I miracoli di Val Morel è l’ultima opera di Dino Buzzati. Trentanove quadretti, ex voto immaginari, nei quali sono rappresentati altrettanti miracoli di santa Rita da Cascia.
I quadretti raffigurano miracoli di tanti tipi. Si tratta di miracoli impossibili compiuti nella fantasia letteraria e pittorica, con un unico, immenso elemento comune: essi raffigurano l’immaginario buzzatiano presente in tutta la sua produzione letteraria. Ogni ex voto raffigura, dunque, «un simbolo polisenso che assume, nel contesto delle singole opere, connotazioni molteplici e intrecciate; ogni luogo fisico diventa luogo metaforico e metafisico; accanto, dentro e dietro la realtà quotidiana si presentano gli indizi e gli emblemi di un’altra realtà» . La scelta stessa del genere dell’ex voto indica una via precisa: la tavola votiva è «un’immagine narrativa capace di far rientrare in una tavoletta dipinta, di fattura artigianale più che artistica, personaggi terreni e ultraterreni e le rispettive azioni e passioni nei loro aspetti incoativi e terminativi, al di qua e al di là del momento raffigurato» .
Una «mnemoteca», allora : un riepilogo di auto citazioni, un modo ultraletterario di riparlare di sé, autentica e omnicomprensiva opera omnia, con l’idea che ciascuna porzione di incubo − affrontato negli anni – abbia in sé la possibilità essere riscattata. «Già dalla prima pagina – scrive Lorenzo Viganò nella Postfazione alla recente edizione Mondadori dei Miracoli − si rivela una sorta di album personale, che raccoglie, rielaborandole, atmosfere della memoria e luoghi dell’anima; fatti vissuti, ascoltati e sognati in oltre sessant’anni di vita. Così ricco di sfaccettature, rimandi, citazioni, messaggi, assonanze da non poter essere considerato, come ingiustamente avvenne per Poema a fumetti, l’ennesimo gioco del suo autore» .
Illuminanti, parlando dei Miracoli, e non solo, sono le parole di Stefano Lazzarin:
Buzzati [...] è un profondo conoscitore della tradizione, e magari un abile riscrittore di codici e topoi letterari. È un autore che si rivela consapevole del proprio strumento linguistico-espressivo, come delle implicazioni ideologiche del fare letteratura: e questo, malgrado l’understatement quasi leggendario che lo caratterizzava, e che gli ha nuociuto presso taluni critici, troppo disposti a prendere alla lettera le sue dichiarazioni provocatorie. Non è il monotono artigiano di mille storie tutte uguali, eternamente obbedienti agli stessi, rudimentali schemi costruttivi: bensì un raffinato sperimentatore di forme narrative, e più in generale di forme espressive ‘ibride’, situate al confine tra letteratura e arti figurative .
E quest’opera, apparentemente − e volutamente − semplice, eppure piena di enigmi , discorsiva in sé, epitome e definizione, auto epesegesi, se è lecito, cela in sé diverse chiavi di lettura, talvolta trasparenti, talvolta leggibili attraverso un disvelamento della stratificazione, sempre sapientemente celata: chiavi di lettura depositarie dell’«ineludibile istanza dell’ambiguità» che sottende tutta l’opera letteraria dello scrittore bellunese.
Ma c’è di più. I Miracoli di Val Morel è anche un’opera allegra, ironica, che ha come orizzonte ultimo un senso di letizia: passando attraverso l’incubo, attraverso immagini crude e volutamente stranianti. I Miracoli tracciano un percorso che contempla nel suo scorrere la paura e il sorriso.
Certo, parlare di letizia in uno scrittore giudicato da sempre e a ragione come un esempio del tragico novecentesco, sia pure in una sua interpretazione tutta particolare, cioè nella sua contiguità con il fantastico , è una lettura forse spiazzante: Buzzati è sempre stato considerato uno scrittore indubbiamente tragico. Come registra Annalisa Carbone: «A volere indicare quali siano i caratteri fondamentali dell’opera buzzatiana, non può non comparire tra i più evidenti il côté tragico» . Non si può non essere d’accordo, evidentemente: le storie di Buzzati hanno spesso una fine tragica, i personaggi hanno sempre a che fare con una realtà decisamente spigolosa e incomprensibile. Ma nei Miracoli l’orizzonte ultimo, l’ultima parola e l’aria che pervade ogni narrazione sembrerebbero travalicare, guardare oltre, non coincidere con una fine sempre, costantemente drammatica. In altre parole, così come è falso ritenere che la narrativa di Buzzati sia costituita da narrazioni dallo schema sempre ripetitivo, sempre sovrapponibile a quello dell’opera precedente, come è stato spesso sostenuto dalla critica, è altrettanto fuorviante costringere l’autore dentro un’etichetta di monotonia. Convivono nell’opera di Buzzati tragico e comico, sublime, pastiche, favola e cronaca, disperazione e redenzione, varietà di temi e di toni. I Miracoli di Val Morel, opera ultima e definitiva, lo dimostra bene.
Rileggere Buzzati seguendo i miracoli immaginari attribuiti a santa Rita, allora, è un’operazione forse antistoricistica e passibile di fornire il destro a letture forse troppo “orientate” della sua opera, che recentemente hanno fatto dire a Buzzati, forse, anche cose che non avrebbe mai detto . Resta, però, la presenza ingombrante del suo immaginario e delle sue rappresentazioni sempre in bilico fra simbolo e icasticità: gli ex voto dei Miracoli a tutto questo danno corpo, e colore . Scrive ancora Coglitore: «In altre parole Buzzati ha scelto un dispositivo che per sua stessa natura deve rappresentare una sequenza narrativa, la malattia, la preghiera, l’intervento e il ringraziamento in un’unica scena, e deve anche riassumere una pratica religiosa ed essere un oggetto. Non soltanto per ragioni estetologiche ma per rispondere a una pratica sociale condivisa dunque la rappresentazione dei Miracoli è narrativa».
Probabilmente, poi, anche l’operazione di “ripasso” e di recupero trova una motivazione che va al di là della sua ragione d’essere più esteriore: la percezione e la remota convinzione che il suo mondo artistico è destinato a durare.
È lo stesso Buzzati, fino ad allora parco di spiegazioni e di riflessioni metaletterarie, a parlarne nell’Autoritratto, un dialogo fatto con il critico Yves Panafieu pochi mesi prima della morte, pubblicato nel 1971 da Mondadori e vera “miniera” – talvolta, come si avrà modo di osservare, anche troppo presa alla lettera – per il lettore di Buzzati.
Poi l’uomo, a una certa età, s’inaridisce. Perché guardando dinanzi a sé non può più vedere nulla. Sa che non gli è più possibile camminare fin laggiù… Ora se io devo camminare soltanto fin lì, la cresta laggiù perde ogni significato per me, perché è una cosa che non appartiene più alla vita. Mi sono spiegato? L’uomo innamorato capisce che le cose belle sono belle ed hanno un significato perché c’è dentro qualche recondita possibilità futura di quel genere lì. Altrimenti che cosa sarebbe?
[...]
Vedi, quando si dice “la Musa” o “l’ispirazione divina”, io ci credo. Vale a dire: senza un intervento estraneo, che non dipende da noi, senza la grazia, dico bene la grazia, non si fa niente. Io, particolarmente, non faccio niente .
La scelta di affidare il suo immaginario a storie di drammi che vengono risolti e sciolti dall’intervento di santa Rita trova allora un profonda motivazione. L’orizzonte travalica quello descritto in tutta la sua opera: si tratta di affidare alle sue storie una promessa di futuro, di metterle nelle mani narrative di santa Rita, la santa dei miracoli impossibili.