirlo. Diventa difficile, allora, udire quelle parole e non pensare che fosse solo una bella fantasia. D’altronde, c’è chi ha cercato di dirlo: il ’68 è stato solo un’illusione. In questo modo di rappresentare le cose, per contrasto fra realtà e illusione, si nasconde un errore. L’errore, o inganno, consiste nell’opporre le cose a quello che sentiamo e desideriamo, come se la dimensione soggettiva non contasse per la realtà. Nascono così delle rappresentazioni semplificate, in cui figurano sì dei fatti reali, però rappresentati in modo sbagliato, come fatti che ignorano la nostra soggettività.
Ma non è così, non va così. Insisto, primo, perché questa visione semplificata delle cose ci fa perdere il senso giusto della realtà, ignorando che il rapporto tra le cose e le parole non è fisso, cambia di suo e può cambiare anche con noi, in forza dei nostri desideri. Secondo, perché pone una separazione tra la Storia e i vissuti delle persone in carne e ossa, separazione che non c’è, come la Storia stessa talvolta s’incarica di ricordarci.
Mi viene in mente un film inglese, Il discorso del re, di Tom Hooper (2010), giustamente molto premiato. Racconta l’amicizia tra il padre della regina Elisabetta, Giorgio vi, e l’uomo che l’ha aiutato a superare il problema della sua balbuzie in un’occasione speciale, il discorso con cui annunciò al popolo, via radio, che la Gran Bretagna doveva andare in guerra contro la Germania di Hitler. Siamo nel 1939, era l’inizio della seconda guerra mondiale. In contrasto con la retorica abituale delle dichiarazioni di questo tipo, quello fu un discorso veridico: la guerra che siamo obbligati a fare non sarà né facile né breve. A riascoltarlo, suona ancora intenso e solenne, reso tale anche dalla dizione lenta, quasi sillabata, con cui il re teneva a bada la sua balbuzie, sostenuto dalla vicinanza dell’amico logopedista. Il film racconta l’annodarsi delle vicende delle persone: la regina e il re (saliti al trono solo per senso del dovere, in seguito all’abdicazione dell’erede) e il logopedista, da una parte, dall’altra la grande storia che le attraversa e conferisce loro nuovi significati.
È un film che è piaciuto molto anche a me. Ricordo in particolare quella scena commovente in cui il protagonista in lacrime dice alla moglie che non si sente capace di fare il re, di assumere il ruolo che le circostanze gli impongono.
Commovente, sì, ma non in un senso patetico, sebbene la vicenda storica di quell’uomo, che morirà relativamente giovane, logorato dalla fatica del ruolo che dovette assumere, sia patetica. Ma il film, come accade quando si raccontano storie di re, regine e principesse, ha qualcosa di una fiaba e le fiabe sono avventure dell’anima. Nella fiaba del re balbuziente commuove l’obbedienza dell’uomo alla necessità e questo lo accomuna con il più umile dei sudditi e ha un effetto simbolico di elevazione del destino comune alla regalità.
Che cosa c’entra con il Sessantotto? La storia può entrare nella vita delle persone, abbiamo detto senza precisare come. Come, il film lo mostra creando, attraverso lo snodarsi delle vicende, un momento alto di coincidenza fra l’obbligo penoso del re e la necessità che si impone ai sudditi di affrontare i sacrifici e le incognite di una guerra. Il re arriva felicemente alla fine del suo discorso ed è come l’annuncio che Hitler sarà sconfitto.
Una simile coincidenza si è prodotta, alla fine degli anni Sessanta, anche nella mia esperienza, sicuramente comune a tanti altri allora, amici, amiche e milioni di sconosciuti più o meno giovani. Le rivolte giovanili cominciarono, come noto, negli Usa e contagiarono le università, le scuole e la collettività, fabbriche comprese, di molti altri paesi, come un’ondata che monta sotto la spinta di una miriade di situazioni, idee, desideri. Non intendo però fare racconti; so che il mio non sarebbe identico a quelli già fatti perché sono tutti diversi, ma preferisco rispondere alla tua questione che si lega al presente, per afferrare una differenza.
Non si trattò soltanto della guerra del Vietnam, che negli usa voleva ormai dire, per i maschi, essere arruolati obbligatoriamente. Non così da noi. Da loro e da noi si trattava anche dell’università che ci pesava come una costruzione asfittica, cittadella di un sapere ripetitivo ed escludente… Ho sempre trovato significativo che, in Cattolica, la rivolta sia partita dagli studenti di Economia e commercio, che era un corso serale: erano giovani uomini sacrificati non solo nella vita che facevano ma anche nelle tasse più alte che pagavano, nei servizi più scarsi e nella poca attenzione che ricevevano.
A distanza di molti anni, penso che il Sessantotto sia stato, nel suo slancio iniziale, come un ultimo richiamo rivolto, quasi come una sfida, alla modernità perché mantenesse le sue promesse più grandi in fatto di giustizia e di libertà.
Fra le grandi promesse c’era anche l’uguaglianza, naturalmente, che interessava, fra gli altri, anche le donne. In realtà, però, si trattava di diventare uguali agli uomini attraverso l’emancipazione, secondo lo stesso criterio usato verso i colonizzati: più somigliano ai bianchi e più sono civilizzati. Il maschilismo, diffuso nel movimento studentesco come nel resto della società, allora non si notava. Ma io sono una donna e quello che non si notava, che io stessa non vedevo, però lo sentivo: c’erano parti di me che restavano escluse (la mia maternità, in primo luogo) e c’erano delle volte in cui mi sono sentita a disagio. La cosiddetta liberazione sessuale era tagliata su misura dei desideri maschili. Il linguaggio e lo stile della contestazione erano tipici del tra-uomini. Un giorno si andò in gruppo a “contestare” il prof. Mario Apollonio che non aveva difeso la sua assistente Lidia Menapace, cacciata dall’università perché solidale con gli studenti in rivolta (lui avrebbe potuto farlo, come fece il prof. Gustavo Bontadini per me): era evidente che l’uomo, ormai anziano, aveva paura di noi, così me ne andai, con vergogna.
Credo che dovremo tornare su questo tema. Vorrei che ti soffermassi ancora su quel momento in cui hai percepito che la separazione tra Storia e vita per te veniva meno.
Il Sessantotto al quale ho partecipato e di cui parlo, è cominciato nel ’67, con le prime agitazioni della Cattolica, ed è finito il 12 dicembre 1969, con la bomba di Piazza Fontana. Già da alcuni anni ero impegnata nel movimento internazionale per la pace nel Vietnam, perché la logica del più forte non fosse l’unica logica nei rapporti internazionali. All’epoca correvano rivoli di pensiero che diventavano fiumi, fra i libri più amati cito solo la famosa Lettera a una professoressa di don Milani. Fermenti simili c’erano anche in Germania, in Francia o negli Stati Uniti da cui arrivavano anche dei testi, insieme alle notizie di fuga dal servizio militare, di occupazioni e di violente repressioni. C’era rabbia ma c’erano anche idee. Eravamo pronti.
La protesta dei serali in Cattolica diede vita alla prima occupazione di università a Milano. L’assemblea che seguì fu un evento di grande intensità e partecipazione, che mi fece pensare alla riunione separata del Terzo stato all’alba della Rivoluzione francese, tanto ero entusiasta. Dal primo momento, il problema che si pose non era di distribuzione o di diritti ma di senso: in che modo l’università pretende di essere un luogo di sapere? In forza di quale sapere, di quali pratiche e di quali rapporti? All’improvviso cose mai viste, furono viste; mai udite, sono state dette. Devo aggiungere che la questione non si poneva in termini generali, non a me e forse a nessuno. Era un vissuto che si traduceva in parole. Gli studenti serali volevano uscire dalla loro grigia esistenza ed essere presi in considerazione, noi come loro volevamo che l’università non fosse un’infilata di esami preceduti da un’indigestione di libri e appunti, il tutto in un luogo separato e chiuso. Ma soprattutto volevamo esserci e contare.
Oltre all’atto di rivolta, oltre alle parole che finalmente rispondevano alla nostra esperienza, agiva il contagio delle rivolte negli Usa e in Europa. Tutto andava a gran velocità, le cose si snodavano imprevedibili. So bene che ci guidava un’ideologia rivoluzionaria condivisa, non significa però che non ci fosse pensiero, al contrario, lo schematismo delle analisi politiche di sinistra ci era piuttosto chiaro. La guerra del Vietnam, di cui gli amici politicizzati avevano detto che non poteva interessare gli studenti, diventò invece un tema politico costante. A proposito, un giorno decisi di andare a Parigi nella sede della delegazione del Fronte di liberazione a prendere del materiale stampato; ricordo che mi ricevette una placida signora vietnamita intenta a sferruzzare. Ecco una differenza dimenticata, che la convivenza allora non era così armata e sorvegliata come quella di oggi.
Come siamo arrivati alla rivolta, è difficile dire: ci sono certamente vari livelli di cause che sono intervenuti, ma attenzione che lo studio delle cause non cancelli l’esperienza di sorpresa che ci ha investiti. La spiegazione non deve cancellare il tratto di casualità o di contingenza. C’erano tante cose e a un certo punto una scintilla le ha accese. Niente di automatico.
Quando si parla di movimento, si sceglie un’ottima parola che andrebbe presa alla lettera: le situazioni cominciano a schiodarsi dalla loro ripetitività e quindi ad interagire, con loro si muovono e interagiscono anche le persone e si trasformano. Nella mia esperienza, la prima scintilla è legata alla vista di quegli studenti lavoratori che si ribellavano: li avevo sempre visti, dopo le ore 17, passare di corsa tutti simili nei loro vestiti grigi e poi, un giorno, eccoli che sono fermi per protesta davanti ai cancelli dell’università, diversi l’uno dall’altro. Aumentando le loro tasse, l’istituzione aveva passato la misura, non solo economica, ma più profonda. Qualcosa si mise in moto. E a quel punto si trattò innanzitutto di lasciarsi trasportare.
Stai parlando di una specie di fiducia nel movimento stesso delle cose, senza bisogno di organizzazione?
Sì, ho questa fiducia in quanto ho fiducia anche nella capacità umana di cavalcare l’onda. Si pensa naturalmente al surf, sport affascinante. Ma, più modestamente, a me la fiducia è venuta imparando ad andare in bicicletta, da bambina su una bicicletta per grandi.
Nel panorama di oggi, c’è qualcosa di diverso e inquietante; quel tipo di fiducia sembra incrinato, i movimenti che nascono stentano a durare. Che cosa è successo? Quell’energia specificatamente legata alle persone giovani, in quanto portatrici di futuro, oggi sembra che non fluisca nel corpo sociale. In questo cambiamento vedo una caratteristica del nostro presente che domanda una specifica attenzione.
Nel ’68 eravamo convinti di essere la realtà che cambia. Lo eravamo davvero? La realtà stava effettivamente cambiando ed eravamo noi i protagonisti del suo cambiamento? Sul momento non si poteva rispondere sì o no, poiché non soltanto la risposta, ma il senso stesso della domanda dipendeva dal seguito. Il seguito ora lo conosciamo, ma prima di correre a fare bilanci e liquidazioni con il senno del poi, registriamo l’importanza dell’entrata in scena di quelle immaginazioni, di quei desideri e di quelle passioni. Dei giovani si erano messi il mondo nel cuore. Non era la prima volta. Piuttosto c’è da chiedersi se non sia stata l’ultima, vale a dire se non si sia rotta quella molla tipica della civiltà europea e americana che si affidava alle nuove generazioni per i cambiamenti, così come quella premoderna per la trasgressione.
Il pensiero giovanile avrebbe questo di caratteristico: non si piega spontaneamente alle condizioni imposte dalla realtà, soprattutto dalla sedicente realtà che tale non è, ma solo una sua rappresentazione in vigore. Mi ricordo bene di aver pensato: se è vero che ogni generazione riesce a stupire la precedente mettendo in questione ciò che per quella era così certo da non essere nemmeno notato, che cosa potrà mai fare la generazione dopo la nostra? Riusciranno a coglierci di sorpresa? Sì, ironicamente ci sono riusciti, verso la fine del secolo scorso, con quella che alcuni hanno chiamato sbandata verso l’indifferenza politica, anche se io parlerei piuttosto di disaffezione.
A tuo parere dunque non è vero che ci sia un legame essenziale tra giovani e innovazione, come invece sostengono molti, ad esempio il filosofo Thomas Kuhn che collega alle nuove generazioni quelle ricerche che poi innescano le rivoluzioni scientifiche?
In effetti, c’è da chiedersi se esista un simile legame. O se non sia qualcosa di cui ci stiamo rendendo conto che era solo una caratteristica della modernità. Oggi si va farneticando, anche da parte di scienziati, della possibilità di allungare indefinitamente la vita dei già nati. Con che fondamento, non so, ma è un chiaro sintomo del fatto, per altro constatabile, che i vecchi vogliono durare e che la società non ha aspettative speciali nei confronti delle persone giovani, specialmente se di sesso maschile.
C’è il costume di studiare le ultime generazioni come fossero nuove specie animali con caratteristiche esotiche: la generazione x, la generazione y… Meglio sarebbe interrogarsi criticamente sulla violenza che patiscono. Per esempio, che significato si può dare a quello che è accaduto a Genova nel 2001 in occasione del G8? Durante le rivolte degli anni Sessanta e Settanta non si è mai visto tanto disprezzo politico per una manifestazione pubblica e mi riferisco, più che al dettaglio dei fatti, per altro tremendi, al significato complessivo: “potete essere mille, centomila, un milione (a Genova i manifestanti erano un milione), potete dire un sacco di cose giuste, ma noi siamo e restiamo quelli che decidono”.
È esistita l’esigenza sociale di un pensiero indipendente e si aspettava che venisse soprattutto dalle nuove generazioni. Questa generazione non esiste più? Io la sento e sento anche il bisogno della baldanza giovanile. La tristezza delle persone giovani mi pesa.
Mi pare che tu sollevi questo problema anche nel tuo pamphlet Dio è violent, dove racconti della lunga opposizione dei cittadini di Vicenza alla costruzione di una base militare USA alla periferia della loro città: una storia triste per tutti coloro che credono nella partecipazione politica e nella convivenza pacifica perché nessuna argomentazione, manifestazione, riflessione di quegli uomini e di quelle donne è stata ascoltata. Hanno dovuto piegarsi alle decisioni dei più forti. A questo punto aggiungi: «A queste condizioni, se veramente non c’è altro da sapere e da fare, io dico: la storia ha voltato pagina? Bene, noi le volteremo le spalle»1.
Sì, la storia ha voltato pagina rispetto a quella grande vicenda progressiva che si chiama civiltà moderna che, a suo modo, nonostante il molto che non andava, fra cui la condizione imposta alle donne, riusciva a dare spazio alla partecipazione e quindi all’energia pensante delle generazioni giovani. La Costituzione italiana ne è un frutto tardivo ma di prima qualità.
Se al suo posto subentra un connubio tra la legge del più forte e l’universalismo del consumo, allora dico che si voltino le spalle alla storia che pretende di andare avanti come niente fosse! Il mio invito non ha niente a che vedere con la fuga nel privato o cose simili. È invece un invito a riconoscere la possibilità di tessere un altro ordine di rapporti, a partire da sé, sfruttando le possibilità che ci sono e cessando di delegare ad altri la propria vita.
L’ho imparato con la politica delle donne: una politica in cui, senza adattarsi all’esistente e senza sfidare il reale, si ascoltano i desideri, si ragiona e si agisce di conseguenza, consapevoli che il cambiamento introdotto in una situazione può essere ripreso in un orizzonte più grande.
Un bell’esempio di questo movimento che si amplifica lo offre quel gruppo che fa capo alla Libreria delle donne e che nel 2008, dopo un anno passato a raccogliere racconti di vita vissuta, ha lanciato il doppio sì come una parola d’ordine di giovani donne che dicono sì al diventare madri e sì all’autorealizzazione nel mondo del lavoro: non i rattoppi della conciliazione fra famiglia e lavoro, ma un aperto e forte doppio sì che può dar luogo a contraddizioni e conflitti, da affrontare nella prospettiva di un cambiamento dell’organizzazione del lavoro. E a questo scopo hanno inventato una “agorà del lavoro”.
Questa idea di politica che descrivi non ha in sé qualcosa della tradizione materialista?
Ti riferisci al materialismo storico? Negli anni Sessanta, Marx si leggeva e si studiava ovunque, anche in Cattolica; ricordo di avere seguito un corso sul giovane Marx tenuto dalla prof. Sofia Vanni Rovighi.
Il movimento e il pensiero politico femminista nascono nella matrice culturale degli anni Sessanta e veicolano fino a noi momenti importanti di quella cultura – intendiamoci, parlo del femminismo radicale che lega la libertà delle donne non alla parità con gli uomini ma al senso libero della differenza sessuale.
Dalla tradizione materialista al femminismo viene forse il primato della pratica sulla teoria, molto sentito in Italia tanto che non abbiamo chiesto l’istituzione di Women’s Studies, che avrebbero isolato la ricerca femminista all’interno dell’università. L’importanza della sessualità viene invece dalla psicoanalisi… L’elenco potrebbe continuare e non sarebbe senza interesse, ma differirebbe dalla creazione storica come una ricetta scritta differisce dall’alta cucina di una cuoca provetta. E poi non c’è continuità: il femminismo che nasce in quegli anni, quello della seconda ondata per distinguerlo dal femminismo di matrice ottocentesca, nasce con una forte carica critica nei confronti dei partiti organizzati e dei gruppi rivoluzionari che fior...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione
  5. Capitolo primo: Un filo di felicità
  6. Capitolo secondo: Il libro di filosofia
  7. Capitolo terzo: “La traiettoria siamo noi”
  8. Capitolo quarto: Non si può insegnare tutto
  9. Libri e altri testi citati
  10. Sommario
  11. Quarta di copertina