Emigrante per diletto
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Emigrante per diletto

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About this book

A cura di Cecilia Bolles
Prefazione di Francesca Romana de' Angelis
Nell'agosto del 1879 Robert Louis Stevenson lascia l'Inghilterra diretto negli Stati Uniti per raggiungere Fanny Van de Grift, la donna di cui è perdutamente innamorato. La traversata sarà descritta in Emigrante per diletto che è insieme cronaca di viaggio, memoria autobiografica, riflessione sociologica, splendida avventura letteraria. Sul piroscafo Devonia, tra gli emigranti che spinti dalla povertà e dalla sofferenza
affrontano l'esilio inseguendo il sogno di un futuro migliore, Stevenson scopre un mondo sconosciuto. Da questo momento la traversata più che viaggio verso l'altrove diventa viaggio verso gli altri, in uno slancio di inclusione che è insieme conoscenza e sentimento. Un'umanità dolente raccontata con uno sguardo intenso e partecipe, un tema di sofferta attualità, un documento storico di straordinaria importanza.

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Emigrante per diletto

La seconda classe

Ho incontrato per la prima volta i miei compagni di viaggio a Glasgow, sul molo di Broomielaw. Da lì iniziammo a scendere lungo il corso del Clyde con uno spirito tutt’altro che amichevole; ci guardavamo con sospetto, come possibili nemici. Alcuni scandinavi, che conoscevano già il Mare del Nord, erano socievoli e loquaci e fumavano la pipa; tra gli inglesi, invece, distacco e sospetto regnavano sovrani. Il sole fu presto coperto dalle nuvole e il vento si fece più freddo e pungente, mentre noi continuavamo a scendere l’ampio estuario del fiume; con l’abbassarsi della temperatura, aumentava la tristezza tra i passeggeri. Due donne piangevano. Chiunque fosse salito a bordo avrebbe potuto pensare che tutti quanti ci stessimo nascondendo dalla legge. A malapena ci scambiavamo qualche parola e non ci univa nessuna sensazione se non quella del freddo, ma alla fine, una volta arrivati a Greenock, un braccio indicò velocemente a dritta e ci venne annunciato che eravamo in vista della nostra nave. Eccola lì, in mezzo al fiume, ancorata al Tail of the Bank, con la bandiera al vento: un muro di parapetti, una strada di tughe bianche, una foresta grandiosa di alberi e pennoni, più grande di una chiesa, che presto sarebbe stata tanto popolosa come una di quelle città che stavano sorgendo in quella terra verso la quale stava per condurci.
Io non ero, in realtà, un passeggero di terza classe. Nonostante fossi ansioso di vedere l’aspetto peggiore della vita degli emigranti, avevo del lavoro da finire durante il viaggio e mi avevano consigliato di viaggiare in seconda classe, dove almeno avrei avuto a mia disposizione un tavolo. Fu un ottimo consiglio, ma per capire il senso della mia scelta e quello che avevo ottenuto, sarà utile una descrizione a grandi linee dell’interno della nave. A prua c’è l’interponte n. 1, al quale si accede scendendo due rampe di scale. Un po’ più a poppa un altro boccaporto, sul quale c’è scritto «interponti n. 2 e 3», immette in tre corridoi due che, vanno a prua verso l’interponte n. 1, e il terzo verso la poppa e i motori. Nel corridoio di prua ci sono gli alloggi di seconda classe. Per completare la descrizione del vascello, ancora più a poppa, sotto le cabine degli ufficiali, c’è un terzo nucleo di interponti, il n. 4 e il n. 5. La seconda classe, per tornare a noi, è quindi una sorta di oasi proprio nel cuore degli interponti. Attraverso il sottile tramezzo si possono sentire i passeggeri di terza classe che vomitano, il tintinnare dei loro piatti di alluminio all’ora dei pasti, i diversi accenti delle loro conversazioni, il pianto dei bambini terrorizzati dalla nuova esperienza, o il nitido, secco rumore dello schiaffo dei loro genitori come punizione.
Comunque, ci sono molti vantaggi per chi abita questa striscia di nave. Non deve portarsi da casa i piatti e l’occorrente per dormire, ma trova una cuccetta e un tavolo, forniti di tutto il necessario, anche se in modo approssimativo. Si può vantare di una qualità migliore per quanto riguarda l’alimentazione la quale, strano a dirsi, varia non solo da una nave all’altra, ma anche sulla stessa nave, a seconda che sia diretta a est oppure a ovest. Secondo la mia esperienza, la differenza principale tra la nostra tavola e quella del vero passeggero di terza classe consisteva nell’esistenza del tavolo stesso e dei piatti di terracotta nei quali mangiavamo. Ma per non risultare ingrato, lasciatemi ricapitolare tutti i vantaggi. Per colazione, da bere potevamo scegliere tra tè e caffè: una scelta non facile, dato che le due cose erano sorprendentemente simili. Mi resi conto che potevo dormire dopo il caffè e stare sveglio dopo il tè, il che è una prova definitiva di una qualche differenza chimica tra i due; persino il mio palato era in grado di distinguere un vago sapore di tabacco nel primo da un aroma di bollitura e strofinacci da cucina nel secondo. A dire il vero, ho visto dei passeggeri che, dopo molti sorsi, avevano ancora dei dubbi su quanto avevano bevuto. Per quanto riguarda il cibo, eravamo magnificamente privilegiati poiché oltre al porridge, comune a tutti, per noi c’era lo stufato con patate e cipolle, a volte del pesce e a volte delle crocchette. La cena, che consisteva in una minestra, carne arrosto, carne sotto sale e patate, era, credo, esattamente uguale per la seconda e per la terza classe; ho solo sentito dire che le nostre patate erano di qualità migliore. Due volte alla settimana, nei giorni del dolce, invece del budino avevamo una specie di suola di scarpa farcita di uva sultanina, che portava il nome di budino natalizio. All’ora del tè, ci veniva data della carne sminuzzata, avanzata dalla prima classe, che a volte assumeva la forma, relativamente elegante, di piccole crocchette; ma in generale non erano che ossa di pollo o scaglie di pesce, né calde né fredde. Se non si trattava di avanzi di altri piatti, l’aspetto era sicuramente deludente; ma eravamo tutti troppo affamati per essere orgogliosi e ci buttavamo avidamente su quegli avanzi. Questi, insieme al pane che era eccellente, e la minestra e il porridge, anch’essi buoni, costituirono la mia dieta durante tutto il viaggio; e dunque, a parte la carne sminuzzata e la comodità di un tavolo, avrei potuto benissimo essere come un passeggero di terza classe. Se solo mi avessero dato il porridge anche la sera, sarei stato pienamente soddisfatto. Per come stavano le cose, con qualche biscotto e un po’ di whiskey e acqua prima di andare a letto, riuscii a mantenere corpo e spirito in forma e all’altezza della situazione.
L’ultimo particolare per cui il passeggero di seconda classe è notevolmente al di sopra del suo fratello di terza è solo una questione di opinioni. In terza classe ci sono uomini e donne; in seconda ci sono signori e signore. Per un certo periodo dopo essere salito a bordo, ho pensato di non essere altro che un uomo, ma nel corso di un giro di esplorazione tra un ponte e l’altro, mi capitò di imbattermi in una targa d’ottone, e fu così che appresi di essere ancora un signore. Naturalmente, non lo sapeva nessuno. Ero perso nella folla di uomini e donne, rigorosamente confinato nella stessa parte di nave. Chi poteva dire se alloggiavo a destra o a sinistra degli interponti n. 2 e 3? Ed era solo lì che la mia superiorità era reale; per il resto ero in incognito, mi aggiravo con semplicità tra i miei inferiori, senza la minima spavalderia che potesse indicare che dopotutto ero un signore al quale veniva servita carne sminuzzata all’ora del tè. Eppure era come avere una patente di nobiltà a casa nel cassetto; e quando mi sentivo giù di morale, potevo scendere e rimettermi in sesto dando un’occhiata a quella targa d’ottone.
Per tutti questi vantaggi avevo pagato solo due ghinee in più. La tariffa di terza classe è di sei ghinee, quella di seconda è di otto ghinee. E se pensate che i passeggeri di terza classe devono portarsi da casa i piatti e l’occorrente per dormire, e che, in cinque casi su dieci, o si portano qualcosa in più da mangiare o pagano in privato il cambusiere per qualche razione extra, la differenza di prezzo diventa quasi simbolica. Aria relativamente respirabile, cibo relativamente vario, e la soddisfazione di sentirsi, in privato, un signore, era tutto quello che si poteva chiedere.
Due dei miei compagni di seconda classe avevano già viaggiato alla tariffa più bassa e dissero che era un’esperienza da non ripetere. Mentre continuo a raccontare dei miei compagni di terza classe, il lettore capirà che non erano gli unici a pensarla così. Dei dieci con i quali ero più o meno intimo, sono sicuro che non meno di cinque giurarono che, se mai fossero ritornati, avrebbero viaggiato in seconda classe; e tutti coloro che avevano lasciato le loro mogli a casa affermavano che piuttosto sarebbero rimasti senza il conforto della loro presenza, finché non fossero stati in grado di farle viaggiare addirittura in prima classe.
Il nostro gruppo della seconda classe probabilmente non era il più interessante a bordo. Forse, persino in prima classe si poteva trovare altrettanta benevolenza e personalità. Eppure, c’era qualche personaggio che destava curiosità, come ad esempio degli svedesi, danesi e norvegesi, uno dei quali, conosciuto con il nome di «Johnny», ci divertiva molto, nonostante le sue proteste, con i suoi abili tentativi maccheronici di parlare inglese, e ottenne per questo grande successo – ci vuole così poco in questo mondo di bordo a crearsi una popolarità. C’erano poi un muratore scozzese, chiamato «Irish stew [1] » come il suo piatto preferito, altri tre o quattro scozzesi non meglio identificati, un bel giovanotto irlandese, O’Reilly e un paio di giovani che meritano una parola speciale di biasimo. Uno di loro era scozzese, l’altro diceva di essere americano; ammise, dopo una certa resistenza, di essere nato in Inghilterra. Alla fine risultò essere un irlandese nato e cresciuto in Irlanda, ma che si vergognava del proprio paese. Aveva una sorella a bordo, che trascurò completamente per tutta la durata del viaggio, nonostante fosse, oltre che malata, molto più vecchia di lui, e lo avesse allevato e accudito quando era bambino. All’apparenza sembrava proprio un Enrico III di Francia un po’ sciocco. Lo scozzese, probabilmente un asino da competizione, non era così duro di cuore; ne parlo insieme solo perché erano grandi amici, ed entrambi facevano delle grandi figuracce per il loro comportamento a tavola.
Inoltre, passando a un argomento più piacevole, c’era una coppia di novelli sposi molto innamorata, con la bella storia di come si erano conosciuti alla scuola elementare di come quel giorno lui le aveva portato a casa i libri. Non so se questo significhi qualcosa per i lettori del Sud, ma a me ricorda molti idilli scolastici, e ragazzini di campagna furibondi di otto o nove anni che, ardenti di gelosia, si fronteggiano a gambe divaricate in posizione di sfida. Perché portare a casa i libri di una signorina era sia un privilegio che una delicata attenzione.
Poi c’era una vecchia signora, o quasi, non sono sicuro che fosse così vecchia ma sicuramente antiquata e stranamente fuori posto, che aveva lasciato il marito e viaggiava tutta sola verso il Kansas. Dovemmo crederle sulla parola che era sposata, in quanto il suo aspetto lo smentiva. La natura sembrava averla consacrata allo stato nubile; persino il colore dei capelli era incompatibile col matrimonio, e in quanto al marito, pensai, doveva avere lo spirito di un santo e la presenza fisica di un fantasma. Era malata, poveretta. Il suo animo scostava anche solo l’idea del cibo, la tovaglia sporca la sconvolgeva per la sua indecenza; e tutti i suoi sforzi erano concentrati nel mantenere l’orologio fedele all’ora di Glasgow finché non fosse arrivata a New York. Avevano sentito dei racconti, lei e suo marito, riguardo a una poco probabile differenza di ora tra le due città e, con lodevole spirito scientifico, coglieva adesso l’occasione per metterli alla prova. Era una buona cosa per la vecchia signora, che così passava gran parte del suo tempo a studiare l’orologio. Una volta, vinta dal mal di mare, lasciò che si fermasse. Nella sua mente innocente era scritto a caratteri cubitali che mai le lancette dell’orologio dovevano essere girate all’indietro; così, fu doveroso per lei aspettare il momento esatto in cui avrebbe potuto ricaricarlo. Quando pensò che il momento fosse arrivato, andò in cerca di un giovane scozzese, il quale, impegnato nello stesso esperimento, era stato però meno negligente di lei. L’ora che lei aspettava erano le due in punto; e quando sentì che sulle rive del Clyde erano già le sette, sollevò un grido: «Accipicchia!». Non sentivo questa espressione innocente da quando ero bambino e doveva essere lo stesso per gli altri scozzesi presenti, perché scoppiammo tutti a ridere.
Ultimo, ma non meno importante, arrivo infine al mio grande amico, Mr. Jones. È difficile dire se, nel corso del viaggio, ero io il suo braccio destro o lui il mio. A tavola, per esempio, io tagliavo la carne, e lui versava solo la salsa; mentre ai nostri concerti, di cui parlerò tra poco, lui era il direttore che sceglieva chi avrebbe cantato, ed io non ero altro che il suo esecutore, andavo in cerca di persone e in privato supplicavo chi era troppo timido per esibirsi. Mr. Jones mi piacque dal primo momento in cui lo vidi. Dalla faccia mi sembrava scozzese e anche il suo accento mi aveva ingannato. Perché, come esiste una lingua franca, fatta di molte lingue, nei moli e nelle feluche del Mediterraneo, c’è come un dialetto libero e comune tra gli anglofoni che vanno per mare. Da un porto del New England arriva un certo suono nasale; da un timoniere cockney [2] , persino uno scozzese imparerebbe a mangiarsi le H; una parola in dialetto può arrivare invece dai marinai; e il risultato spesso è indecifrabile, tanto che ci si trova costretti a chiedere a ognuno il luogo di nascita. E questo è quello che accadde con Mr. Jones. Io pensavo che fosse uno scozzese che aveva trascorso molto tempo in mare, e invece era del Galles e aveva passato gran parte della sua vita a fare il fabbro in una fucina dell’entroterra. Qualche anno in America e una decina di viaggi attraverso l’oceano erano stati sufficienti a cambiare il suo modo di parlare nell’esempio corrente. Diceva di essere forte e abile nel suo mestiere. Pochi anni prima era stato sposato e, in qualche modo, ricco; adesso, la moglie era morta e il denaro finito. Ma la sua era una di quelle nature che guardano avanti e superano imperterrite anno dopo anno le situazioni difficili della vita; e se il mondo cadesse domani, sono sicuro che vedrei Jones arrampicato su una scala a cercare di rimettere le cose a posto. Si librava sempre tra le invenzioni come un’ape sui fiori e viveva in un sogno di brevetti. Aveva con sé un farmaco brevettato, per esempio, la cui composizione aveva comprato qualche anno prima per cinque dollari da un ambulante americano, e rivenduto il giorno seguente per cento sterline (credo) a un farmacista inglese. Si chiamava Golden Oil, e curava tutte le malattie, senza eccezioni; e devo dire che io stesso ne ho fatto uso, con buoni risultati. Era una caratteristica propria di quell’uomo il fatto che non solo si cospargeva continuamente con il suo Golden Oil, ma ovunque ci fosse un mal di testa o un taglio a un dito, ecco che arrivava Jones con il suo flaconcino.
Se aveva un talento più sviluppato degli altri, era certamente quello di intuire il carattere delle persone. Abbiamo trascorso molte ore, noi due, a passeggiare sul ponte sezionando i nostri vicini con uno spirito che, se non fosse stato puramente scientifico, avrebbe potuto risultare scortese. Ogni volta che in una conversazione saltava fuori un tratto umano strano, avresti potuto vedere me e Jones scambiarci delle occhiate; e quasi non riuscivamo ad andare a dormire tranquilli se non ci eravamo scambiati le nostre opinioni e discusso l’esperienza giornaliera. Eravamo proprio come una coppia di pescatori che si mostrano l’un l’altro il pescato del giorno. Ma i nostri erano pesci di una specie metafisica, e spesso l’uno pescava nel cestino dell’altro. Una volta, nel bel mezzo di una discussione seria, entrambi ci sentimmo addosso lo sguardo indagatore dell’altro; ammetto di essermi interrotto, imbarazzato da questa doppia investigazione. Ma Jones, che era più gentile ed educato di me, scoppiò in una risata spontanea e disse, ed era vero, che noi due facevamo davvero una bella coppia.




[1] L’ Irish stew è uno stufato di carne di agnello con patate, tipico della cucina irlandese, preparato durante le festività, in particolare durante la festa di San Patrizio. Tutte le note al testo sono del curatore del presente volume, non di Stevenson.
[2] Cockney è un termine inglese che può essere riferito sia alla classe proletaria di Londra, in particolare della zona Est, sia al dialetto parlato da quelle persone e per estensione al dialetto di Londra.

Prime impressioni

Lasciammo il Clyde il giovedì sera e il venerdì, nel primo pomeriggio, prendemmo a bordo l’ultimo gruppo di emigranti a Lough Foyle, in Irlanda, e dicemmo addio all’Europa. La compagnia era ora al completo e, come per un imperscrutabile magnetismo, iniziò a riunirsi tutta sul ponte. C’erano molti scozzesi e irlandesi, alcuni inglesi, qualche americano, una bella manciata di scandinavi, un tedesco o due, e un russo; tutti quanti appartenenti per dieci giorni a un piccolo continente di ferro in mezzo al mare.
Mentre camminavo sul ponte e guardavo i miei compagni di viaggio, un gruppo così stranamente assortito che proveniva da tutta Europa, iniziai per la prima volta a comprendere la natura dell’emigrazione. Giorno dopo giorno, per tutto il viaggio e poi attraversando gli Stati Uniti e sulle rive del Pacifico, questa percezione si fece sempre più chiara e triste. La parola emigrazione, col suo gioioso significato, cominciò a risuonare alle mie orecchie in un modo davvero orribile. Non c’è niente di più bello da immaginare e di più patetico da vedere. L’idea astratta, così come l’avevo concepita a casa, è ricca di speranza e di spirito d’avventura. Ti immagini un giovane uomo che, rifiutando ogni tipo di costrizione e aiuto, affronta la vita, quella grande battaglia, per combatterla solo con le sue mani. Le storie più belle di ambizioni, di difficoltà superate e di successi raggiunti non sono che episodi in questa grande epica dell’autosufficienza. L’epica è composta da eroismi individuali, ai quali essa sta nello stesso rapporto in cui la guerra vittoriosa che ha assoggettato un impero sta al singolo atto di coraggio, ricompensato adeguatamente con una medaglia, a colui che è riuscito a inchiodare un cannone. Perché nell’emigrazione da ogni carico di nave escono giovani uomini che entrano direttamente in possesso del bagaglio del loro lavoro; continenti vuoti brulicano, come al fischio del nostromo, di mani industriose, e interi nuovi imperi vengono addomesticati al servizio dell’uomo.
Questa è l’idea che noi abbiamo dentro di noi e che risulta, in fin dei conti, essere una visione sentimentale del viaggio. Più guardavo i miei compagni, meno riuscivo a vedere il lirismo di questa esperienza. Tra gli uomini, erano pochi quelli sotto...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Emigrante per diletto
  3. Indice
  4. Prefazione
  5. Cronologia
  6. Emigrante per diletto