Il popolo dei moderni
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Breve saggio su una finzione

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Il popolo dei moderni

Breve saggio su una finzione

About this book

Buona parte della filosofia politica moderna, da Machiavelli fino a Hegel e poi ancora al '900, pensa il popolo secondo i criteri di un razionalismo astratto. E così il popolo, anche in teorici della democrazia, finisce per diventare una "finzione": se ha realtà, è solo quella del pensiero. I risultati sono stati due. Da un lato, a questo popolo fantastico si è affidata la sorte dell'emancipazione facendone un soggetto collettivo della salvezza: in tal senso, c'è un filo rosso che collega Robespierre a Marx e a buona parte del pensiero rivoluzionario del '900. Dall'altro, quando si è denunciata la pericolosità di queste concezioni del popolo, si è arrivati, per un eccesso di realismo, al polo opposto, affermando che il popolo non esiste e che è sempre stato il prodotto di un pensiero ideologico. Da cui l'invito a convincersi che anche la democrazia non è né potrà mai essere "governo del popolo", ma governo di élite in competizione per il voto. C'è un'alternativa a questi due estremismi che ci condannano, rispettivamente, all'illusione o all'apatia? In gioco è il futuro della democrazia.

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Information

Publisher
La Scuola
Year
2014
Print ISBN
9788835037446
1. Il popolo dei moderni
Ci si può chiedere quale sia il motivo che spinge ad affrontare la non facile prova consistente nel delineare un percorso di riflessione in chiave filosofica intorno al concetto di “popolo” prendendo in esame il periodo che va dalla prima alla tarda modernità, sino a sfiorare (almeno) l’epoca della quale noi, uomini e donne del presente, siamo protagonisti, il più delle volte molto perplessi e parecchio disorientati.
Il perché sta nel tentativo di mostrare che, per quanto questo lungo periodo sia, a proposito del nostro argomento, parecchio complesso e contraddistinto da un esteso pluralismo di punti di vista, presenta però almeno una caratteristica unitaria. Si tratta della difficoltà di articolare teoreticamente un concetto di “popolo” sul quale non gravino quei limiti sui quali vorrei concentrare l’attenzione: limiti ovviamente non secondari, ma tali da compromettere gravemente il concetto in questione.
In tutto il tragitto che proverò a tracciare non vorrei semplicemente procedere prendendo nota dei punti oscuri rinvenibili in questa o quella concezione di “popolo”, e così mettere in atto una sorta d’incolore e, tutto sommato, ridondante elenco che collochi uno dopo l’altro gli autori come in una galleria dei nobili fallimenti della filosofia politica dal ’500 a oggi. La posta in gioco è ben diversa. La presento, per ora molto concisamente, come segue.
Nel De republica di Cicerone – importante sintesi di una già consolidata tradizione – è evidente la corrispondenza concettuale tra res publica e populus: la società politica si dà solo in presenza di un’associazione tenuta insieme «per accordo nell’osservare la giustizia» e «per comunanza di interessi»1. Il popolo, che si forma a causa della «naturale inclinazione a vivere bene» presente in ogni essere umano, esprime, nella sua unità eticogiuridica, il senso propriamente politico insito nel condurre un’esistenza in cui è fondamentale sia la concordia del tutto, pur nella pluralità delle parti esistenti entro la civitas, sia la condivisione dei destini. Non c’è politica senza tali requisiti. È superfluo far notare quanto qui sia presente, in un pensiero innestato soprattutto nella tradizione stoica, anche la traccia aristotelica.
Ora: sappiamo bene che c’è un’interpretazione, da molto tempo largamente egemone, chepone un rapporto genetico tra modernità e politica. I suoi sostenitori asseriscono che solo a partire da Hobbes ci sarebbe la possibilità di parlare in modo sistematico di un’origine del “politico” nella sua essenza propria e nella sua piena autonomia (l’ovvio riferimento è a Carl Schmitt). In controtendenza rispetto a questa linea di pensiero vorrei mostrare – prendendo spunto dalla connessione ciceroniana tra popolo e politica – che, a confronto con il modello esemplarmente presentato da Cicerone, la modernità mette in mostra, in alcuni dei suoi autori maggiormente significativi, un sostanziale scacco, variamente articolato ma unitario dal punto di vista del risultato, nel rendere filosoficamente intellegibile, e quindi coerentemente fondabile, lo spazio proprio della politica.
Ho cercato di argomentare in altro luogo questa tesi, la cui sostanza coincide con l’affermazione che il “moderno”, lungi dall’essere il tempo della genesi della politica come prassi e come campo teorico specifici, costituisce invece il lungo periodo durante il quale si dipana e si evidenzia la cruciale dimensione dell’impolitico. Essa è ancora incombente su di noi, tardi eredi della modernità, e non solo c’interroga dal punto di vista speculativo, ma ci pressa anche nella concreta e tragica realtà di fatto, come quotidianamente verifichiamo in mille modi. La prassi storica subisce l’assenza della politica in un passaggio d’epoca cruciale come quello che stiamo oggi vivendo. Questo passaggio d’epoca riceve in legato tale assenza dal passato, un passato però quanto mai presente e del quale proprio un succinto esame del problema consente di illuminare alcuni aspetti rilevanti.
Si dirà che la sottolineatura del carattere impolitico del moderno fa parte di una posizione di pensiero non certo nuova: minoritaria sicuramente, ma non inedita né particolarmente originale. E, per documentarlo, basterebbe evocare i nomi dei cosiddetti nostalgici della polis, da Arendt, a Strauss, a Voegelin, e via procedendo. Saremmo alla solita contrapposizione tra sostenitori di modelli normativi di politica in alternativa l’uno rispetto all’altro, ognuno dei quali accusa l’avversario di fallacia o di tentazione ideologica. Così, però, almeno in questo saggio, non dovrebbe essere. E non solo perché queste poche pagine sono all’insegna della convinzione che argomentare (e non solo contrapporre dogmaticamente) è possibile. Ma soprattutto perché l’obiettivo non è tanto di mettere a confronto modelli, quanto di operare con quelli che la modernità ci offre e di criticarli iuxta propria principia, facendone risaltare la contraddittorietà o i vari aspetti problematici a partire dal loro interno, dalla loro logica, dalla loro struttura, più o meno sistematica. La critica d’impoliticità può quindi esercitarsi in un confronto diretto con i “classici” moderni della politica e può tentare di porre in luce l’impasse nella trama teorica che essi, pur in diverso modo e anche spesso con intenti molto differenti, elaborano.
Diciamo allora che, prima di cimentarsi sul piano normativo, questo saggio si muove sul piano ermeneutico, che certo, come ben sappiamo tutti, privo di presupposti normativi non è mai. Ma cerca (o dovrebbe farlo) di avvicinarsi, per quanto possibile, all’oggetto e di comprenderlo in profondità, assottigliando il più possibile le pretese normative – con la consapevolezza, comunque, che, come ci ha insegnato prima di tutti Max Weber, nessuna ricerca, in quanto tale, potrà mai essere “libera dai valori”.
Entro questi limiti, quella che segue è una critica della filosofia politica moderna che pone al centro il concetto di “popolo” nel tentativo di vagliarne le implicazioni relativamente a un quadro più generale: la tentata ma, a mio avviso, mai riuscita fondazione teorica dell’ordine politico dopo la crisi della tradizione greco-romana e medievale. O, se lo si vuol dire con uno dei grandi protagonisti di questa storia, Jean-Jacques Rousseau, è un’analisi del significato e delle conseguenze insite nell’immane (e forse «donchisciottesco», come direbbe Alasdair MacIntyre) sforzo di «instituer un peuple»2 dopo che la “natura” è stata ormai archiviata quale possibile fondamento, dato e non costruito, della «società ben ordinata» (Rousseau).
2. Alla ricerca di una teoria
Walter Ullmann ha evidenziato che già nel regime feudale esistono elementi del governo «popolare»3. Durante tutto il Medioevo, come egli osserva, ci sono state «svariate manifestazioni di queste tendenze popolari», che hanno preparato il terreno per lo sviluppo, molto successivo, della «teoria pura» relativa. Ciò è dipeso, nelle «zone basse» della società, dal «bisogno di un’unione almeno tra eguali», generato dal senso di «insicurezza» che caratterizza questo periodo storico4. Egli ricorda che è stato più volte sottolineato, in tale contesto, l’embrionale sviluppo di uno «spirito comunitario» (Otto von Gierke), il quale ha plasmato «unioni o associazioni», nate, durante questa fase iniziale, non in base a teorie o dottrine, ma come risposta a bisogni specifici di determinati gruppi sociali5. Queste unioni, specie le gilde, venivano allora indicate anche con il nome di societas, fraternitas, conjuratio6. Erano «isole popolari in un regno governato teocraticamente»7. Un esempio sono le comunità di villaggio8 e anche le città (si ricordi a tal proposito il ruolo dei consigli cittadini), soprattutto nell’Italia settentrionale, ove queste ultime erano «modelli di governo repubblicano» con «schemi popolari di governo»9. Le città libere si basavano almeno in parte sul «consenso della comunità»10. Gilde e confraternite costituiscono esempi di quello che Ullmann definisce «popolarismo»11 .
Il XII e XIII secolo, quindi, mostrano il «fatto incontrovertibile dell’emergere delle masse amorfe e senza nome», che sono «la risposta naturale all’impellente bisogno umano di agire all’interno di un gruppo», cioè di una tendenza che opera e, man mano, assume forma sempre meno indefinita indipendentemente dalla diversità delle situazioni storiche12. Il punto è, però, che a queste tendenze non corrisponde, almeno sino al xiii secolo, «una dottrina popolare coerente», anche perché manca un’istruzione «laica» diffusa e, quando c’è, riguarda soltanto minoranze che, come nel caso degli «studiosi laici» dell’Università di Bologna, s’interessano al diritto romano in relazione fondamentalmente al conflitto tra papato e impero, senza nutrire una «profonda e radicata inclinazione verso alcun tipo di “popolarismo”»13 .
Gli elementi rilevanti, in tale ambito, sono due: la riscoperta di Aristotele e, in progressione di tempo, il fatto che, a partire dall’esordio del XIV secolo, comincia a smagliarsi sempre più la sintesi tra cristianesimo e aristotelismo e viene in evidenza l’elemento aristotelico più di quello cristiano, secondo una dinamica che Ullmann schematizza così: «1) Atteggiamento ostile nei suoi [dell’aristotelismo] confronti; 2) Tolleranza ed assimilazione nella cosmologia cristiana; 3) Emancipazione di Aristotele dall’involucro cristiano»14 .
Ciò che di questa ricostruzione compiuta da Ullmann conta evidenziare ai nostri fini è come egli ponga in primo piano il profondo cambiamento del concetto di “natura” rispetto alla tradizione agostiniana, che sino a quel momento era stata decisiva nel determinare le coordinate fondamentali di ogni elaborazione e discussione politiche. Nell’Ipponate la natura, dopo il peccato di Adamo, finisce per essere qualcosa di «innaturale» rispetto al naturale originario15, con la conseguenza di disattivare il ruolo della natura nel discorso politico e di svalutare il significato stesso dell’esperienza politica. Invece, già dalla prima metà del XIII secolo, con Guglielmo di Auxerre, il quadro inizia a mutare. La natura dell’uomo viene, infatti, parzialmente riabilitata nelle sue proprietà e potenzialità; si afferma la tesi che la caduta non l’ha privata del tutto della sua positività, ma l’ha soltanto indebolita, non però fino al punto che non sia più in grado di esprimere un diritto naturale razionale16 .
L’interpretazione di Ullmann procede, da qui in avanti, con l’illustrazione (invero scarsamente originale) di quei contenuti di pensiero che, da Tommaso d’Aquino in poi, hanno fornito, sulla base della riconquistata autonomia e incidenza politica del concetto teleologico di “natura umana” aristotelico, quei fondamenti filosofici al “popolarismo” che per secoli erano mancati. Dante, Giovanni da Parigi, Marsilio da Padova sono gli autori ai quali, giustamente, Ullmann dedica una particolare attenzione in questa riabilitazione ante litteram della filosofia politica di Aristotele innescata dalla cruciale mediazione tomista.
Il punto sul quale m’interessa porre l’accento è che, dopo la frattura rispetto all’agostinismo politico dovuta alla riscoperta di Aristotele, la modernità ne inaugura un’altra, che potrebbe essere interessante leggere come un possibile sviluppo della ricostruzione operata da Ullmann. Egli, infatti, conformemente ai suoi intenti, si arresta al xv secolo, cioè arriva sin dove, almeno negli autori maggiormente rilevanti, la continuità con l’aristotelismo, pur in vari gradi e con differenti modalità, c’è, incide a fondo e plasma con coerenza la riflessione politica.
Quanto accade dopo quest’epoca è, invece, un fenomeno singolare ed estremamente rilevante, del quale, a mio avviso, non sono state colte sempre tutte le implicazioni. Avviene, cioè, che l’idea di governo repubblicano – della quale intendo occuparmi in questa prima parte dell’esposizione –, mentre continua ad alimentarsi alla fonte normativa della tradizione, che aveva le sue radici ben salde in Aristotele e nella rilettura sviluppatane entro l’ambiente stoico romano, mostra ora invece un’evidente discontinuità rispetto al passato per quanto riguarda i fondamenti antropologici e il loro impianto onto-teleologico. Il concetto di “popolo” viene rielaborato in questo contesto, nel quale la componente normativa rimane ben ferma e sostanzialmente immutata rispetto al passato, nel momento stesso in cui, però, ciò che viene a mancare è la base su cui tale componente poggiava in un’ormai plurisecolare tradizione. Insomma, a cedere è l’idea dell’uomo come zoon politikon o, nella versione tomista, animal sociale et politicum.
È qui che comincia a prodursi quella scissione tra antropologia ed etica che continuerà a gravare, in vario modo ma sempre con conseguenze di grandissimo peso, sulla filo...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Citazione
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. 1. Il popolo dei moderni
  6. 2. Alla ricerca di una teoria
  7. 3. Gli uomini “rei” e il popolo “buono”
  8. 4. Il Legislatore come divino immanente
  9. 5. Moltitudine → sovrano → popolo
  10. 6. Il trionfo del “sociale”
  11. 7. Una “finzione”?
  12. Sommario
  13. Nella stessa collana