La fine dell'onniscienza
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La fine dell'onniscienza

About this book

«Il filo rosso di questo volume è costituito dall'identificazione di quella "indomita tendenza" a semplificare il mondo della vita per poter disporne a piacimento, che sembra trovarsi alla base della hybris cui Homo sapiens sottopone sia l'ambiente che i propri simili. Riconciliare "tecnoscienze" e "saggezza" stipulando "una nuova alleanza" tra uomo e ambiente è per Mauro Ceruti e per la sua filosofia della complessità la via per emanciparsi dal mito dell'onniscienza/onnipotenza e costruire un'antropologia adatta a un universo tipicamente plurale, che fin dai tempi della "rivoluzione copernicana" si era rivelato privo di centro, senza confini e libero da ogni artificiosa gerarchia. Le ipotesi, le teorie, le "macchine" che l'impresa tecnico-scientifica via via realizza non vanno più intese come mezzi di rappresentazione/manipolazione di una realtà assoluta, che l'uomo può tuttavia sfruttare, ma come tentativi sempre più articolati in un reciproco processo di adattamento tra ambiente e uomo: quasi come un fiume, che si forma là dove meglio il paesaggio circostante permette all'acqua di scorrere, e insieme contribuisce a modellare il paesaggio stesso. Nell'ormai lontano 1986, dedicavo a Mauro Ceruti una splendida battuta di Friedrich von Hayek: "L'uomo non è e non sarà mai il padrone del proprio destino: ma la sua stessa ragione progredisce sempre portandolo verso l'ignoto e l'imprevisto, dove egli impara nuove cose". Oggi mi sembra giusto riproporgliela, proprio alla luce della sua idea che "Homo sapiens non è nato umano, semmai ha appreso a essere umano".» (Dalla Prefazione di Giulio Giorello).

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I. La fine dell'eternità

Ogni causa è all’interno di una storia e da questa storia
riceve la propria identità di causa.
ISABELLE STENGERS

1. Aevum e tempus

La fede in ciò che è eterno e permanente, che fu la risposta di Pitagora e di Platone all’imprevedibilità del ferro e del fuoco da cui nacque la civiltà greca, diventa, nel mondo cristiano dell’Europa medioevale, la fede nell’esistenza di un illud tempus,di un piano atemporale che Dio avrebbe pensato per il mondo prima della sua creazione. Questa fede impone agli uomini del Medioevo l’esigenza di separare, entro la fitta trama degli eventi, ciò che è fondamentale da ciò che è caduco, ciò che è conforme al piano e parte del piano da ciò che è inessenziale schiuma di superficie. A partire dal dodicesimo secolo, l’aevum,l’aspetto sacro del tempo conforme all’aeternitas del piano divino, viene contrapposto al tempus degli eventi, che costituisce soltanto l’aspetto profano del tempo, una serie di variazioni sul tema incapaci di influire sulle direttive del piano divino[1]. Questa immagine della storia non sopisce, ma piuttosto acuisce le controversie su quali luoghi o istituzioni della storia siano definibili nei termini dell’aevum,e abbiano quindi un ruolo privilegiato nel piano della creazione. La Chiesa cerca la legittimazione della propria superiorità gerarchica definendosi come unica istituzione naturale e sovrannaturale a un tempo, esistente nell’aevum e quindi in grado di sottrarsi all’azione distruttrice degli eventi del mondo. Ma anche l’Impero e anche gli Stati nazionali (che avrebbero costituito la novità dell’orizzonte politico europeo alle soglie dell’età moderna) ambiscono a fondare la propria autorità su un’analoga ratificazione di ordine divino (atemporale), a incarnare l’idea di un’autorità sottratta al succedersi temporale delle generazioni e degli individui. Di volta in volta, queste istituzioni avocano a sé anche il diritto di essere le uniche interpreti veridiche del decorso futuro del piano divino. Se la Chiesa del Medioevo impone che ogni profezia debba venire accompagnata dalla necessaria autorizzazione ecclesiastica, altrettanto decisi sono i monarchi assoluti del Cinquecento e del Seicento nell’esercitare una sorta di monopolio del controllo del futuro.



[1] Cfr. K. Pomian, L’ordre du temps, Gallimard, Paris 1984 (tr. it. L’ordine del tempo, Einaudi, Torino 1992); G. Alliney, L. Cova, a cura di, Tempus, aevum, aeternitas. La concettualizzazione del tempo nel pensiero tardomedievale, Olschki, Firenze 2000; P. Porro, a cura di, The Medieval Concept of Time. Studies on the Scholastic Debate and its Reception in Early Modern Philosophy, Brill, Leiden 2001.

2. La "vera" natura del tempo

All’inizio dell’età moderna, la rottura delle sfere celesti che racchiudevano il cosmo è accompagnata da un processo di dilatazione dei tempi della storia. Il compimento del disegno divino non viene più sentito come imminente e incombente. Lo scenario dell’eterno presente si lacera e consente di percepire la profondità del divenire storico, di scandagliare le dimensioni stesse del passato e del futuro. Ma l’idea di aevum, l’aspirazione a una centrale di controllo della storia, sopravvive a questo processo di temporalizzazione della storia. Le differenti immagini della storia che proliferano a partire dal Rinascimento e che si infittiscono in tutto il procedere dell’età moderna restano fedeli, per un aspetto molto importante, all’immagine del tempo storico caratteristica dell’Europa medioevale. Gran parte di queste immagini, infatti, comporta come essenziale un’indagine preliminare sulla topologia del tempo, volta a discernerne la “vera” natura. Alle concordanze e alle discordanze mostrate dall’intrico degli eventi, continua a contrapporsi l’esigenza semplificatrice di dirimere univocamente la questione circa la natura (stazionaria, ciclica o lineare?) del grande tempo della storia.
La varietà, e spesso la contraddittorietà, delle concezioni che vanno alla ricerca della “vera” direzione della storia (concezioni che si dividono nelle due grandi categorie delle filosofie del progresso e delle filosofie del regresso) non fa che mettere in evidenza un medesimo sistema di valori e di credenze, una cronosofia comune. Questa cronosofia apparenta tutte le filosofie della storia che si pongono il problema della scelta fra tempo lineare e tempo ciclico, che credono di potere ridurre senza residui la fenomenologia lineare e irreversibile di molti eventi alla dinamica di cicli più estesi e profondi o che, viceversa, credono di riscontrare una linearità profonda dietro la ciclicità dei fenomeni.

3. Il laboratorio dell'eternità

Nei primi secoli del suo sviluppo, la tradizione scientifica rimane sostanzialmente interna e solidale alle immagini della storia caratteristiche dell’età moderna, al loro modo di rappresentare la natura del tempo e le direzioni della storia. Ciò è esplicito nel modello epistemologico della fisica classica, che cerca di sciogliere la topologia complessa del tempus degli eventi nell’astratta semplicità dell’aevum della meccanica razionale, la quale vuole mostrare come dietro all’irreversibilità dei fenomeni sia sempre celata una reversibilità in qualche modo più profonda.
Nella tradizione scientifica guidata da questo modello epistemologico, un sogno è ricorrente: quello di avere accesso ai destini futuri dell’universo. L’universo post-copernicano e post-galileiano, l’universo dei moti periodici studiati dall’astronomia e dei moti regolari idealizzati dalla meccanica classica, è infatti un universo in cui le semplificazioni e le previsioni sono possibili e attuabili, il che per converso rende allettante la prospettiva che, a forza di semplificazioni e di previsioni riuscite, si possano controllare settori sempre più ampi della realtà. Per molti versi, il moto archetipo di questo universo è pur sempre costituito dai transiti celesti, con le loro apparenti ciclicità e ripetitività. Nulla di strano, allora, che il punto di vista onnisciente degli dèi (e dei demoni) continui a fungere da riferimento ideale per gli itinerari limitati degli umani ricercatori.
La scienza moderna si origina e si sviluppa nella prospettiva di un monismo epistemologico e ontologico: uno stesso Metodo può dare la conoscenza complessiva degli infiniti tasselli del mosaico del mondo. Tale è il fondamento profondo dell’atteggiamento cognitivo dominante in età moderna: quello dell’estrapolazione. Sulla base di una conoscenza adeguata del qui e dell’ora di questo o di quell’oggetto di indagine, di una piccola “porzione” spazio-temporale di universo, nonché sulla base della conoscenza di poche leggi generali e invarianti nel tempo, sarebbe possibile ricostruire con certezza il loro passato e predire il loro futuro.
Questa prospettiva è alla base della visione “classica” della scienza, che ha garantito gli straordinari successi della scienza del Settecento e dell’Ottocento [1]. Essa va alla ricerca di un ordine privilegiato. Un unico metodo sarebbe stato in grado di provare al di là di ogni ragionevole dubbio la verità universale delle ipotesi proposte e in grado di consentire a tutti gli individui di intendersi al di là della contingenza e della precarietà delle loro vicende e delle loro opinioni[2]. Emerge allora l’ideale dell’oggettività razionale, espressione di un osservatore astratto e disincarnato.
Al ricercatore, interprete di questo ideale, spetta il compito di discriminare fra rilevante e accessorio, fra permanente e transitorio, fra essenziale e superfluo. Teatro e paradigma del suo operare diventa il laboratorio: una scena purificata da ogni perturbazione esterna, nella quale i “fatti” diventerebbero tali soltanto in quanto ottenuti in condizioni sperimentali completamente controllabili [3].
La possibilità di controllo e di previsione dei fenomeni sono definite dalle decisioni dello sperimentatore stesso. Cruciale diventa la scelta del sistema da isolare e da sottrarre al gioco delle influenze incontrollabili, degli effetti “parassiti”. Rispetto alle pratiche del laboratorio, la scienza classica si basa sulla convinzione che sia possibile scoprire i sottosistemi da isolare e che sia possibile mettere in atto le procedure per isolarli. Di questa convinzione Newton ha dato una formulazione sintetica: si deve andare alla ricerca delle cause sufficienti per la spiegazione dei fenomeni, perché la natura è semplice e non abbonda di cause superflue. La pratica della scienza “classica”, come ha bene argomentato Heinz von Foerster [4], è regolata dall’idea che, una volta compiuto l’opportuno rituale, la massima parte dell’universo (quella situata oltre il confine da noi tracciato) non conta più.
La possibilità (sperimentata in uno spazio e in un tempo definiti e limitati) di separare nettamente i “fatti” (intelligibili in quanto perfettamente controllabili) dal groviglio delle interferenze alimenta l’idea che sia possibile estrapolare questa stessa separabilità all’universo intero. Si impone l’idea che in ogni regione dell’universo e nell’universo nel suo insieme gli innumerevoli effetti frutto di interferenze locali e incontrollabili siano comunque da trascurare, perché inevitabilmente destinati a essere smorzati dalla traiettoria “normale” (definita dalle poche cause pertinenti e controllabili in linea di principio). La conoscenza delle leggi e la “purificazione” dei fatti consentirebbero senz’altro di cogliere gli stati presenti, passati e futuri dell’universo.
A una mente onnisciente, ogni singolo stato dell’universo nel tempo e lo stato di ogni sua singola particella non potrebbero che apparire, istantaneamente, in assoluta trasparenza. L’onniscienza non è certo pensata come attingibile dalle menti e dalle scienze moderne: ma non per questo è meno importante nell’orientare gli sviluppi della scienza moderna. L’onniscienza diventa il punto di vista normativo rispetto al quale definire le direzioni di sviluppo della scienza stessa.
Si delinea quindi un grande progetto: filtrare l’infinito nel finito, ridurre l’eterogeneo all’omogeneo, identificare un nucleo ristretto di presupposti e di leggi, tramite i quali accedere alle molteplici scale spaziali e temporali del cosmo, non importa quanto lontane dalla collocazione dell’osservatore umano. Si va alla ricerca di un invisibile semplice dietro la complessità dei fenomeni, giudicata soltanto apparente.
La separabilità dei sistemi definiti dalla scena del laboratorio è un’ipotesi, molto forte (e molto restrittiva), introdotta non soltanto rispetto alla struttura spaziale del nostro universo, ma soprattutto rispetto alla sua struttura temporale. La distinzione fra cause vere e cause superflue, la separazione delle cause pertinenti dalle cause non pertinenti, tende a isolare le poche cause suscettibili di dare grandi effetti dalla miriade di cause irrilevanti che verrebbero irrevocabilmente smorzate dal decorso degli eventi. Una volta definite le cause vere e una volta separate da quelle superflue, diventerebbe possibile determinare il decorso temporale e gli stati futuri del sistema in questione con esattezza, e per tutta l’eternità. Questa prospettiva epistemologica è proposta da Pierre-Simon de Laplace, che la riassume nell’ideale regolativo di un punto di vista onnisciente, attribuito a un’intelligenza soprannaturale, a un demone:

Un’intelligenza che, a un istante dato, conoscesse tutte le forze da cui la natura è animata e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se fosse sufficientemente vasta per sottoporre questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella medesima formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e quelli del più leggero atomo; nulla sarebbe più incerto per essa, e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi [5].

La scienza “classica” considera possibile realizzare questo ideale per una vasta gamma di sistemi dinamici: in particolare, considera la dinamica celeste come un modello in cui questo ideale si trov...

Table of contents

  1. Copertina
  2. LA FINE DELL'ONNISCIENZA
  3. Indice dei contenuti
  4. PREFAZIONE di Giulio Giorello
  5. I. La fine dell'eternità
  6. II. La hybris dell'onniscienza
  7. III. L'osservatore dell'osservatore
  8. IV. La riscoperta della physis
  9. V. «Off the line»
  10. VI. L'incompiutezza, condizione dell'umano
  11. Nota bibliografica e Ringraziamenti
  12. Indice dei nomi