Dopo i gravi accadimenti del secolo passato con le conseguenze politico-culturali e etico-morali a tutti ben note, ci si chiede ora con insistenza, quasi per trovare una risposta al disincanto dell’uomo di questo tempo, il perché nel corso del Novecento è avvenuta questa caduta verticale dell’uomo e di un’intera cultura nell’inumano, in parte imprevista e imprevedibile e, soprattutto, così dolorosa e insopportabile. La domanda non finisce qui, perché ci si chiede ancora come uscire da questa condizione, ammesso che sia ancora possibile e, soprattutto, a quale prezzo, se c’è un prezzo sostenibile da onorare. Porsi queste domande e attendersi delle risposte è più che legittimo per un essere umano che si è ritrovato senza una sua identità, sottrattagli da fattori – interni ed esterni – che hanno congiurato contro di lui, minando la sua fiducia e la sua autostima e spingendolo nella terra di nessuno.
Sono questi alcuni degl’interrogativi più ricorrenti, difficili e temerari nello stesso tempo, ai quali bisognerà pur dare una risposta, quasi a voler ritrovare un senso d’intelligibilità, se non di legittimità, nelle trame già così ingarbugliate degli avvenimenti del secolo passato e che prospetti, nello stesso tempo, una qualche linea di soluzione come l’uscita da un labirinto nel quale ci si è trovati smarriti quasi inavvertitamente e senza averlo mai voluto o desiderato. Nonostante l’orrore vissuto e sperimentato dal mondo umano nel corso del secolo trascorso, un nuovo inizio, che segni una svolta nella storia dell’umanità, è ancora possibile. Sarà per questo necessario che l’uomo nel fare memoria del suo passato più recente rinunci a identificarsi con le pratiche di disumanità e delinei i contorni del suo futuro ancorando i suoi comportamenti a paradigmi dell’agire sociale più orientati alla condivisione e alla solidarietà, piuttosto che alla conflittualità e all’aggressività. Raggiungere questi obiettivi di maggiore umanità comporta da parte dell’uomo una scelta nella direzione di un riconoscimento dell’altro come sé e di un ridimensionamento dell’io nella forma di un arretramento del suo spazio a favore di quello dell’altro. La riscoperta dell’altro e l’incontro con lui saranno una sorta di eventi decisivi per uscire dalla solitudine nella quale si è precipitati. Un nuovo inizio non può non costituirsi che come un cammino di condivisione e di solidarietà insieme con gli altri e per gli altri. È un cammino che comporta un uscire fuori da quella caverna, una metafora di cui si è fatto interprete Platone con il mito della caverna nel VII libro della Repubblica, nella quale si è stati rinchiusi, per riappropriarsi della vita reale, altrimenti negata o occultata, vincendo insicurezze e paure. Uscire dalla caverna significa per l’uomo di oggi poter riconquistare uno spazio di azione più ampio nel quale l’io e il tu possano senza alcun impedimento incontrarsi e riconoscersi, senza negare il mondo reale, ma accettandolo come la loro dimora, il luogo del loro patire e del loro sperare.
Gli esiti sul piano politico, sociale e culturale, cui si è assistito nel corso del secolo or ora trascorso, sono stati in gran parte fallimentari e assai deludenti, soprattutto rispetto alle attese e ai facili entusiasmi di un inizio secolo, dominato dall’ottimismo del positivismo di tardo Ottocento e dal grandioso sviluppo delle scienze esatte e delle tecniche. Se a questi primi esiti del secolo già di per sé molto deludenti e frustranti se ne mettono altri sul conto come la perdita da parte dell’uomo dell’identità personale con la fine delle certezze, il decadimento etico dei comportamenti degli individui e dei rapporti tra gli stati tra loro e il riemergere in Europa di forme di un nazionalismo esasperato e senza freni, il quadro descrittivo del primo Novecento risulterà ancora più fosco e pieno di maggiori incognite. La “grande guerra”, combattuta così aspramente e contro ogni logica di umanità, fu una tragica illusione per quanti avevano visto in essa una forma di rigenerazione, quasi un “lavacro”, della società europea diventata troppo corrotta e prossima ormai alla fine, complice la sua decadenza. Le grandi promesse di tipo quasi messianico relative all’avvento di un progresso civile e sociale incontrovertibile, già preannunciato con euforia da molti dei contemporanei di allora come tumultuoso e inarrestabile, che avevano ammaliato la società europea negli anni compresi tra la fine dell’Ottocento e gl’inizi del Novecento, sono state tradite e disattese, molte delle quali rimaste sepolte sotto le macerie degli avvenimenti[1]. Tutto era finito così miseramente e l’uomo si sentì come ingannato, rivedendosi e identificandosi in figura nei personaggi così drammatici, contraddittori e spesso assurdi creati da autori rappresentativi di quegli anni come Huysmans, Proust, Pirandello, Musil, Kraus, Jonesco, Beckett, Osborne e altri ancora, senza avere più un’identità personale spendibile in un mondo diventato per molti versi privo di senso e assurdo. La mancata realizzazione di promesse tanto attese e il conseguente ridimensionamento delle speranze di ognuno hanno avuto come controreazione l’emergere in molti degl’individui di sentimenti come di delusione, di rammarico e di amarezza. Una grande occasione di sviluppo civile e democratico della società occidentale era stata sprecata e maggiori erano diventati i disequilibri e le tensioni tra gli individui e tra gli stati[2].
Le grandi istanze di rinnovamento della società e le tanto millantate aspettative di ampliamento e consolidamento delle libertà individuali, di affermazione della democrazia e di sviluppo della giustizia sociale così a lungo coltivate e che avevano spronato e accompagnato i pensatori più illuminati e gli attivisti politici di quegli anni si erano frantumate sugli scogli di una postmodernità ambigua e contraddittoria in cerca di un suo riscatto[3]. Il sogno finì con l’inizio della prima delle due guerre mondiali combattuta in Europa e nel mondo. I tanti morti – militari e civili – lasciati sul campo, le ferite sanguinose e invalidanti inferte nel corpo e nell’anima degli uomini e delle donne, i rancori, lo spirito di rivalsa e gli odi lasciati in eredità agl’individui e ai popoli delle generazioni successive e, infine, la distruzione di imperi, di nazioni e di città avevano stravolto il destino degli uomini. Era stata ridisegnata la stessa geografia degli stati europei, determinando un vuoto di potere dagl’esiti imprevedibili nel centro stesso del continente europeo, come da lì a poco si sarebbe dovuto prendere atto con l’avvento del fascismo e del nazionalsocialismo e il consolidamento nell’URSS della rivoluzione d’ottobre.
Il “suicidio dell’Europa” – di cui ha parlato Paul Ricœur riferendosi alle vicende del Novecento – è stato allora l’esito inevitabile e il panorama del continente europeo si è trasformato in un grande cimitero[4], dove, infine, le vittime innocenti hanno trovato nella sepoltura la loro ultima casa[5]. L’Europa ha perso allora le sue radici rinunciando alla grande lezione dell’illuminismo e ai pilastri dell’idea europea e diventando complice muta di fronte al tradimento dei suoi “chierici”[6]. Nella condizione di decadimento di quegli anni l’uomo si è trovato privato perfino dell’illusione di poter prendere le necessarie distanze rispetto a quanto si opponeva a un’affermazione delle ragioni di un’umanità coesa, o, almeno, di poter governare il corso degli eventi rincorrendo un progetto di umanità nel segno di una solidarietà condivisa. Era un’idea quest’ultima che si era affacciata in taluni interpreti anche negl’anni più bui di quel secolo come risposta al caos incombente. Il tradimento dell’uomo e delle sue speranze residue ha conosciuto il suo momento più efferato negli anni ’30-’40 del secolo passato, quando Caino ha prevalso sul fratello Abele e nella figura di quest’ultimo – specchio del popolo ebraico e di tutti i “dannati della terra” sterminati nel mondo – ha ucciso con crudeltà e senza pietà l’umanità intera. La fuga per terre lontane – il senso della gravità della colpa, la vergogna per il male commesso? – non ha salvato Caino dalla perdizione. Troppo profonde erano state le ferite inferte per essere dimenticate e troppo grande era stata la colpa per essere perdonata.
L’uomo del Novecento, dopo le sconfitte e le delusioni patite, ritrovatosi quasi per inerzia sul crinale di un cambiamento in senso più umano sempre atteso, ma mai avvenuto realmente, è vissuto come in uno stato comatoso nell’equivoco più doloroso, senza essere stato in grado di fare una scelta tra due opposte visioni della vita concorrenziali tra loro. La non scelta non è stata priva di conseguenze. «Su un fronte – scrive Emilio Gentile – c’era l’uomo moderno costruttore, l’artefice della civiltà più ricca, potente, colta e planetaria che la storia avesse mai conosciuto, l’uomo inventivo, audace, entusiasta, combattente imperiale, costantemente proteso all’avventura e alla conquista, armato dell’orgoglio della fede nella sua potenza propriamente umana, che poteva fare a meno di Dio, perché si sentiva esso stesso posseduto da energia divina; sull’altro, c’era l’uomo moderno distruttore, l’artefice della decadenza della stessa civiltà che aveva costruito, il degenerato, il gaudente, il decadente, il dubitoso, il nichilista che aveva proclamato la morte di Dio, ma non sapeva vivere con orgoglio il suo destino senza Dio e vagava alla deriva, trascinato dalla corrente per essere alla fine inghiottito nel vortice di una modernità che lo avrebbe travolto con l’impeto delle sue forze sfuggite al controllo umano»[7]. L’uomo distruttore è prevalso sull’uomo costruttore e le conseguenze sono state drammatiche per le sorti dell’uomo e, più in generale, per la stessa convivenza umana. È attraverso questa deriva, apertasi nella mente e nel cuore dell’uomo, che è dilagata nel mondo una violenza immane, potenziata «da una cultura che impone una visione dell’uomo come macchina di godimento programmata per la propria autoaffermazione»[8].
Nell’epoca del disincanto la condizione di vita dell’uomo è diventata ancora più incerta e più precaria, sospesa tra inganni e delusioni, smarrimenti e sconfitte, rimasta priva di punti di riferimento e di un approdo sicuro e ancor più piena d’incognite sul futuro prossimo che incombeva su ciascuno. È per questo che essa non si presta né si può prestare, ieri come oggi, ad essere comparata se pure lontanamente, o più semplicemente confrontata, con quell’altra condizione spesso solo virtuale che vive nei desideri e nei sogni di ciascuno e rimane come meta sullo sfondo di ogni desiderio e di ogni agire dell’essere dell’uomo. La distanza tra le due condizioni non è di poco conto. La seconda condizione di vita, in particolare, non è qualcosa di reale, quanto, invece, qualcosa di semplicemente immaginato o solo sognato da parte di un uomo deluso e frustato del suo presente, che cerca la sua rivincita prefigurandosi con l’immaginazione altri mondi e altre terre, sapendo già che non esistono né altri mondi, né altre terre, ma solo questa terra che abitiamo con tutte le sue contraddizioni. Questa si configura sovente, o almeno nei rari momenti di maggiore consapevolezza degli individui, come nostalgia e attesa di un futuro umano diverso rispetto a un presente troppo anonimo, ripiegato su se stesso e chiuso a ogni speranza. Manca loro la dimensione del passato con la quale confrontarsi e da cui riprendere l’eredità più viva, ammesso che ce ne sia una e che ne valga ancora la pena, mentre il futuro da costruire rimane vago e, comunque, inaccessibile e ancor più irraggiungibile. La paura è il limite dell’uomo rispetto al suo passato e al suo futuro e il mondo umano appare assolutamente piatto e anonimo. Perché riandare al passato e, poi, perché proiettarsi verso il futuro, se il presente è così inconsistente e il suo orizzonte è così chiuso e ogni sguardo sul mondo umano rimane precluso? Ogni attesa diventa inutile, come sperimentano con angoscia i due personaggi stralunati di Aspettando Godot di Samuel Beckett.
Privati della dimensione del passato e incapaci di aggrapparsi e di ancorarsi a un futuro come a una scialuppa per il difficile attraversamento nella storia, che li attende, «Gli uomini vivono alla giornata – così constata con amara lucidità Lasch – raramente guardano al passato perché temono di essere sopraffatti da una debilitante ‘nostalgia’; e se volgono l’attenzione al futuro è soltanto per cercare di capire come scampare agli eventi disastrosi che ormai quasi tutti si attendono. In queste condizioni l’identità personale è un lusso [...]. L’identità personale implica una storia personale, amici, una famiglia, il senso di appartenenza a un luogo. In questo stato di assedio l’io si contrae, si riduce a un nucleo difensivo armato contro le avversità. L’equilibrio emotivo richiede un io minimo, non l’io sovrano di ieri»[9]. Sta qui la gravità della crisi dell’uomo di oggi, quando il venir meno dell’identità personale si accompagna alla perdita della trama comunitaria dell’esistenza umana. Ma sarà almeno sufficiente, dopo la ritirata dal mondo umano dell’ “io sovrano” di ieri, poter disporre – come negli auspici di Lasch – di un “io minimo” per attraversare indenne le temperie di questo tempo o sarà necessario, invece, un risolutivo mutamento di paradigma nella condizione umana? Le possibilità di un passaggio definitivo da una condizione all’altra dell’uomo sono, però, assai ridotte, quasi inesistenti. Nel frattempo, come risultato finale di una f...