Estremi e distanti, il dio e l’uomo come il mezzogiorno e la mezzanotte.
Tutto ciò che era posto nel dio, nell’uomo veniva tolto.
(G. Vigolo, Della poesia come fondamento)
Fin dai primissimi tentativi di forgiarsi una strumentazione idonea a rivestire di armonici e di preziose coloriture timbriche la sonorità di una parola – il Verbo poetico – chiamata a levarsi sui piani del Canto spiegato quando non del Carme, fin dalle prime sistemazioni della sua Ars poetica Giorgio Vigolo ha individuato un fertile terreno d’esercizio teorico e di pratica espressiva nella triangolazione di nuclei d’irradiazione simbolica tenacemente persistenti. Tali mots-clés , fra i quali sottolineo ai fini dell’argomentazione termini quali parola (col suo omologo poesia , ben ancorato alla radice etimologica) creazione , destino , segnalano dietro i mitologemi percussivamente ricorrenti nell’opera dell’autore romano un intreccio di tensioni che dalla sfera onirica e del subconscio – fonti di sollecitazioni direttamente rifluenti nell’invaso artistico anche se sostanzialmente non traducibili nell’alfabeto freudiano [1] e psicoanalitico – procedono verso la fissazione di una cifra classicamente risolta nella composita fusione di elementi tecnico-artigianali e di più instabili inquietudini dello spirito nel crogiolo di una vera e propria ‘etica della creazione’. Dall’ambito del duro apprendistato al dominio della forma, consustanziale al pensiero, si approda di necessità alla concezione della parola plasmata dall’artefice come concreto seppur traslato segnacolo del travaglio della creazione operata tanto sulla materia molle – il fango originario – quanto su quella refrattaria del linguaggio artistico (architettonico, petroso, michelangiolesco: definizioni valide per molte prove di Vigolo da Conclave dei sogni del ’35 ai I fantasmi di pietra e La fame degli occhi , frutti esemplari dello stile tardo che collocano Vigolo entro una costellazione letteraria illustre [2] ). Per restare in prossimità dell’associazione, tuttaltro che peregrina e occasionale, operata dallo scrittore tra la facoltà generandi ( scribendi ) del poeta e quella creandi di Dio gioverà scorrere un brano tratto dal paragrafo intitolato La caduta originaria del saggio capitale di poetica del giovane Vigolo, ossia Della poesia come fondamento , scritto nel 1929, pubblicato nel 1962 su rivista insieme ad altri scritti inediti e finalmente leggibile in appendice alla monografia di Alberto Frattini, Introduzione a Giorgio Vigolo . I termini della questione e il lessico adottato sono chiarissimi al di là del bozzolo metaforico la cui intelaiatura costituisce uno dei passaggi obbligati per l’attitudine dell’autore a concepire il pensiero in forme sature di espressività:
Il creare in sé, che è l’intimo nucleo della poesia, contiene i termini di creatore e di creatura non distinti e opposti, ma assolutamente interfusi, giacché il creatore non crea che se stesso e il creare è il suo modus essendi... È solo nel momento tragico in cui l’immagine si travaglia nella partenogenesi dell’altro, che si satura di sé medesima fino al distacco, in cosa creata, della sua stessa pienezza. Questo distacco è la repulsa di una saturazione che si pone come esigenza d’un opposto, d’un antitetico, e determina con ciò la transizione all’altro da sé o meglio la negazione di sé che è la vera creazione e cioè distacco in cosa creata: parto [3] .
Nel sistema abbozzato dal giovane autore, da poco liberatosi dalla tutela della figura-guida ‘virgiliana’di Arturo Onofri, vengono a coincidere Genesi della vita e crescita della parola suscitata dal dolore dell’esistenza che rompe il “silenzio creato” con la manifestazione della dismisura dell’uomo rispetto ai confini e alla sacralità della natura, romanticamente letta come proiezione immanente dell’ombra del divino. L’entità che sovrintende all’architettura del cosmo è identificata col moto che spinge alla nominazione, al rapprendersi in parola, immagine, suono del pulviscolare “limo” fatto di colori, presenze, sensi e sovrasensi da cui germina la coscienza:
La divinità è il creare: anzi la divinità è un attributo umano del creare: un attributo che riassume gli altri attributi di infinito, eterno, onnipotente, onnisciente ecc. Ma ciò che importa non sono gli attributi, è la sostanza. E la sostanza, è appunto questo creare, di cui la mente umana non può formulare più elevata definizione, che identificandolo al creare poetico: alla poesia [4] .
Del segno (1938), ulteriore passo in avanti verso una definizione di sé e del proprio operare rispetto agli scritti che preludono al passaggio dalla coesistenza di prosa e verso (secondo uno stilema invalso in età vociana) alle prime raccolte poetiche, investe anche l’uomo della potenzialità della creazione. Essa agisce come una luce riflessa emanata dalla sorgente divina per accompagnare il poeta in un tragitto di autorivelazione, di presa in carico della responsabilità orfica del dichter, il poeta tramite tra il mondo dello spirito e i regni della vita naturale.
Il poetare è un atto in cui l’anima si riporta alle condizioni originali del processo creativo di sé e del mondo: poesia è il modo e la sostanza di tale processo in quanto partecipato e autorivelato all’uomo: è, in altri termini, la Parola, il Dio che passa al Creare, è il calore nel punto che si fa luce e suono [5] .
Il passaggio del fuoco creatore dal dio-demiurgo all’uomo segna però l’immissione nel puro circolo della rappresentazione oggettiva dell’essere di fattori imponderabili di pena e di ansia, congeniti alla fragilità dell’individuo. Massima rimarrà sempre la divaricazione tra la nobiltà del compito e la debolezza del depositario del potere di dare voce alle cose, e ciò sarà ragione nelle stagioni seguenti del poeta di un teso agone con i limiti della propria “miseria” corporale. Vigolo può sembrare talvolta sfiorato dall’ala della crisi epistemologica che a inizio secolo aveva condotto Hofmannsthal a denunciare in Ein brief l’estraneità delle cose al senso che l’io vorrebbe loro imporre. Ad esempio, un capitolo di Canto fermo presenta lo spaesamento del primo uomo negli spazi “disanimati” del “mondo creato”; Adamo, ancora inconsapevole del suo dono e incapace di accordare la cetra di Orfeo, è letteralmente risucchiato dall’identità plurale e metamorfica della realtà nuova che lo attornia e che attende da lui il battesimo che la faccia esistere simbolicamente:
Non il dolore degli uomini, ma quello più accorato delle pietre, delle cose inerti e mute io portavo su me; non come Dio per gli uomini, ma come uomo per dare un’anima alle cose, mi agguagliavo ad esse e per esse mi disanimavo. Non mi sapevo più io, avevo perduto il mio nome come si perde un oggetto per via. Ed ero tornato la creatura spersa, sola nel creato, che ha paura, che ha freddo, il primo animale nato allora, che si guarda d’attorno la terra solitaria e infinita: Adamo [6] .
Al contrario, nel breviario di poetica l’investimento è nella totalità generante della parola (ignara di qualsiasi depauperazione, almeno fino al momento del tragico redde rationem coi fantasmi di una vecchiaia insidiata dalla decrepitezza e della morte [7] ), e la posta della scommessa è altissima. Anello di congiunzione tra celeste e terrestre, corpo prestato all’inafferrabilità delle idee, delle passioni intellettuali raffinate al bagliore della filosofia, la parola è consacrazione e condanna ad un tempo; difatti mai Vigolo conseguirà quella misura, quell’equilibrio che dovrebbe mitigare, secondo le teorie del poeta di Tubinga, l’accensione di sentimenti esacerbati, il dolore della separatezza e la nostalgia dell’unità infranta. Basti ricordare qui la testimonianza diretta che l’autore ha affidato a Pietro Gibellini: «la mia poesia ha la sua radice più tragica in un trauma; e più ancora che critici e filologi, vorrei che mi esplorassero – in una patologia indubbiamente autentica, quanto diversa e allergica – psichiatri e neurologi. La mia poesia è sempre un test psichico da analizzare, il diagramma delle curve di una febbre (visioni, sogni, incubi, terrori) che dalla mia prima adolescenza mi martirizza. Poesia pagata cara» [8] .
Il travaglio della creazione travasa nella modalità della ri-creazione, attraverso i mezzi dell’arte, l’affanno della rottura del silenzio – la stille hölderliniana più che l’idillica ruh cara al Goethe lirico – come il disequilibrio prodotto dalla comparsa dell’uomo, creatura dolorante, esposta agli attacchi di oscuri “mostri” che «danno le cacce» a un orfano smarrito e assediato dai fantasmi; la commossa invocazione alla madre sigilla l’io poetico, mai come ora autobiografico, nel tenebroso carcere della psiche piagata, abbandonata dalle immagini consolanti che più non giungono dal “lontano” (quale verità psicologica nell’indefinitezza di questo avverbio sostantivato!) in cui si è spersa l’ombra della madre:
Madre, mia madre
dove sei nel lontano?
dove ti sei sperduta dopo la morte,
che più non mi mandi la tua immagine
e deserti sono i miei sogni,
ma meno della mia vita?
Io sto quaggiù lo vedi in quale pericolo
strani mostri mi fanno le cacce,
girano intorno intorno alla poca rupe.
La figura della madre è parte del vasto destino che vede la nascita degli uomini come uno “staccarsi” dall’indifferenziato grumo divino («la bontà indivisa») per precipitare in una realtà di parvenze effimere che velano gli occhi di visioni e affollano le notti di incubi indecifrabili («ambigue larve»). Del resto, come ha ben visto Bruno Nacci, l’attività onirica per lo scrittore romano è una spessa cortina di miraggi, non sempre e soltanto forieri di momenti d’esenzione dal male dell’esistenza. La fitta matassa del sonno sdipana i segreti chiusi nell’animo turbato facendo sì che la scrittura si risolva in «una modulazione all’interno di una placenta onirica da cui sembra non ci sia scampo» [9] ; in tale ‘ hypnomachia’ che impegna l’inconscio del poeta l’appello alla madre assume l’intensità di una preghiera, culminando nella richiesta («schiariscimi gli occhi») di dissipare le ombre che offuscano la ragione e impediscono di ristabilire la comunicazione affettiva rotta dalla morte:
Madre, se esisti ancora
in qualche punto dell’universo
o sei tornata alla bontà indivisa
da cui ti staccasti nel nascere,
fammi sentire
diminuita la mia solitudine,
schiariscimi gli occhi,
che io giunga a rivederti
nell’alto del tuo sereno,
e smetta di scorgere
al tuo posto le ambigue
larve che ti nascondono
al figlio [10] .
da questa lotta derivano l’orgoglioso titanismo di Vigolo e il confronto con la notte ferm...