Counseling a scuola
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Lo school counseling è una pratica particolarmente promettente, nella sua capacità di affrontare problematiche cruciali dell'educazione e della società. In Italia la professione del counselor è in forte via di sviluppo, mentre negli Stati Uniti ha una lunga e consolidata tradizione. I nove contributi che compongono il volume esplorano le diverse potenzialità e le sfaccettature di una pratica che necessita nel nostro Paese di un preciso statuto e di adeguati percorsi di formazione. Esaminare lo sviluppo e l'attuale situazione dei counselor negli Stati Uniti può offrire indicazioni utili sulle azioni da intraprendere in Italia. Un testo tra la ricerca e la formazione, indirizzato a tutte le figure professionali che ruotano attorno al mondo della scuola e a chi desidera approfondire una tematica sempre più attuale. «Avere cura della mente significa aver cura dei pensieri e delle emozioni che condensano la nostra essenza. Se si accetta questa assunzione ontologica, la questione pedagogica da indagare consiste nel capire in quali direzioni dovrebbe muoversi l'agire educativo e con esso l'azione di counseling».

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Information

Publisher
La Scuola
Year
2014
Print ISBN
9788835028628

1. Il senso primo dell’educare

Oggi domina una visione tecnicistica e mercantile dell’educazione: la scuola è concepita quasi esclusivamente come il luogo dove si apprendono competenze per diventare competitivi nel mondo del lavoro. L’ambiente di apprendimento è concepito come contesto funzionale a favorire l’acquisizione dei saperi, sviluppando soprattutto la parte intellettuale della persona, cui si aggiunge un’educazione sociale riduttivamente concepita solo come acquisizione di regole e comportamenti che consentono l’inclusione nell’ambiente di vita.
Questa visione di educazione è riduzionistica, poiché non tiene conto dei bisogni ontogenetici della persona nella sua complessità.
Il riduzionismo è la conseguenza di un pensare impoverito, ed è impoverito innanzitutto perché ha perso padronanza del sapere formativo che è alle radici della nostra cultura. Un sapere molto più attento al problema specificatamente pedagogico di coltivare l’umanità dell’essere che noi siamo.
Per uscire dai limiti di un paradigma formativo riduzionistico è necessario dedicare la riflessione a capire l’essenza propria di un agire educativo capace di coltivare il nostro essere nella sua essenza più propria.
Per cogliere l’essenza dell’agire educativo è prioritario individuare qual è la primaria direzione di senso dell’esperienza umana, perché l’educazione attualizza la sua finalità propria di facilitare il fiorire dell’umanità della persona se si muove in sintonia con la qualità ontogenetica essenziale dell’esserci.
Secondo Heidegger (1976), il cui pensiero è qui assunto come fondamento basilare del discorso, la qualità primaria dell’esperienza umana è la cura, perché la cura è condizione necessaria del divenire dell’esistenza. Lévinas afferma che la cura «è imposta dalla solidità dell’essere che comincia già ingombro della pienezza di se stesso» (Lévinas 1997, p. 21); la solidità è qualità opposta alla leggerezza e all’essere umano non è dato di vivere come fosse un vento leggero, ma da subito, da quando col nascere è toccato dalla luce, il suo cominciamento è appesantito dal compito di dover avere cura della sua vita, di «aver cura dell’essere per la propria durata e conservazione» (Lévinas 1997).
La cura è ciò cui ciascuno è chiamato perché mancante d’essere e per questo addossato della responsabilità di dare forma al suo divenire in modo da realizzare una vita degna di essere vissuta.
Ma proprio in quanto mancanti di essere nessuno è autosufficiente rispetto al compito di dare forma al proprio divenire; noi necessitiamo dell’esserci degli altri per realizzare noi stessi, siamo cioè esseri plurali, che si nutrono della relazione con altri. Se la cura costituisce una primarietà ontologica e se noi si è esseri mancanti di essere e quindi bisognosi dell’altro, allora noi abbiamo necessità di ricevere cura, e questo ricevere cura diventa possibile nella misura in cui ciascuno ha cura per altri. «La cura costituisce il fondamento della vita umana» e «ogni persona desidera essere oggetto di cura», per tale ragione «il mondo sarebbe un luogo migliore se ciascuno avesse cura degli altri» (Noddings 2002, p. 11). L’aver cura per altri si qualifica dunque come un modo essenziale dell’esserci.
La cura prende varie forme: l’accudimento materno, il sostegno amicale, l’azione terapeutica sia psicologica che fisica, ma in particolare prende la forma dell’educare, si qualifica come cura educativa.
Poiché la cura è ontologicamente basilare e l’educazione ha a che fare col cuore della vita, l’educazione non può non assumere come centrale il concetto di cura.
Una teoria pedagogica basilare nella cultura occidentale è quella formulata da Socrate; dal momento che al cuore dell’organigramma di questa visione pedagogica c’è il concetto di cura, sarà la teoria socratica a guidarci nella concettualizzazione della direzione di senso dell’agire educativo.
Socrate afferma che il compito di chi assume un ruolo educativo consiste nel coltivare nell’altro la disposizione e la capacità di aver cura di sé.
Nel Lachete, troviamo Lisimaco affermare la primarietà della pratica educativa, intesa come quel prendersi cura dei giovani che ha come obiettivo di guidarli a prendersi cura di se stessi, perché solo avendo cura di sé si diventa degni della vita che ci è data (Lachete, 179d). L’aver cura di sé ha come direzione di senso quella di divenire quanto più possibile eccellenti (Platone, Lachete, 179a-b). Il problema pedagogico consiste nel capire «cosa si deve imparare e di cosa ci si deve occupare per divenire eccellenti» (Lachete, 179d-e). In altri dialoghi (Apologia di Socrate, Alcibiade Primo) Socrate ci spiega che per divenire eccellenti è necessario dedicarsi a coltivare l’arte di esistere.
L’arte di esistere è la sapienza propriamente umana, di cui parla Socrate (Apologia di Socrate, 20d) che consiste nell’avere «una conoscenza sicura della virtù del vivere umanamente e politicamente» (Apologia di Socrate, 20b).
L’arte di esistere è necessaria perché il nostro essere non è compiuto, ma nasciamo da subito sobbarcati del compito di dare forma al nostro essere. Il nostro essere è un divenire, il divenire è tale perché accade nel tempo, il nostro è un tempo finito ed è nella parentesi temporale che ci è data che dovremmo dare forma al nostro esserci.
Socrate concettualizza questo compito ontologico dicendo che si deve apprendere ad avere cura di sé. Si deve avere cura di sé perché la nostra sensibilità ontologica avverte come inaggirabile la necessità di autenticare il tempo della vita. Il termine “autenticità” è divenuto un termine largamente usato a partire da Heidegger e poi è stato ripreso da Charles Taylor, che parla di «ethics of authenticity».
Si può interpretare questo concetto liquido alla luce della filosofia di Edith Stein, che parla di una vita impiantata su se stessa perché sa trovare il suo centro (Stein 1997, p. 35), per indicare quella fenomenicità ontologica che si realizza quando la persona agisce sulla base di ponderate valutazioni prese alla luce di principi del vivere che sono continuamente meditati nel vivo. È inautentica una vita fatta di atti impersonali, quelli in cui ci si lascia accadere secondo modi già decisi da altri, e non si decide il proprio esserci a partire da sé. Se la dimensione di inautenticità si può dire coincidere col vivere così come accade di trovarsi senza un investimento progettuale, quella autentica consiste, invece, nel vivere assumendo su di sé il compito di far gemmare direzioni di senso.
Se di importanza decisiva è l’aver cura di sé, diventa essenziale comprendere in che cosa consista tale pratica. Socrate sostiene che per capire in che cosa consiste questo compito è necessario identificare l’essenza di questo “sé” (Alcibiade Primo, 129b). L’essenza viene individuata nell’anima, poiché «l’anima è l’essere umano» (Alcibiade Primo, 130c). Noi siamo fatti di mente e di corpo, ma secondo Socrate a identificare la specificità dell’essere umano è la sua parte immateriale, la vita dell’anima, perché il senso della vita che ciascuno va cercando è il lavoro che fa l’anima.
Dal momento in cui si pone l’assunzione ontologica secondo la quale la parte essenziale di sé è l’anima (Alcibiade Primo, 130e), allora l’aver cura di sé prende il significato di aver cura dell’anima (Alcibiade Primo, 132c). Davanti ai giudici di Atene, che lo stanno ascoltando in giudizio, Socrate dichiara che «non del corpo si deve aver cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e più dell’anima, cosicché questa diventi la migliore possibile» (Apologia, 30a). L’educazione è dunque una pratica che trova il suo senso nel promuovere nei giovani la cura dell’anima (Lachete, 185e).
Dal momento che l’anima identifica la sostanza immateriale del nostro essere e avendo la parola “anima” forti risonanze religiose, risulta fondato parlare di cura della mente, e più precisamente – poiché la mente non è una cosa che una volta data nel mondo rimane uguale a se stessa nel tempo, ma la sua essenza è quella di un fluire di vissuti – risulta più corretto parlare di cura della vita della mente. Date queste assunzioni si può affermare che l’educazione si realizza come promozione nell’altro della capacità e della passione di aver cura della vita della mente.
La questione centrale si profila dunque la seguente: stabilire in che cosa consiste la vita della mente per poi definire in che cosa consiste la pratica di cura. Solo tale indagine tratteggia lo sfondo da cui dare forma all’arte dell’educare e anche al senso dell’attività di counseling.
I vissuti che sostanziano la vita della mente sono fatti di pensieri e di emozioni. Non viviamo a contatto diretto con le cose, ma con le idee che abbiamo di esse e attraverso i sentimenti e le emozioni che permeano il nostro essere; sono i pensieri e le emozioni a strutturare lo spazio di realtà in cui viviamo. Avere cura della mente significa aver cura dei pensieri e delle emozioni che condensano la nostra essenza. Se si accetta questa assunzione ontologica, la questione pedagogica da indagare consiste nel capire in quali direzioni dovrebbe muoversi l’agire educativo e con esso l’azione di counseling.

2. Aver cura del pensare

Per comprendere come avere cura del pensare è necessario comprendere in che cosa consiste l’attività di pensiero. A tale scopo è utile partire dalla distinzione arendtiana fra conoscere e pensare.
Reinterpretando la distinzione kantiana fra ragione e intelletto, Hannah Arendt stabilisce la distinzione tra “pensare” e “conoscere”; tale distinzione si fonderebbe sulla differenza di interessi che mettono in moto queste due facoltà: il pensare è interessato alla ricerca di significato mentre il conoscere cerca il sapere. Il conoscere è definibile come quell’attività cognitiva che mira a costruire conoscenze rigorosamente fondate sul mondo, che sistematicamente ordinate danno corpo alle scienze; il pensare come quella che si occupa di cercare orizzonti di senso per l’agire (Arendt 1987). Mentre il conoscere sarebbe mosso dal bisogno di spiegare ciò che accade, il pensare risponderebbe alla necessità di capire come stare nel reale. A fare la differenza è il tipo di interrogazioni che muovono queste due attività cognitive: il conoscere scaturisce dalla curiosità che si nutre per il mondo, dal desiderio di spiegare ogni fenomeno; il pensare si nutre di quelle questioni enigmatiche che problematizzano l’esperienza e che hanno a che fare col problema di dar senso al proprio esistere. La mente non può sfuggire dal confrontarsi con tali questioni perché sono per l’essere umano del più alto valore esistenziale.
Ci sarebbe quindi tra il conoscere e il pensare una differenza sostanziale, al punto da far dire a Heidegger che «la scienza non pensa» (Heidegger 1988, p. 4), valutazione che non va intesa a delegittimare la ricerca scientifica quanto a evidenziare una differenza sostanziale tra la sfera del conoscere e quella del pensare. A differenza dei problemi che sono all’origine della ricerca scientifica, per i quali è possibile nel tempo trovare risposte certe (seppure in senso relativo), cioè empiricamente verificabili, per le “questioni di significato” non sono accessibili risposte dotate di irrefutabile certezza, ma solo ipotesi provvisorie che chiedono un continuo ritorno meditativo.
Pensare è porsi domande spaesanti, quelle che la ragione trova quando si confronta con il mistero delle cose: perché c’è quell’essere che noi siamo e non, piuttosto, il nulla?Molto del pensiero filosofico prende forma dal pensare questioni spaesanti, che più sono esaminate e più intensificano la percezione di fragilità della condizione umana. L’essenza delle domande proprie del pensare è quella di essere non-rispondibili, nel senso che nessuna risposta, per quanto meditata nel profondo, può soddisfare la domanda.
Le domande non-rispondibili possono essere di due tipi: metafisiche ed etiche. Le domande metafisiche si occupano di questioni che vanno oltre la realtà direttamente esperibile: che cosa è l’essere? Che cosa è il tempo? C’è e qual è la destinazione del divenire umano?
Le domande etiche nascono dal bisogno di trovare una misura del vivere bene: in cosa consiste il bene? Cos’è la giustizia? Queste domande vitali danno voce al bisogno propriamente umano di individuare quel principio d’ordine che consentirebbe di orientare il proprio esistere.
Il pensare che interroga questo tipo di questioni è un lavoro mai terminato, perché anche la risposta più meditata è destinata a essere sempre approssimativa, dal momento che il bene, la giustizia sono concetti difficili da afferrare. Il pensare è attività paradossale, perché interrogare e comprendere tali questioni è un’attività che non può essere evitata, ma nello stesso tempo non può neppure essere portata a termine.
Le domande del pensare portano il pensiero oltre ciò che è dato, rispondendo così alla tensione propriamente umana alla trascendenza, cioè alla ricerca dell’ulteriore. Dal momento che evitare le questioni del pensare significa venir meno alla qualità radicalmente interrogante propria dell’essere umano, Heidegger considera la metafisica «l’accadimento fondamentale nell’esserci. Essa è l’esserci stesso» (Heidegger 1929, p. 65). In un’epoca di scientismo dilagante, in cui si vorrebbe risolvere tutto attraverso il ragionamento scientifico, risulta ancora più pressante per l’educazione il compito di recuperare le domande non referenziali, meta-empiriche, che danno voce al bisogno di cercare una comprensione profonda delle cose e con essa una misura per abitare con senso il mondo.
Tali domande, però, dovrebbero essere poste non a partire da pensieri astratti, da teorie già codificate, ma a partire dalla situazione vissuta dell’esserci che solleva la domanda; l’interrogare metafisico ha senso se «noi interroghiamo qui ed ora, per noi» (Heidegger 1929, p. 65), stando radicati nell’esperienza così da trovare pensieri che l’esperienza possano rischiarare.
Le questioni destinate a rimanere aperte sono per il pensare “domande legittime”, mentre illegittime sono quelle per le quali è già disponibile una risposta compiuta (Von Foerster in Bocchi - Ceruti 1991). Paradossalmente la formazione scolastica privilegia le questioni illegittime e trascura di coltivare le questioni di significato (Bateson 1984); forse perché alla luce di una visione empiricista e scientista, che ormai è diventata l’unità di misura per valutare ogni evento penetrando in ogni istituzione sociale, le attività del pensare risultano prive di valore in quanto – a differenza del conoscere che produce il sapere scientifico la cui utilità può essere dimostrata, e che fallisce se non produce risultati – non lasciano niente di verificabile e di tangibile che possa essere sottoposto alle misure del pensiero calcolante.

2.1. Perché pensare è necessario

Se il pensare non riesce a elaborare risposte dotate di un’irrefutabile certezza e se nemmeno produce immediatamente strumenti per l’azione, perché dedicare a questa attività cognitiva il tempo prezioso dell’educazione?
È necessario pensare le questioni di significato perché si tratta di domande che emergono quando si è alla ricerca delle misure che consentono di trovare risposte attendibili alla domanda umana esistenziale per eccellenza: che fare? Le domande del pensare sono quelle «la cui conoscenza è bella in grado supremo e la cui ignoranza è brutta in grado supremo» (Platone, Gorgia, 472c). I principi in base ai quali si decidono le direzioni di senso da imprimere alla propria vita dipendono dalle risposte che la mente formula rispetto alle questioni di significato. Per quanto incerti e provvisori, i prodotti del pensare strutturano la cornice entro cui prendono forma gli atti di donazione di senso all’esistenza. È questo il paradosso in cui si trova l’esistenza umana: il processo di elaborazione di senso dipende da operazioni mentali dai più considerate meramente oziose.
Coltivare il pensare è essenziale per capire cosa fare. Il pensare largo e profondo – che interroga e indaga incessantemente le questioni indecidibili in cui si agglutina la problematicità dell’esistenza, quasi a consumare tutta l’energia della mente – ha forti implicazioni etiche e politiche, nel senso che l’abitudine a esaminare profondamente le questioni di significato è la condizione essenziale, anche se certamente non sufficiente, per sviluppare un pensare eticamente impegnato, volto a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, ciò che ha senso fare da ciò che è opportuno evitare. Esserci con senso sulla scena del mondo significa prendere posizione rispetto all’accadere delle cose, valutare gli eventi e giudicarli. Ma questo posizionarsi presuppone che si disponga di criteri di misura a partire dai quali esercitare il giudizio. È proprio del pensare andare alla ricerca della misura non apparente che regge il giudicare con ragione. La facoltà del giudizio, che è la facoltà cognitiva più densamente politica, si nutre, infatti, della pratica del pensare. È questa la ragione che spinge a esigere che ogni persona sia educata a pensare; la ricerca dei criteri che fondano il giudizio etico non può essere lasciata agli specialisti del pensare. Nell’Eutifrone (7 b-d), Socrate spiega con chiarezza la ragione per la quale è essenziale dedicare il pensare a cercare una risposta a certe domande: se non cercheremo di capire in che cosa consiste «il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto, il buono e il cattivo» e non ci sforzeremo di trovare un accordo su queste domande allora «diventeremmo irosi e nemici gli uni contro gli altri […] e io e tu e tutti gli uomini in generale» (Platone 2000).
Il pensare è tutt’uno con la vita: «l’attività di pensiero è vita» (Aristotele 2000). Una vita senza pensiero non riesce ad attualizzare la sua essenza, perché manca della possibilità di accedere a un orizzonte di significato, e in quanto tale non è nemmeno completamente viva. Il pensare è coessenziale al vivere poiché la vita, per la sua problematicità, ha un’irrevocabile necessità dell’esercizio del pensare. L’essere umano non sta fra gli altri enti in un rapporto già deciso, cioè in quell’immediatezza a-problematica che sembra invece propria degli altri esseri viventi, ma il suo venire ad abitare il mondo coincide con la chiamata a dare senso al tempo della vita. Quel cammino che è l’esistenza è un continuo sentirsi chiamati alla ricerca di quelle direzioni esistentive seguendo le quali si
può disegnare di senso l’esperienza.
Forse il giudizio socratico, che considera non propriamente vita quella che manca del pensare (Platone 2000), è eccessivamente severo, ma resta il fatto che quando dedichiamo un tempo adeguato della nostra vita al pensare per cercare direzioni di senso allora è la nostra vita che stiamo vivendo, non quella che semplicemente capita di vivere o che altri hanno deciso per noi. Abbiamo bisogno di pensiero perché abbiamo bisogno di una forma di vita, e la ricerca e attualizzazione di tale forma è il lavoro del vivere cui ciascun essere umano è inaggirabilmente chiamato. L’essere umano è possibilità di forme, è un esistente non definito nel suo poter essere, che nascendo si trova sobbarcato della responsabilità di dover divenire il proprio poter essere. La qualità del nostro essere è quella di un essere problematico perché nostro è il problema di cer...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Counseling a scuola
  3. Indice dei contenuti
  4. Luigina Mortari - Il paradigma educativo della cura
  5. 1. Il senso primo dell’educare
  6. 2. Aver cura del pensare
  7. 3. Aver cura del sentire
  8. 4. Aver cura delle parole
  9. 5. Aver cura delle relazioni
  10. 6. Concludere per incominciare
  11. Riferimenti bibliografici
  12. John C. Carey - La formazione dei Counselor negli Stati Uniti: lezioni per il contesto italiano
  13. 1. Il governo
  14. 2. Associazioni professionali
  15. 3. Università
  16. 4. Accreditamento indipendente e Agenzie di certificazione
  17. 5. Organizzazioni non-profit
  18. 6. Istituti indipendenti di Counseling
  19. 7. Punti di forza e di debolezza
  20. 8. Suggerimenti per la professione del Counselor in Italia
  21. Riferimenti bibliografici
  22. Anna Rezzara - La consulenza pedagogica: formazione e ricerca su dispositivi e impliciti del lavoro educativo
  23. 1. Consulenza pedagogica
  24. 2. Consulenza come formazione e ricerca
  25. 3. Un modello di consulenza pedagogica
  26. Riferimenti bibliografici
  27. Ian Martin - Mappa dello sviluppo dei programmi di School Counseling negli USA: influenze passate, problematiche attuali e direzioni future
  28. 1. Fondamenti dello School Counseling negli USA
  29. 2. Gli approcci ai programmi prendono slancio
  30. 3. Movimenti recenti e maggiore rendicontabilità
  31. 4. Attuali obiettivi e sfide
  32. 5. Controllo locale e autorità amministrativa
  33. 6. Conclusione
  34. Riferimenti bibliografici
  35. Maria Grazia Riva - La consulenza pedagogica come “dispositivo complesso”
  36. 1. Consulenza pedagogica per la formazione e l’autoformazione d’istituto
  37. Riferimenti bibliografici
  38. Erika Nash - Lo sviluppo professionale degli school counselor
  39. 1. Tipi di sviluppo professionale
  40. 2. Impegnarsi nello sviluppo professionale
  41. 3. Limiti allo sviluppo professionale
  42. 4. Un approccio più utile
  43. 5. Evitare le insidie
  44. Riferimenti bibliografici
  45. Domenico Simeone - Il rapporto scuola-famiglia e la consulenza educativa
  46. 1. Per una nuova partnership tra scuola e famiglia
  47. 2. Il sostegno educativo alla famiglia
  48. 3. La consulenza educativa ai genitori
  49. 4. Conclusione
  50. Riferimenti bibliografici
  51. Claudio Girelli - La consulenza educativa come possibilità di innovazione nella scuola
  52. 1. Pensare una scuola per domani
  53. 2. Il miglioramento continuo come prospettiva
  54. 3. Per una pratica professionale collaborativa
  55. 4. La scuola come organizzazione specifica
  56. 5. La scuola come learning organization
  57. 6. La scuola come comunità che apprende
  58. 7. Dalla consulenza dell’esperto alla consulenza di processo
  59. 8. La consulenza educativa nella scuola
  60. 9. Chi è la committenza nella scuola?
  61. 10. La consulenza di processo nella scuola
  62. 11. Oltre il ruolo, la funzione
  63. 12. Conclusione
  64. Riferimenti bibliografici
  65. Jessica Bertolani - School counseling: una nuova visione per il contesto italiano
  66. 1. Il Comprehensive School Counseling Program: lo school counseling come programma all’interno del curriculum educativo
  67. 2. Il guidance curriculum: uno strumento per ampliare i servizi di counseling scolastico nel contesto italiano
  68. 3. Per continuare a riflettere
  69. Riferimenti bibliografici
  70. Nella stessa collana
  71. Note