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Educazione e alterità culturale
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L'Occidente, cresciuto nell'incontro con l'alterità, può vivere il fenomeno migratorio come un'opportunità e una sfida. Per raccoglierla veramente è fondamentale non solo essere accoglienti, ma riconoscere i riferimenti culturali di questa evoluzione. Diventa così possibile allontanare i rischi di scontro e dissoluzione sociale e acquisire consapevolezza dell'identità occidentale e dei valori che la costituiscono. Il volume affronta la questione in chiave pedagogica attraverso un ampio saggio introduttivo, una selezione antologica e una raccolta di schede didattiche.
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Information
Parte seconda
Antologia
I
L’antichità e il medioevo
1. Platone: “Greci e barbari”1
T 12
Nel dialogo, tratto dalla lunga riflessione della Repubblica platonica circa l’edificazione dello “Stato perfetto”, emerge chiaramente il pregiudizio etnocentrico greco secondo cui occorre riconoscere una radicale differenza tra Greci e barbari. I primi, che tra loro sono chiamati alla fratellanza, devono assoggettare i secondi in nome della loro “inferiorità” culturale.
– E certo non porteremo le armi nei templi per appenderle come doni votivi, specialmente quelle degli Elleni, se un poco ci preme di essere benevoli verso gli altri Elleni; anzi dovremo temere che sia una specie di contaminazione portarvi simili oggetti tolti a familiari, a meno che il dio non si esprima diversamente. – Benissimo, rispose. – E che dire della devastazione del territorio ellenico e dell’incendio delle case? Come dovranno comportarsi i tuoi soldati con i nemici? – Ti ascolterei, volentieri, disse, esprimere la tua opinione – A me dunque sembra bene, risposi, che non facciano nessuna di queste due cose, ma portino via il raccolto dell’annata. E vuoi che ti dica perché? – Proprio. – Mi sembra che, come si usano questi due nomi di guerra e discordia, così anche siano due le cose, che si riferiscono a due sorta di dissensi. Queste cose sono per me una familiare e congenere, l’altra estranea e straniera. Ora, l’inimicizia con quella familiare si chiama discordia, quella con l’estranea guerra. – Non c’è nulla, fece, che tu dica a sproposito. – Vedi allora se dico a proposito anche questo. Dico che la razza ellenica è unificata dalla familiarità e dall’affinità, mentre rispetto ai barbari è estranea e ostile. – Bene, disse. – Diremo allora che, quando combattono, gli Elleni fanno guerra ai barbari e i barbari agli Elleni; che si tratta di un’inimicizia naturale cui si deve dare il nome di guerra; e che invece, quando si scontrano Elleni con Elleni, essi sono per natura amici, ma che in tale circostanza l’Ellade è malata e in preda alla discordia, e che per quest’inimicizia si deve usare il nome di discordia. – Consento in questo pensiero, disse. – Considera dunque, continuai, in quella che ora si è convenuto di chiamare discordia, dovunque il caso si verifichi e uno Stato si divida, in un reciproco saccheggio di campi e incendio di case, considera, ripeto quanto odiosa sembri la discordia e quanto appaiano nemici della patria gli uni come gli altri; perché mai avrebbero dovuto osare di devastare la loro nutrice e madre. La giusta misura sembra invece questa: che i vincitori portino via i raccolti dei vinti e pensino a una prossima riconciliazione, e non a mantenere un perpetuo stato di guerra. – Questo modo di pensare, disse, rivela un grado di mitezza assai maggiore di quanto non riveli il primo. – Ma v’è di più, continuai; lo Stato che fondi non sarà ellenico? – Dev’esserlo, rispose. – E i cittadini non saranno buoni e miti? – Sicuro. – E non forse amici degli Elleni? E non sentiranno la loro parentela con l’Ellade e non avranno i culti in comune con gli altri? – Anche questo sicuramente! – Tornando dunque al dissenso con gli Elleni, per questa parentela non lo considereranno discordia senza chiamarlo guerra? – No, non lo chiameranno guerra. – E allora dissentiranno già pronti nel pensiero a riconciliarsi? – Senza dubbio. – Dunque li correggeranno benevolmente, senza castigarli fino a ridurli schiavi o a sterminarli, perché saranno correttori, non nemici. – È così, rispose. – E quindi, dal momento che sono Elleni, non porranno a sacco l’Ellade e non inceneriranno le case e non riconosceranno in ciascuno Stato tutti come loro nemici, uomini, donne, fanciulli; ma nemici riterranno i responsabili del dissenso, che sono sempre poche persone. E per tutti questi motivi non vorranno saccheggiarne il territorio, se i più sono amici, né demolirne le case, ma prolungheranno il dissidio fino a che, per le sofferenze che patiscono, i non colpevoli costringano i colpevoli a pagare la pena. – Io sono d’accordo, rispose, che così devono comportarsi i nostri cittadini con gli avversari; con i barbari invece come ai nostri giorni gli Elleni tra loro. – Ebbene, possiamo dare ai guardiani anche questa legge, di non devastare il territorio e di non incendiare le case? – Diamola pure, rispose, e consideriamo buone queste norme e le precedenti.
2. Ippocrate: “I caratteri di asiatici e europei”2
T 13
In questo brano ritroviamo il pregiudizio verso i barbari, ma associato alle pratiche culturali che – essendo connotate dall’assoggettamento al regime tirannico del signore – si risolvono – diremmo oggi – nella demotivazione rispetto alla intraprendenza e alla responsabilità. Va tuttavia rilevato che il riconoscimento anche dell’influsso negativo della congiuntura climatica getta una luce nuova sulla considerazione di fondo. Infatti, lascia intendere che gli stessi Greci ne condividerebbero il profilo – senza alcuna responsabilità – se vivessero nei luoghi dove sono stanziati i barbari. Si introduce una condizione che relativizza la situazione e attenua il pregiudizio ideologico correlato al giudizio morale.
E riguardo alla natura e alle differenze di conformazione delle popolazioni dell’Asia [e dell’Europa], così stanno le cose. Per quel che riguarda poi la mancanza d’animosità e di virilità degli uomini, del fatto che sono più imbelli degli Europei, gli Asiatici e più docili di carattere, responsabili sono soprattutto le stagioni che non fanno grandi cambiamenti né nel senso del caldo né in quello del freddo, ma sono tra loro vicine. La mente allora non si scuote né avvengono forti mutamenti fisici per cui ci si inselvatichisce evidentemente nell’indole e di più si partecipa della irriflessività e dell’animosità (…). Sono infatti i cambiamenti di tutte le situazioni che destano la mente dell’uomo e non la lasciano nell’immobilità. Per queste ragioni a me sembra che sia fiacca la razza asiatica, ed oltre a ciò per le loro usanze. Il fatto è che la gran parte dell’Asia è sotto i re; e dove gli uomini non sono loro ad avere forza su di sé e non sono autonomi, ma sotto un signore, non vale per loro il discorso di come possano darsi agli esercizi bellici, ma di come possano non sembrare d’essere combattivi. Perché i pericoli non sono gli stessi: loro in effetti devono evidentemente per forza partir soldati, faticare e morire per i loro signori, lontani dai figli, dalla moglie e dal resto dei cari. E quante imprese valenti e virili compiano, sono i signori ad ingrandirsi e ad accrescersi per esse, ma a loro fruttano pericoli e morti.
3. Erodoto: “Le origini delle piene del Nilo”3
T 13 S 149-150
Il grande storico greco si interroga circa l’origine delle piene del Nilo, mostrando una disposizione alla ricerca “scientifica” nel senso che raccoglie con cura e precisione le notizie, procedendo a una comparazione. Si tratta del profilarsi di un metodo d’indagine che permette – in ambito antropologico – di relativizzare i pregiudizi culturali.
Desideravo sapere da loro perché, per cento giorni a partire dal solstizio d’estate, il Nilo scorra in piena e poi, allo scadere di questi cento giorni, si ritiri e decresca di livello, in modo tale che per tutto l’inverno, fino al nuovo solstizio estivo, rimane in magra. Sull’argomento non sono riuscito ad apprendere nulla da nessuno degli Egiziani, quando chiedevo loro in base a quale sua proprietà il Nilo si comporti in modo opposto agli altri fiumi. Li interrogavo per avere una risposta a tale domanda e inoltre per sapere perché, unico tra tutti i fiumi, non dà vita a brezze. Ma alcuni Greci, volendo distinguersi per sapienza, hanno formulato tre spiegazioni diverse riguardo alle variazioni di portata di questo fiume: di esse due non le ritengo degne di essere illustrate, ma mi limito a segnalarle. Una afferma che i venti etesii sono la causa delle piene del fiume, in quanto impedirebbero al Nilo di riversarsi nel mare. Ma spesso i venti etesii non spirano affatto, eppure il Nilo si comporta nello stesso modo. Inoltre, se la causa fosse costituita dai venti etesii, anche gli altri fiumi, che scorrono in direzione opposta a quella di questi venti, dovrebbero essere soggetti allo stesso fenomeno del Nilo e in misura ancora più rilevante dal momento che, essendo più piccoli, hanno una corrente più debole: invece ci sono molti fiumi in Siria e molti in Libia per i quali non si verifica nulla di simile a ciò che accade con il Nilo. La seconda spiegazione è meno scientifica della precedente, ma più affascinante da esporre: afferma che il Nilo si comporta in questo strano modo perché ha origine dall’Oceano e che l’Oceano circonderebbe tutta la terra. La terza spiegazione, pur essendo di gran lunga la più plausibile, è la più falsa. Infatti neppure questa spiega nulla, dato che sostiene che il Nilo trae origine da nevi disciolte: ora il Nilo proviene dalla Libia, scorre attraverso l’Etiopia e sfocia in Egitto: come potrebbe essere alimentato dalle nevi, se defluisce dalle regioni più calde del mondo verso regioni più temperate? Per un uomo che sia in grado di ragionare su simili argomenti, ci sono molti fatti – i seguenti – e dimostrano che non è verosimile che il Nilo abbia origine dalle nevi. Una prima e importantissima prova la offrono i venti: quelli che spirano dalle regioni in questione sono caldi. Una seconda prova è costituita dal fatto che quella zona è perennemente priva sia di pioggia sia di ghiacci: ora, quando si verifica una nevicata, è inevitabile che piova entro cinque giorni: quindi, se in quel Paese nevicasse, dovrebbe anche piovere. Una terza prova è poi data dal fatto che gli abitanti hanno la pelle nera per il grande calore. Infine i nibbi e le rondini vi restano per tutto l’anno senza migrare, mentre le gru, fuggendo l’inverno della Scizia, si recano in quei luoghi per svernare. Se invece nevicasse, sia pure poco, nella regione in cui il Nilo scorre e in quella in cui nasce, non accadrebbe nulla di tutto questo, come il ragionamento dimostra necessariamente. Chi poi ha parlato dell’Oceano, poiché ha portato il discorso nel campo dell’ignoto, si sottrae a ogni confutazione: per quanto mi riguarda non mi risulta che esista un fiume Oceano, ma credo che Omero o qualcuno dei poeti precedenti abbia inventato questo nome e l’abbia introdotto nella poesia.
4. Eschilo: “Il dialogo tra la regina e il coro”4
T 14
La tragedia eschilea I Persiani è di pochi anni successiva allo scontro tra i Greci e l’esercito di Dario. Per questa ragione, colpisce l’umanità dell’autore nel descrivere lo smarrimento della regina di fronte alla sconfitta dell’esercito e alla morte del re. Emerge un senso di pietà che conferma il riconoscimento di una comunanza tra gli esseri umani, più forte di ogni differenza.
Regina. Miei cari, chi ha commercio di sventure
ben sa che, quando giungono i marosi
dei mali, l’uomo ha paura di tutto,
mentre, se il corso della sorte è lieto,
spera che tutto vada a gonfie vele.
Ormai per me non c’è che la paura
dovunque. Ecco la collera divina
negli occhi, e negli orecchi urla sinistre:
tanto sbigottimento mi stordisce!
Così, ho fatto la strada senza il cocchio,
sono tornata senza quella pompa
di prima; ho in mano i libami [le offerte] che placano
i morti, per il padre di mio figlio:
buon latte bianco di pura giovenca,
e quel miele lucente che distilla
l’operaia dei fiori [l’ape]; acqua di fonte,
e il liquore che nasce da selvaggia
madre, il pretto [puro] ristoro della vite;
e c’è il frutto fragrante dell’olivo
biondo, che sempre vive ha le sue fronde;
ci sono i fiori, figli della terra,
a ghirlande. Su queste offerte agl’inferi
levate canti, ed evocate Dario,
divino re, mentre agli dèi dei morti
verso i libami che berrà la terra.
[La regina compie le offerte rituali sulla tomba di Dario]
Coro. Venerata regina di Persia, tu invia
i libami laggiù nelle sedi segrete,
mentre noi pregheremo le scorte dei morti
coi canti, perché
sotto terra ci facciano grazia.
5. Platone: “Il non-essere come diversità”5
T 16
In questo brano Platone sottopone a esame la riflessione parmenidea giungendo a riconoscere l’esistenza “relativa” del “non essere” come “diversità”. L’esempio è quello del movimento che identifica stati diversi, comunque esistenti nella loro varietà. Evidentemente si tratta di una tappa fondamentale in ordine alla esplorazione del nesso esistente tra Occidente e alterità culturale.
LO STR. Ricordi bene. Ma è tempo di decidere che cosa bisogna fare col sofista. Infatti le obiezioni e le difficoltà, qualora noi lo vogliamo studiare collocandolo nell’arte dei mistificatori e degli incantatori, tu vedi facilmente sorgono e in gran numero. TEET. Vedo proprio. LO STR. Di queste noi abbiamo percorsa una piccola parte e sono, direi, innumerevoli. TEET. E allora, a quanto pare, se le cose stanno così non sarà possibile catturare il sofista. LO STR. Che cosa? Saremo ormai fiaccati tanto da abbandonare l’impresa? TEET. Io non dico certo che dobbiamo far questo, ammesso però che siamo capaci di riuscire a toccare in qualche modo quest’uomo, anche con la punta del dito. LO STR. Sarai dunque indulgente e, come hai appena detto, ti accontenterai se in qualche modo, e anche se per poco, ce la caveremo da un discorso così duro? TEET. Come non essere indulgente? LO STR. Allora di questo io ti voglio pregare ancora con maggiore insistenza. TEET. Di che cosa? LO STR. Non credere che io divenga quasi un parricida. TEET. E perché mai? LO STR. Perché, per difenderci, sarà necessario che noi sottoponiamo a esame il discorso del nostro padre Parmenide, e dovremo sostenere con forza che ciò che non è, in un certo senso, è esso pure e che ciò che è, a sua volta in certo senso non è. TEET. Mi par evidente che è proprio questo che noi, durante i nostri discorsi, dobbiamo cercare di dimostrare. (…)
LO STR. Avanti allora, di dove iniziare il nostro temerario discorso? Io penso, figlio, che sia questa la strada verso cui per necessità ineluttabile noi ci dobbiamo avviare. TEET. Quale? LO STR. Prima di tutto esaminare ciò che ora ci pare chiaro, per vedere che non si sia fatta nessuna confusione in proposito e per evitare un nostro troppo facile accordo quasi avessimo di ciò ben giudicato. TEET. Devi dire più chiaramente ciò che hai in mente. LO STR. Mi pare che Parmenide tratti con noi usando certa bonarietà e così chiunque si sia avventato ad enunciare un giudizio che definisca quantitativamente e qualitativamente l’essere in quanto tale. TEET. Come? LO STR. Ciascuno di questi mi pare ci racconti una favola, quasi fossimo bambini; uno dice che l’essere in quanto tale è tre cose e talvolta alcune di queste combattono fra loro in qualche modo, talaltra divengono amiche e fanno nozze, generano figli ed altro che sia ai figli di nutrimento [Ferecide di Siro, VI sec., oppure Jone di Chio, V sec.]; un altro afferma che è due cose, l’umido e il secco oppure il caldo e il freddo, e queste fa coabitare insieme ed unisce in matrimonio [Archelao di Atene, V sec.]. Da noi invece la gente eleatica, che discende da Senofane [570-475] e anche da più lontano, racconta le sue favole, partendo dall’ipotesi che ciò che si indica comunemente con “tutte le cose” non sia che una cosa sola. Certe Muse della Jonia [Eraclito, 535-475] e più recentemente di Sicilia [Empedocle, V sec.] hanno pensato che via più sicura di tutte era fondere le due concezioni e dire che ciò che è, è molteplice e uno, e per amore e per odio sta insieme. Le più intonate di queste Muse dicono che “nel disaccordo sempre concorda”; quelle invece meno rigide allentarono la necessità di questo sempre esser così dicendo che, con alterna vicenda, ora il tutto è uno e amico a se stesso per l’opera di Afrodite, ora molteplice ed a se stesso nemico per l’azione di una certa discordia. Io penso che sarebbe difficile, dopo aver cercato in tutto ciò se uno di questi, per esempio, ha detto cose vere o no, sarebbe difficile e fuori luogo fare rimproveri su questioni di sì grande portata ad uomini tanto illustri ed antichi; una cosa invece ci è dato di dichiarare senza attirare su di noi alcuna impopolarità. TEET. Che cosa? LO STR. Che essi hanno troppo avuto in dispregio la moltitudine che noi siamo guardandoci dall’alto: infatti senza badare minimamente se noi seguiamo le loro parole oppure se noi li lasciamo andare soli, ciascuno di essi batte la propria strada fino in fondo. TEET. Come dici? LO STR. Quando uno di loro si esprime dicendo che l’essere in quanto tale, è venuto ad essere, è nel corso di venire ad essere molti, uno, due, e parla del caldo che si mescola al freddo, ponendo in ipotesi disgregazioni ed aggregazioni che avvengono per qualche via in luoghi diversi, ogni volta, Teeteto, che parla qualcuno di costoro, tu, per gli dèi, capisci qualcosa di questo che dicono? Io, quando ero più gio...
Table of contents
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Sommario
- Introduzione
- Parte prima: Saggio introduttivo
- Parte seconda: Antologia
- Parte terza: Schede didattiche
- Indice dei nomi
- Quarta di copertina