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Il conflitto tra legge e coscienza in tre episodi della tradizione religiosa e letteraria. Se in Mosè è la legge che garantisce la libertà, in Nicodemo i dubbi della coscienza sono il baluardo della stessa libertà. Nella Colonna infame esplode quel conflitto tra legge, coscienza e potere che investe anche il nostro presente. Pagine che sono l'esempio di come Martinazzoli sia stato, nella sua malinconica consapevolezza, un raro esempio di politico pensante.
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Information
Mino Martinazzoli
La legge e la coscienza
Mosè, Nicodemo e la Colonna infame
Mosè: la libertà e la legge
Il popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna, si affollò intorno ad Aronne e gli disse: «Facci un dio che cammini alla nostra testa, perché a quel Mosè, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto». Aronne rispose loro: «Togliete i pendenti d’oro che hanno agli orecchi le vostre mogli e le vostre figlie e portateli a me». Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani e li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello di metallo fuso. Allora dissero: «Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!». Ciò vedendo, Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: «Domani sarà festa in onore del Signore». Il giorno dopo si alzarono presto, offrirono olocausti e presentarono sacrifici di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere, poi si alzò per darsi al divertimento. Allora il Signore disse a Mosè: «Va’, scendi, perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicata! Si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele; colui che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto”». Il Signore disse inoltre a Mosè: «Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione». Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio, e disse: «Perché, Signore, divamperà la tua ira contro il tuo popolo che tu hai fatto uscire dal paese d’Egitto con grande forza e con mano potente? Perché dovranno dire gli Egiziani: “con malizia li hai fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra”? Desisti dall’ardore della tua ira e abbandona il proposito di fare del male al tuo popolo. Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutto questo paese, di cui ho parlato, lo darò ai tuoi discendenti, che lo possederanno per sempre». Il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo. Mosè ritornò e scese dalla montagna con in mano le due tavole della Testimonianza, tavole scritte sui due lati, da una parte e dall’altra. Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole. Giosuè sentì il rumore del popolo che urlava e disse a Mosè: «C’è rumore di battaglia nell’accampamento». Ma rispose Mosè: «Non è il grido di chi canta: “Vittoria!”. Non è il grido di chi canta: “Disfatta!”. Il grido di chi canta a due cori io sento». Quando si fu avvicinato all’accampamento, vide il vitello e le danze. Allora si accese l’ira di Mosè: egli scagliò dalle mani le tavole e le spezzò ai piedi della montagna. Poi afferrò il vitello che quelli avevano fatto, lo bruciò nel fuoco, lo frantumò fino a ridurlo in polvere, ne sparse la polvere nell’acqua e la fece trangugiare agli Israeliti.
(Esodo 32, 1-20)
Conserviamo tutti, credo, nell’inventario delle reminiscenze scolastiche, l’invettiva leggendaria scagliata da Michelangelo contro il suo Mosé. «Perché non parli?». Si tratta di un’aneddotica che risulta improbabile se appena poniamo mente al tormento ed alla complessità della vicenda creatrice di quel capolavoro. Ma possiamo supporre che se una risposta fosse venuta a Michelangelo dalla sua opera, sarebbe apparsa deludente. Leggiamo, infatti, in Es 4, 10-16: «Disse allora Mosè: Ti prego, Signore, io non ero di parola facile nemmeno per l’innanzi, ma da che Tu hai parlato a me tuo servo, sono diventato ancora più tardo ed impedito di lingua». E continua il passo biblico: «Sdegnato il Signore contro Mosè, disse: “So che Aronne, tuo fratello, levita, parla bene, ecco egli ti viene incontro e vedendoti si rallegrerà. Parla a lui e mettigli in bocca la mia parola […]. Egli parlerà al popolo in vece tua e sarà la tua bocca”».
Tornerò sul Mosè di Michelangelo, ma già questa circostanza, questo impaccio della parola che istintivamente ci appare contraddittorio rispetto allo stereotipo del condottiero, del capo, del leader, suggerisce la cifra di mistero e la complessità di senso che si dilata dalla sintassi di questo passo, come del resto da ogni frammento di quella sterminata narrazione che è la Bibbia. Dove la voce di Dio risuona sopra la scena umana com’è e come sarà nella tribolazione e nella speranza, nella fedeltà e nel tradimento e sempre nell’incostanza e nella grevità dell’azione, ma sempre e sempre nell’inesauribile domanda di assoluto che nasce e rinasce, ostinatamente, inflessibilmente dal fondo della vita e della storia.
Possiamo supporre che la lingua di Mosè sia inceppata, proprio perché necessariamente impari rispetto alla parola che ascolta, che è la parola di Dio. E dunque c’è bisogno di una mediazione, di un altro Aronne, che abbassi al livello della comprensione umana la sostanza del messaggio. Non è forse vero, del resto, che questa necessità riguarda lo stesso nome di Dio? Che nella Bibbia è «una sigla di quattro lettere, il tetragramma, scritte non per essere pronunciate ma aggirate. Quelle quattro lettere ebraiche non contengono né labiali, né dentali, né liquide perché la bocca, la saliva, la laringe umana non si azzardi alla confidenza di nominare il Nome»1.
È singolare che questo tema e ciò che implica di irrisolta tensione tra, direi, l’assolutezza dell’Assoluto e la sua riduzione nella finitezza del finito, nella delimitazione del limite, sia il tema centrale di un’opera tra le più significative del teatro musicale del Novecento, il Mosè e Aronne di Arnold Schönberg. È drammatico il dialogo centrale tra i due protagonisti:
Mosè: Intuisci ora l’onnipotenza dell’idea sulla parola, sull’immagine?Aronne: Nessun popolo afferra più di una parte dell’immagine, che del pensiero afferra la parte afferrabile. Renditi perciò più comprensibile al popolo.Mosè: Devo dunque mistificare l’idea!Aronne: Lascia che io la disciolga, trascrivendola senza esprimerla.Mosè: La mia idea, come queste Tavole la esprimono.Aronne: Anch’essa non altro che immagine, parte dall’idea.Mosè: E allora io spezzerò queste tavole e pregherò Dio che mi assolva da questo incarico.
E conclude: «O parola, parola che mi manca».
La chiave di lettura di Schönberg si colloca fuori dal perimetro della fede, dichiara il polemos della Legge, un’incomprensione senza tregua e senza remissione ma anche così delucida, pur senza risolverlo, l’itinerario penoso che esige il superamento della contraddizione. Ciò che fa sublime e tragica la condizione umana. In altro modo, questa stessa tensione la riconosciamo nel comportamento di Mosè, che da un lato placa l’ira di Dio con la sua supplica e dall’altro, veduto il vitello e le danze, scaglia dalle mani le tavole e le spezza ai piedi della montagna. Abbiamo ascoltato: «Allora si accese l’ira di Mosè». Lo stesso Mosè che ha perorato la causa del suo popolo davanti a Dio e lo ha preservato, il suo popolo, dalla sanzione più irrimediabile, replica tuttavia la minaccia ed il castigo, possiamo dire umanizzandoli. E già qui intravediamo non tanto la struttura della Legge, quanto la sua più intima dinamica. Tale che contiene una sorta di finalità equilibratrice, una qualche funzione immunitaria. Reagisce alla violenza della trasgressione con una risposta che la limita ma insieme la contiene. E possiamo adombrare da questo indizio l’immane fatica speculativa che alimenta, nei secoli, la riflessione intorno al delitto ed alla pena.
Ma continua il passo biblico: «[Mosè] afferrò il vitello che quelli avevano fatto, lo bruciò nel fuoco, lo frantumò fino a ridurlo in polvere, ne sparse la polvere nell’acqua e la fece trangugiare agli Israeliti». Verso la fine del quarto secolo dopo Cristo, quando le comunità cristiane del mondo ellenico aprono una fervida stagione ermeneutica del gran libro, che possono leggere nella lingua greca, Gregorio di Nissa, in Cappadocia, scrive una monumentale Vita di Mosè. Se Filone di Alessandria aveva indagato la vicenda di Mosè sul paragone della filosofia greca con l’intento di ricavarne una sintesi che potremmo definire come “filosofia mosaica”, Gregorio legge l’Antico Testamento irradiandolo alla luce del Nuovo, così che, attraverso una dichiarata interpretazione allegorica, Mosè si identifica con il modello di una vita giusta che giunge alla perfezione per la pratica della virtù e l’Esodo diventa la mappa di una ascesi spirituale, il cui momento d’avvio consiste nella libera determinazione dell’uomo di fronte alla scelta fra il bene ed il male. Qui, la libertà di una scelta tra il bene dell’unico Dio e il male dell’idolatria.
Scrive dunque Gregorio:
Ma Mosè dopo aver distrutto il vitello d’oro, lo fa consumare completamente dall’acqua e dà da bere questa ai peccatori, così da distruggere completamente la materia che era servita all’empietà degli uomini. Il racconto annuncia allora profeticamente che l’errore dell’idolatria è completamente scomparso dalla vita, inghiottito dalle bocche delle persone pie che hanno distrutto in sé la materia dell’empietà. E sono diventati acqua, del tutto effimera e inconsistente, i misteri anticamente ben radicati presso gli idolatri, acqua inghiottita dalle stesse bocche di quelli che una volta adoravano stoltamente gli idoli.
Mosso dall’ottimismo della fede, Gregorio di Nissa non poteva sospettare che altre allegorie avrebbero suscitato altri idoli lungo lo svolgersi dell’avventura umana, cangianti e prodighi per tutto il tragitto di una storia senza tregua e senza approdo.
Non è per caso che lo stesso brano, che stiamo indagando, viene riletto come un luogo fondativo e prescrittivo dell’alchimia. Quello che fa Mosè sarebbe esemplare delle operazioni alchemiche: la calcinazione, cioè la riduzione di una sostanza a polvere mediante il calore; la soluzione, cioè la commistione della polvere con un liquido; la potabilità dell’oro, una volta che la sua natura ordinaria sia stata trasformata in una natura sofisticata e sottile. E il Mosè di Michelangelo, con la barba, il dito puntato, la statura possente, che reca tuttavia le corna dell’uomo-animale, renderà suggestiva questa interpretazione magica. In verità noi sappiamo che quelle “corna” non sono tali ma sono piuttosto la sola rappresentazione che la scultura poteva consentire della luce che irradiava da Mosè, così come ci dice la Bibbia. E questa precisazione vale del resto ad accertare la circostanza che Michelangelo, con la sua opera, non guarda all’episodio che commentiamo. Il suo Mosè tiene saldamente in mano le Tavole della legge e la fronte è illuminata, appunto, dai raggi della visione divina. Dunque non è il Mosè dell’ira e della legge infranta, ma quello di Es 34:
Poi disse Dio a Mosè: «tagliati delle tavole di pietra simili a quelle di prima; vi scriverò sopra le parole che erano sulle tavole da te spezzate. Sii pronto domattina per salire subito il monte Sinai e starai con me sulla vetta». Tagliò dunque Mosè due tavole di pietra come erano prima e di buon mattino levatosi, salì il monte Sinai come gli aveva comandato il Signore, portando con sé le tavole […]. Disse poi il Signore a Mosè: «Scriviti queste parole con le quali ho contratto alleanza con te e con Israele» […]. Stette pertanto lì col Signore quaranta giorni e quaranta notti e scrisse sulle tavole le dieci proposizioni dell’alleanza. Quando poi Mosè scese dal monte Sinai, portava le due Tavole della testimonianza e non sapeva che dalla sua fronte uscivano due raggi in conseguenza del suo colloquio con il Signore.
Dunque, l’inizio è un rimandare. È dolorosa la fondazione del fondamento. Lo vede bene Dante quando, tra i petali della Rosa dei Beati, in Paradiso, gli viene indicato Mosè, «quel duca sotto cui visse di manna – la gente ingrata, mobile e retrosa». È vissuta di manna, nella lunga e perigliosa peregrinazione, la «gente ingrata». È uscita indenne da mille rischi sotto la guida di Mosè, ma non si è fatta docile all’accoglienza del comando divino. La stessa attesa si è declinata nell’incredulità e nel rifiuto. «A Mosè non sappiamo cosa sia capitato». «Mobile», la gente. Poiché non la convince all’obbedienza l’immediata, visibile autorità del capo, cerca e trova la condiscendenza di Aronne, una guida che tradisce il compito, che si fa complice, specchio dell’ostilità ad accettare la soluzione impegnativa, la fedeltà e il rigore che necessariamente esige. La «ritrosia» dettata dalla meravigliosa concisione dantesca dice di questo, di una incomprensione non superata. Così Mosè spezza le Tavole della Legge. La gente renitente all’obbligazione non può accogliere la legge in sé, viverla in sé. La gente che ha confezionato il vitello d’oro non può diventare il popolo della Legge. Occorrerà un’ulteriore maturazione. Un’altra salita, un’altra attesa perché il patto si perfezioni e la relazione si compia e un’obbedienza venga sancita cosi che la gente si faccia il popolo, nella consapevolezza di sé e del suo destino, sul paragone morale che lo definisce e lo esalta.
C’è nella Bibbia, quasi per condensazione, questo timbro epico, il senso insieme malcerto e poderoso del formarsi di un popolo, lo strazio di una nascita mai scontata, più spesso revocata e tuttavia raggiunta. Il viaggio verso la Terra Promessa proseguirà ora sotto l’insegna intangibile delle Tavole della Legge – non per caso scritte sui due lati perché risultino impossibili interpolazioni – e si farà nitido come la traiettoria volitiva di una freccia. Conoscerà, senza incertezze, la sua ragione ed il suo scopo.
Anche nella mitologia greca è rintracciabile la sequenza del viaggio. Ma Ulisse, come racconta Omero, «ricordava il ritorno», l’eterno ritorno di un tempo prigioniero dell’anankē, della necessità che la legge di natura impone agli umani. Il viaggio di Mosè e di Israele non è un ritorno, è un principio. È il tempo che si fa storia. Non potremmo, davvero, sottrarci – quale che sia l’intonazione del nostro credere e del nostro interpretare – alla percezione di un che di originale e misterioso che connota l’avventura di questo popolo.
Una turba di pastori, di nomadi stretti ed avviliti tra le potenze di Egitto e Babilonia, che scrive una pagina imperitura da leggere nei secoli dei secoli poiché, fondandola sulla rivelazione divina, scrive la storia delle origini della moralità. Riesce, infatti, difficile pensare che il codice fondamentale della condotta umana contenuto nel Decalogo sia diventato muto e intraducibile sul paradigma della nostra modernità.
Questo primo codice è la radice di senso e di valore che sta nel fondo anche delle due parole evocate per questa conversazione: la libertà e la legge.
La libertà e la legge. Chi ha dettato il titolo di questo incontro le ha unite, le due parole, con la congiunzione “e”, quasi a dichiararne la pacifica convivenza. Ma sappiamo tutti che in quella congiunzione si dissimula il fuoco di una controversia spesso dissipatrice e comunque un’instancabile fatica alla ricerca dell’equilibrio rassicurante, diversamente raggiunto o mancato nelle grandi epoche della storia.
A me pare che nella vicenda di Mosè sia la parola della legge ad occupare il centro della scena. Poiché quella della libertà si riferisce più intimamente alla condizione singolare, all’individuo piuttosto che alla comunità. Nel sottrarsi di Israele alla schiavitù dell’Egitto, nel combattimento per il possesso di una terra da occupare e delimitare, è piuttosto l’idea della liberazione, e dunque della vicenda collettiva di un popolo, che campeggia e significa e incoraggia. Ma è la parola della legge che giustifica. Non per caso è il lessico della giustizia, o meglio del giusto, che riassume il vertice di tante pagine dell’Antico Testamento. La parola della legge illumina e innesta di forza e di pazienza l’odissea inconfondibile di un popolo custode di una diversità, di un messianismo deluso che lo attestano nei secoli come vittima di una incomprensione feroce, consumata persino nel nome di Dio. La Legge, la Torah diventa, al fondo della tribolazione, lo stesso modo di credere.
Questo è scritto nelle pagine lancinanti di un piccolo libro2. Dalle macerie del ghetto di...
Table of contents
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- Sommario
- Prefazione
- La legge e la coscienza: Mosè, Nicodemo e la Colonna infame
- Postfazione