Ogni uomo ha una radice. Talvolta si nasconde. Tuttavia sempre affonda e si ancora, per poi mostrare la sua solidità. Tale radice ha a che fare con le persone, con i luoghi, con gli incontri che determinano il viaggio di una vita. E non si può comprendere la biografia umana e spirituale di Giovanni Battista Montini senza tenere conto di tale radice: il papà Giorgio, la mamma Giuditta, i fratelli Lodovico e Francesco, la zia Maria, la nonna Francesca. E poi Concesio con la casa natale e il fonte battesimale, e Brescia, il luogo delle amicizie e della formazione. È lo stesso Paolo VI, poche settimane prima della morte, a ricordarlo, in una lettera inviata al cugino Vittorio:
Il nostro antico Concesio, indimenticabile, e con queste care e pie memorie quelle delle Persone veneratissime, che ci attendono nella comunione dell’eternità: oh, quanto sempre mi sono presenti, e come ormai le sento vicine.
È proprio nella casa di Concesio che Giovanni Battista vede la luce alle ore 22 del 26 settembre 1897, secondogenito di Giorgio e di Giuditta Alghisi. Il contesto familiare, il calore ricevuto dalla famiglia, resteranno vivi e presenti, come modello, per tutta la vita di Montini e costituiranno una radice profonda anche del suo magistero petrino, a cominciare dall’enciclica più coraggiosa e discussa, l’Humanae Vitae.
Innanzitutto è la nonna paterna Francesca Buffali il riferimento immediato e naturale. Donna di bellezza non comune, vedova a soli 36 anni con sei figli a carico, entra con la figlia Maria, la “zia Maria”, nella famiglia di Giorgio e Giuditta. Nonna Francesca incarna la fede e la tradizione, è lo snodo del legame familiare che sostiene tutti i membri della famiglia Montini, a cominciare dai nipoti.
Tu sei fra noi la voce dei tempi ricchi di fede e di patriarcali virtù, e se a noi giovani, destinati a vivere in una generazione di torbide trasformazioni, vi è un conforto e una forza, è il pensare che non vana è la speranza di far rivivere, in istile moderno, la sapienza che alimentò l’età di cui tu ci porti presente il ricordo.
Quando Giovanni Battista scrive questa lettera alla nonna, ha 23 anni e già vi è in nuce la grande sfida che lo accompagnerà per tutta la vita: far rivivere l’intensità della fede dei padri e dei nonni in istile moderno.
Ma sono certamente i genitori Giorgio e Giuditta a costituire la radice più solida. Il papà è giornalista. Dirige il quotidiano bresciano «Il Cittadino» fondato da Giuseppe Tovini. Dell’avvocato camuno, beatificato nel 1998 da Giovanni Paolo II, è stretto collaboratore. Conia – nel contesto della generale opposizione dei cattolici allo Stato italiano decretato dal Non expedit di Pio IX – il motto “Preparazione nell’astensione”, prevedendo una nuova stagione di impegno cattolico nel campo politico e istituzionale.
Organizza convegni, incontri, pellegrinaggi. In uno di questi, a Roma, in occasione del 25° di episcopato di Papa Leone XIII, incontra la giovanissima Giuditta. Lei ha solo 19 anni. Due anni dopo, superata l’opposizione al matrimonio del tutore della ragazza, orfana di entrambi i genitori (era Giuseppe Bonardi, liberale zanardelliano), Giorgio e Giuditta si sposano nella chiesa bresciana dei Santi Nazaro e Celso.
È la stessa Giuditta, nel decennale di matrimonio e ricevuta la notizia della morte di Leone XIII, a tracciare un bilancio umano e spirituale della sua unione con Giorgio:
Non ti dirò tutto il mio piacere per la dolce sorpresa di rivederti stamane. In questi giorni in cui il cuore di noi credenti ha tanto palpitato per trepidazione ed ora soffre d’un amaro distacco, in questi giorni, dico, avevo bisogno di vederti. Per noi, il Santo Padre Leone XIII è un affetto speciale perché tu sai come io sia convinta che la sua benedizione fu il seme di quelle mille altre di cui il Signore mi ha colmato dandomi poi il tuo cuore, tutto te stesso. Oh come ricordo quel momento di santo entusiasmo in cui, pur sentendomi presa da qualcosa di soprannaturale, fiduciosa mi prostrai ai piedi del Santo Vegliardo colla persuasione che in quel momento il mio avvenire avrebbe avuto una decisione felice e sicura. E davvero uscii da san Pietro in quel giorno contenta, beata per la fortuna avuta, non solo, anche tranquilla per tutto ciò che il tempo mi avrebbe portato, mentre prima d’allora da qualche tempo mi sentivo preoccupata, temendo che la mia poca esperienza, la debolezza del mio carattere mi facessero prendere qualche pericoloso sentiero. Ti ho detto ancora queste cose e tu ricordi certo Giuditta che voleva dire al Papa: Son qui tutta, cuore, mente, desideri, vita; beneditemi […]! E tu mi guardavi sorridente.
La vita coniugale è scandita da una «perfetta consonanza nel vedere le cose che riguardano la famiglia nostra […] e tutto». Giorgio è spesso assente, richiamato dai doveri della professione e dall’impegno nel movimento cattolico. Giuditta è sempre al suo fianco: «Coraggio, mio buon Giorgio, tu lavori per una causa che ti assicura un compenso di valore inestimabile, i tuoi esempi saranno la gloria dei tuoi figlioli che ti benediranno per avere preparato loro il sentiero retto a costo di tue fatiche, coraggio e avanti».
Ma è soprattutto nella maternità che Giuditta vede il pieno compimento della propria vocazione matrimoniale. Lodovico, Giovanni Battista e poi Francesco: con il loro arrivo il dialogo tra i due sposi si rimodula.
Facciamo insieme un po’ di Domenica mentre l’eco degli inni, dei discorsi e dei concerti musicali giunge al Dosso dove regna perfetta quiete e dove tre cari follettini svolazzano lieti dietro le variopinte bolle di sapone.
Maternità e coniugalità trovano una sintesi perfetta. L’una rimanda all’altra:
Quante cose belle mi ha detto la tua lettera di stamane! E tutte hanno trovato l’eco nell’animo mio pieno di quelle soavi e solenni memorie nelle quali la nostra vita una ha avuto il benedetto principio. […] Del resto tu lo conosci questo mio cuore, così tuo, e tu prendilo e vedi quello che il tuo amore vi ha fatto poi saprai l’affetto, la gratitudine, la stima, la devozione di Giuditta tua per te.
In questo contesto di vita familiare affettuoso e spiritualmente elevato, Giuditta apre la sua famiglia e se stessa ad una significativa esperienza di carità. È innanzitutto un profondo sentimento di solidarietà umana a guidare i gesti dell’intera famiglia. La villa del Dosso, a Verolavecchia, dove i Montini trascorrono molta parte dell’anno, è una casa aperta, caratterizzata da un andirivieni di persone alla ricerca di un aiuto materiale o spirituale. Particolare attenzione Giuditta la rivolge agli ammalati e all’infanzia. Nel 1935 dona la propria casa di via Vittorio Veneto al parroco perché la trasformi in Oratorio maschile.
L’intero quadro esistenziale di Giuditta Alghisi si colloca – come già si è potuto vedere – all’interno di una profonda vita spirituale. Una spiritualità che trova, all’interno della famiglia, una straordinaria unità, perfino nei linguaggi.
Un punto di riferimento importante in questo senso, condiviso con il marito e poi trasmesso ai figli, è certamente la figura di San Francesco di Sales. Giuditta incontra tale modello spirituale all’interno del collegio delle Marcelline dove in gioventù ha studiato. Ma tale riferimento lo ritrova nello stesso Giorgio (va ricordato che San Francesco di Sales è il patrono dei giornalisti). Si tratta di una spiritualità sobria, netta, fortemente orientata alla vita di ogni giorno.
Accompagnata nel suo cammino spirituale da un grande sacerdote bresciano come don Defendente Salvetti, amico e collaboratore del marito al «Cittadino», Giuditta sviluppa una particolare devozione alla Madonna e soprattutto allo Spirito Santo («il grande dimenticato » – è solita ripetere), cui affida – e le lettere al marito ne sono una testimonianza significativa – ogni decisione importante.
Coniugalità e maternità: si ritrovano in quest’unità nello spirito della duplice esperienza della sposa e della madre le chiavi per leggere e interpretare la sua stessa vocazione di educatrice, che trova il suo linguaggio più alto nella trasformazione del suo abito nuziale in pianeta sacerdotale per la prima Messa, il 30 maggio 1920, del suo Don Battista.
Giuditta morirà il 17 maggio 1943, quattro mesi dopo aver raccolto l’ultimo respiro di Giorgio.
L’esperienza storica di Giorgio Montini è stata ampiamente indagata. Direttore del quotidiano «Il Cittadino », esponente del movimento cattolico bresciano, deputato del Partito Popolare di don Sturzo, padre di un futuro pontefice, collaboratore stretto del Beato Giuseppe Tovini, punto di riferimento del cattolicesimo sociale bresciano di fine Ottocento, Montini vive la stagione di passaggio dall’intransigentismo post-unitario ad una nuova, non ancora compiuta, stagione di presenza e di impegno dei cattolici nello Stato.
Nato a Brescia il 30 maggio 1860 da Lodovico e Francesca Buffali, Giorgio è il primo di sei figli. Entra nel Collegio di Carpenedolo fondato da don Egidio Cattaneo, poi passa al Collegio Vida di Cremona, partecipa alla vita del Circolo dei SS. Faustino e Giovita fondato da mons. Pietro Capretti. Qui conosce Giuseppe Tovini, di sei anni più anziano. Studia Legge a Padova con Luigi Bellavite e Antonio Pertile. Conosce, sempre a Padova, Giuseppe Toniolo.
Nel 1881, proprio Tovini gli affida la direzione del «Cittadino». Giorgio Montini ha 21 anni.
Il suo programma editoriale è chiaro: 1 – non polemizzare con altri giornali cattolici; 2 – alimentare e interpretare l’identità cattolica del popolo bresciano in riferimento all’appartenenza alla nazione italiana.
Nell’articolo Religione e patria del dicembre 1881 sintetizza la linea del giornale: si tratta di «difendere quelle idee religiose, che se furono il patrimonio dei nostri padri […] sono altresì la necessità dei nostri giorni, l’unico vero, e l’unico buono, e saranno il retaggio più bello che lasceremo ai nostri figliuoli». Cattolici, dunque e insieme «cittadini animati da vero amore di patria, a niuno più di noi sta a cuore la prosperità di questo paese che ci vide nascere». E il cuore di tale prosperità – scrive ancora Montini – sta nella libertà e indipendenza del Pontefice. «È una vieta quanto infame calunnia quella che oggi cattolico voglia dire nemico della patria».
Dunque credenti e cittadini: questo il programma che guida Giorgio Montini nell’impegno giornalistico e, più tardi, nell’azione politica. «È in simile strategia – scrive lo storico Giorgio Rumi – che il giornale diventa il tramite più importante, non solo agli aderenti e simpatizzanti del cosiddetto movimento cattolico, ma per tutta la classe dirigente (bresciana, lombarda e anche nazionale) del tempo». Nasce a questo proposito il motto, che diviene subito un manifesto, della «preparazione nell’astensione».
Nel 1911 Giorgio Montini lascia la direzione del «Cittadino». Giuseppe Tovini è morto da oltre un decennio e il nuovo secolo si apre con nuove prospettive e sfide sociali e politiche. In realtà la scelta di lasciare la direzione è dovuta anche ad una serie di malanni che lo affliggono e gli impediscono una regolare vita di redazione.
Durante gli anni della Grande Guerra, dopo aver proclamato il proprio spirito pacifista, anche se non oltranzista, ma condizionato al bene della Patria, Montini entra nella Giunta del Comune di Brescia assumendo l’incarico di Assessore alla Pubblica Istruzione.
È l’inizio di un impegno politico che lo porterà, dopo l’esperienza dell’Unione Elettorale, dove stringe amicizia con don Luigi Sturzo, all’adesione convinta al Partito Popolare. «Il Partito Popolare – scrive ancora Giorgio Rumi – rappresenta davvero la forma migliore – e anzi tipica – per l’impegno politico montiniano. […] Le linee di forza del suo orientamento, culto e pratica della libertà, presenza attiva dell’ispirazione cristiana fino ...