Un passo di Ezechiele rappresenta molto bene il dispositivo ideologico sul quale poggia il paradigma sacrificale e l’intera macchina astratta che abbiamo chiamato «sacrificio dei figli». Il lavoro esegetico su questo importante versetto riassume, come in un cristallo, l’intera operazione di decostruzione e ricostruzione che abbiamo intrapreso in questo libro. Tale passo, infatti, è una delle autorevoli pietre miliari per chi sostiene l’esistenza, nella Bibbia, di un culto di Moloch e di un rito cruento nel quale il neonato, qui in particolare ogni primogenito, era fatto «passare per il fuoco» e sacrificato alle divinità pagane; proprio come avvenne prima della fuga dei Giudei dall’Egitto, quando Yahwè sterminò i primogeniti degli Egiziani mentre il popolo d’Israele celebrava la prima, archetipica Pasqua (Es. 12,12).
[25] Allora io diedi loro perfino statuti non buoni e leggi per le quali non potevano vivere. [26] Feci sì che si contaminassero nelle loro offerte facendo passare per il fuoco ogni loro primogenito, per atterrirli, perché riconoscessero che io sono il Signore ( wa’ăt .ammē’ ’ōtām běmattnōtām běha‘ăbîr kol-pet.er rāh.am lěma‘an ’ăšimmēm lěma‘an ’ăšer yēd‘û ’ăšer ’ănî yhwh). (Ez. 20,25-26, tr. Cei)
«Passare per il fuoco» i figli sembra qui inteso come una misura pedagogica di Yhwh nei confronti del popolo peccatore. In particolare, il verso evoca il passaggio nel fuoco di «ogni primogenito», mentre poco oltre si parla di «figli» in generale (cfr. v. 31). Viene spontaneo chiedersi per quale ragione Dio avrebbe spinto gli Israeliti a sacrificare addirittura «ogni primogenito» per il mancato rispetto del Sabato (v. 24), un’infrazione tipicamente “sacerdotale” e post-esilica. A ben guardare infatti le cose non sono così lineari: anzitutto la traduzione Cei è imprecisa, perché qui, a differenza che nel v. 31, non c’è traccia di «fuoco» nel TM, visto che si parla unicamente di beha‘abîr, ossia «far passare o attraversare, passare oltre, trasferire, affidare» (manca del tutto il termine b ā’ē š, «nel fuoco»). Inoltre, mentre l’ebraico biblico usa solitamente il termine b ĕ kôr per indicare il «primogenito», qui il sostantivo è del tutto assente e in sua vece troviamo l’oscuro termine pet .er r ā h .am. Ma alla locuzione beha‘abîr kol-pet .er r ā h .am ci si aspetterebbe che, in assenza del complemento di luogo «nel fuoco», facesse seguito almeno un complemento di termine: passare, trasferire l-, ossia «a qualcuno o qualcosa» ogni pet .er del r ā h .am (analogamente a Levitico, come sappiamo, dove i figli sono affidati lamm ō lek, ossia, secondo la tradizione, «a Moloch»). Il traduttore ha probabilmente aggiunto «nel fuoco» per dare senso a una frase che altrimenti non ne avrebbe, richiamandosi schematicamente agli altri numerosi passi, nei quali il verbo viene associato sia al fuoco sia ai bambini [1] . Ma quest’operazione, che salva la lettera del testo e al contempo ne deturpa lo spirito, sospinge automaticamente l’intero passo dentro una cornice sacrificale alla quale, come cercheremo ora di dimostrare, non appartiene affatto.
Il testo acquista una maggiore trasparenza se si presuppone una manipolazione della seconda parte del v. 26. Nella prima parte v’è un gioco di parole paronomastico sul tema dell’impurità ( t . ā m ē h) e nella seconda parte interviene a nostro avviso la corruzione testuale. Se leggiamo il v. 26 inserendo delle separazioni del tutto fittizie ma funzionali: běha‘ăbîr kol-pet .er rāh.am | lěma‘an ’ăšimmēm | lěma‘an ’ăšer | yēd‘û ’ăšer ’ănî yhwh, notiamo subito uno strano raddoppiamento sia di l ě ma‘an sia di ’ ă šer. Ebbene, ’ ă šer è una comunissima congiunzione («che, perché, affinché») e l ě ma‘an ha una funzione preposizionale («a causa di, per, in favore di»). Tenendo per il momento in sospeso il significato di pet .er r ā h .am, Girolamo interpreta in questo senso: et pollui eos in muneribus suis cum offerrent omne quod aperit vulvam propter delicta sua et scient quia ego Dominus («E li contaminai nelle loro offerte facendo sì che offrissero ogni cosa che apre la vagina a causa dei loro delitti e sapessero che sono il Signore»), saltando nella propria resa la seconda ripetizione di l ě ma‘an e utilizzando anziché «primogenito» la parafrasi: omne quod aperit vulvam.
A nostro avviso, se leggiamo il verbo b ě ha‘ ă bîr in associazione a l ě ma‘an inteso non come congiunzione, ma come complemento di termine, la frase inizia ad avere senso. Infatti, in ebraico ma‘an è un sostantivo che significa semplicemente «cura, attenzione», che tuttavia richiederebbe di essere seguito da un genitivo ( status constructus) con l’indicazione di chi presta queste cure o attenzioni. Ipotizziamo che l ě ma‘an ’ ă šimm ē m («a causa della loro colpa, per via del loro peccato»), così come le ultime parole: y ē d‘û ’ ă šer ’ ă nî yhwh («sapessero che io sono Yhwh»), siano due aggiunte assai tarde, successive alla traduzione greca della Bibbia (che infatti non le riporta), volte a trasformare in senso yahwista una frase estremamente imbarazzante dal punto di vista teologico per i sacerdoti gerosolimitani, con il risultato di renderla pressoché assurda e incomprensibile. Se infatti supponiamo che il termine ’ ă šer (radice ’šr) sia stato leggermente emendato con l’omissione di una he finale ( ’šrh) e in origine il vocabolo fosse ’ ăšērāh, ossia il nome della dea Ašērāh, la Grande Madre della mitologia cananea e semitica, già adorata a Ugarit, nonché paredra di El, Ba‘al e anche di Yahwè (come risulta dalle iscrizioni di Kuntillet Ajrud), anch’essa ben presente, accanto alle altre divinità pagane, nella polemica anti-idolatrica della Bibbia, allora il passo potrebbe riacquistare la sua fisionomia originaria e presentarsi provvisoriamente così: «E li resi impuri nei loro doni nell’affidare ogni pet .er del r ā h .am alle cure di Ašērāh».
Resta da capire che cosa intenda il TM con l’espressione pet .er r ā h .am: che cosa viene affidato alle cure di Ašērāh? Si tratta davvero del «primogenito»? Il greco della LXX presenta una frase piuttosto diversa dal TM e offre una chiave di lettura utilissima per risolvere l’intera questione [2] : kaì mian ō autoùs en tois dómasin aut ō n en t ō diaporeúesthaí me pan dianoigon m ē tran óp ō s aphanís ō autoús («E li contaminai attraverso i loro doni espellendo ogni produzione dell’utero in maniera tale da sbarazzarsene») [3] . Se capiamo correttamente, i LXX leggono la frase come una sorta di punizione di Yahwè, che provoca aborti nelle donne del popolo contaminato da idolatra. Ma qui manca ogni accenno ad Ašērāh e quindi possiamo presumere che i traduttori greci avessero a disposizione un originale ebraico già parzialmente emendato o diverso.
In ebraico il significato di r ā h .am non è così oscuro, perché in forma verbale significa «amare, avere compassione» e nella forma sostantiva plurale significa, in generale, «viscere» ( r āh .ă mîm), ma con riferimento alla donna significa «utero» (come abbiamo visto, infatti, Girolamo traduce r ā h .am con vulva e la LXX con m ē tra), il che lega indissolubil...