Viviamo nell’epoca dell’egemonia culturale della rappresentazione, ottenuta e coadiuvata da un profluvio ininterrotto di immagini che s’impongono sulla realtà, dominando incontrastate e contribuendo in maniera spesso incontrollata alla costruzione dell’immaginario attraverso il quale comprendiamo e interpretiamo il mondo. Tale “cultura della rappresentazione” si mostra anche nella deriva cognitiva e semantica prodotta dall’infinità di immagini della popular culture che sono venute, progressivamente ma in misura esponenziale, ad affollare il nostro immaginario collettivo intorno alla Shoah (non solo film, ma anche romanzi e prodotti editoriali, graphicnovel , trasmissioni televisive, creazioni web, proposte dell’industria turistica), trasformando la più grande catastrofe umanitaria del XX secolo in un fenomeno sensibile anche a degenerazioni pop che colpiscono soprattutto la fantasia dei più giovani.
Decostruzione critica nella didattica della Shoah
Di qui la necessità da me avvertita (e condivisa con Claudio Vercelli) di elaborare il sintagma “ Pop Shoah”, seguito da un punto interrogativo a indicare lo spazio di riflessione aperto a un dubbio costruttivo, per designare questo fenomeno contemporaneo. In questo orizzonte tematico suona di straordinaria attualità l’allarme gnoseologico lanciato da Primo Levi sin dal 1986, quando ne I sommersi e i salvati, a conclusione della sua metariflessione intorno alle modalità di rappresentazione della Shoah, ne denunciava l’inclinazione sempre più orientata “verso la semplificazione e lo stereotipo” e meno autenticamente votata alla conoscenza approfondita dei fatti storici.
Nell’attuale didattica della Shoah, non può essere trascurato l’obiettivo che mira a individuare nella narrazione contemporanea relativa all’“universo concentrazionario” nazista, contraddizioni e abusi che nel presente storico, a distanza di più di settant’anni da quei tragici accadimenti che hanno segnato irreversibilmente la storia europea e mondiale, minano una corretta ed equilibrata percezione e cognizione dei dati storici fattuali. Infatti, la supremazia della “cultura della rappresentazione” implica il rischio di banalizzazione, mercificazione, uso consumistico delle vicende che ne sono oggetto, a causa della inusitata capacità che hanno i mezzi di comunicazione di massa e gli strumenti dello “spettacolo generalizzato” di fagocitare, digerire e metabolizzare tutto, compreso quel tragico lascito che il Novecento, “secolo breve” ma orrendamente distruttivo, ha lasciato in eredità a noi in termini di immaginario del genocidio, dello sterminio, dell’annichilimento dell’umanità.
Quel “pathos della distanza” che ogni giorno ci allontana un po’ di più dal tempo degli orrori e ci consegna alla cosiddetta “era della postmemoria” (David Bidussa), intesa come epoca dell’imminente scomparsa degli ultimi testimoni diretti degli stermini nazisti, necessita di un’“etica delle immagini”, ovvero di un apprendimento mirato ad approfondire il senso e lo spessore valoriale di quanto, nell’odierna “cultura della rappresentazione”, viene elaborato, quando non persino manipolato, dei reali accadimenti storici.
Qui occorre puntare lo sguardo non solo su quanto prodotto sotto forma di racconto per immagini e rappresentazioni della Shoah attraverso gli infiniti mezzi narrativi disponibili (dal cinema alla scrittura, dalla fotografia all’arte, e così via), ma anche porsi con rigore la questione della istituzionalizzazione della Giornata della Memoria (GdM, sintetizza causticamente Elena Loewenthal) – e, a distanza di 17 anni da essa, la stanchezza che deriva dall’esser divenuta una pratica troppo spesso meramente cerimoniale –, nonché interrogarsi sul rituale scolastico dei“viaggi della Memoria” sui luoghi della catastrofe.
Tutti elementi che hanno prepotentemente contribuito ad accelerare quelle dinamiche che favoriscono la costruzione dell’immaginario collettivo memoriale e che, proprio per questo, meritano di essere scandagliate, implicando, al contempo, la necessità che soprattutto gli insegnanti siano messi nelle condizioni di acquisire gli strumenti capaci di operare una decostruzione critica del medesimo immaginario a scopo didattico. L’atto del decostruire qui va inteso soprattutto come acquisizione di quell’apparato culturale che consenta di distinguere spettacolarizzazione da riflessione critica, in un tempo in cui la prima sta dilagando rispetto all’urgenza e necessità di una conoscenza consapevole della storia contemporanea e di una rielaborazione della memoria collettiva intorno ai genocidi novecenteschi e, in particolare, allo sterminio degli ebrei d’Europa come ferita insanabile alla sua identità.
Fotogrammi del documentario Austerlitz di Sergei Loznitsa (2016)
La sovraesposizione rappresentativa del genocidio ebraico
Posto che l’immaginario collettivo è stato potentemente colonizzato dalla iper-rappresentazione della Shoah avvenuta nell’ultimo ventennio (a far data l’uscita, nel 1993, di Schindler’s List il film prototipico di Steven Spielberg), la principale preoccupazione gnoseologica e didattica di chi ha il compito docente della trasmissione di contenuti e forme di conoscenza non può che essere rivolta a una genuina comprensione storica, a un approfondimento documentario, a una elaborazione concettuale conseguente che riesca a lasciare tracce profonde nella costruzione della coscienza morale, sociale e politica dei giovani.
La storia dei totalitarismi e dei loro nefasti effetti, anche in virtù della predominanza egemonizzante della cultura visuale rispetto alle tante possibili articolazioni dell’immaginario, ha visto la supremazia di un modello assimilazionista unico di rappresentazione che, oscurando per esempio i campi di lavoro sovietici dietro l’immagine imponente di quelli di concentramento nazisti, offuscando così la conoscenza dei gulag rispetto a quella dei lager, ha influenzato profondamente la capacità di tenere distinti anche altri elementi che connotano come entità ben differenziate i due totalitarismi del Novecento, con i loro rispettivi apparati sistemici di controllo e annientamento del “nemico”, provocando in tal modo effetti di analfabetismo storico, confusione, omogeneizzazione, banalizzazione.
Tutto ciò è il prodotto di una deriva cognitiva che negli ultimi decenni ha condotto dall’“irrappresentabilità” e dall’interdizione dell’immagine implicata dallo sterminio ebraico (“inimmaginabile”, “indicibile”, “impensabile”), rilevata da Jean-Luc Nancy, al suo opposto, cioè a una ipervisibilità, una sovraesposizione che rende le immagini olocaustiche – e l’immaginario derivato – così totalizzanti da escludere ogni altra possibilità di rappresentazione. Una condizione che ha ormai travalicato l’uso strumentale e didascalico che possono assumere le forme rappresentative, divenendo un fine in sé, un significante sganciato dal suo significato originario, il guscio vuoto dell’immagine dell’estrema disumanizzazione che però, privata del suo contenuto morale, viene depotenziata e resa superflua rispetto alla sostanza e ai fini etici e sociali che l’insegnamento della storia in generale, e di questa in particolare, dovrebbe veicolare. La conoscenza consapevole e riflessiva di questo segmento ineludibile della storia europea e umana ha un significato accessorio, ma fondamentale e imprescindibile, rispe...