A smentire l’erronea opinione, già molto diffusa, secondo la quale l’olandese Ugo Grozio, per la sua opera De jure belli ac pacis (1625), sarebbe stato il fondatore del diritto internazionale, basterebbe ricordare uno dei suoi immediati predecessori, l’italiano Alberico Gentili, che nel suo trattato De jure belli (1588-1589) svolse la stessa materia con criteri giuridici ancor più precisi di quelli del Grozio [1] . È bensì vero che il Grozio tentò di dare alla sua opera una base filosofica, per altro senza molta originalità, richiamando concetti aristotelici e formule ciceroniane; mentre per la parte più attinente al diritto si valse degli scritti del Gentili e di altri.
Merita di esser notato che fino dal 1360 Giovanni da Legnano, professore a Bologna, aveva scritto una monografia sulla guerra ( De bello); e dissertazioni sullo stesso argomento scrissero in seguito, ma sempre prima del Grozio, parecchi altri autori, come ad es. lo spagnuolo Francisco Arias de Valderas ( Libellus de belli justitia injustitia ve, 1533), Pietro Belli da Alba (De re militari et bello, 1563), Balthazar Ayala, nato in Anversa da padre spagnuolo ( De jure et officiis bellicis et disciplina militari, 1582), ed altri ancor più importanti, come il De Vitoria e il Suarez, dei quali faremo parola tra poco.
Ma, per l’esatta impostazione dell’argomento, conviene risalire molto più addietro. Già S. Agostino, pur non avendo dedicato a questa materia un trattato apposito, aveva enunciato in varie sue opere alcuni importanti concetti intorno al problema della liceità della guerra; e tali concetti, accolti dalla dottrina canonica (come appare specialmente dal Decretum di Graziano) [2] , servirono di base alla trattazione di S. Tommaso [3] . Tre, secondo l’Aquinate, sono le condizioni necessarie perché una guerra sia giusta: anzitutto, la guerra deve essere ordinata dall’autorità pubblica, alla quale spetta difendere lo Stato dai nemici esterni, ciò che non è lecito alle persone private; secondariamente, si richiede una giusta causa, ossia che coloro, contro i quali si lotta, abbiano commessa una colpa, per la quale meritino di essere combattuti; in terzo luogo, si richiede che i belligeranti abbiano una retta intenzione, cioè si propongano di promuovere il bene o di evitare un male. In tal caso, spiega S. Tommaso, il fine della guerra è in verità la pace, e precisamente una buona pace [4] .
L’Aquinate discute poi varie questioni particolari (ad es., quali insidie siano lecite e quali illecite nella guerra), su di che non è necessario ora soffermarci [5] .
I criteri relativi alla guerra giusta, formulati così precisamente da S. Tommaso, ebbero riscontro in analoghe trattazioni di numerosi altri autori, parecchi dei quali trassero elementi anche dalle fonti romane. Varie opinioni furono espresse, oltre che in speciali monografie sul diritto di guerra (come quelle testè mentovate), in opere di carattere generale di civilisti e di canonisti anche insigni (per es. Enrico da Susa detto anche l’Ostiense, Alberico da Rosate, Bartolo da Sassoferrato, Baldo da Perugia, Paolo di Castro, ecc.), nelle quali però l’argomento fu toccato di solito brevemente e quasi per incidenza. Specialmente si discusse sul requisito della auctoritas principis, cioè se la facoltà di dichiarare legittimamente la guerra spettasse solo all’imperatore o a coloro cui egli avesse conferito tale potere, oppure in genere ai principi e alle repubbliche, di diritto o di fatto indipendenti dall’autorità imperiale. È evidente che quest’ultima opinione doveva tanto più prevalere, quanto più, nella realtà, quella supposta autorità mondiale veniva estinguendosi, di fronte al sorgere di Stati effettivamente sovrani ( superiorem non recognoscentes) . Anche i requisiti della justa causa e della recta intentio furono esaminati e discussi, in senso generalmente conforme alla dottrina tomistica. Così, per es., Giovanni da Legnano affermò che la guerra, per essere giusta, deve tendere al bene e servire a sradicare i delitti; e Baldo sostenne che il ricorso alle armi deve essere giustificato dalla necessità, e che il motivo di esso non deve essere la vendetta. Osservazioni e distinzioni intorno a questi concetti furono fatte da parecchi scrittori [6] .
Spetta al grande domenicano spagnuolo Francisco De Vitoria (1483-1546), autore delle Relectiones theologicae ( De Indis recenter inventis; De Indis, sive de jure belli Hispanorum in barbaros; pronunciate nel 1539, pubblicate postume con altre nel 1557), il merito di avere ampiamente trattato con logica coerenza e con profondo senso di umanità non solo il problema della legittimità della guerra, ma l’intiero problema del diritto internazionale, enunciando e svolgendo concetti della più alta importanza.
L’occasione per la sua trattazione fu data dalle guerre che i conquistatori spagnuoli conducevano contro gli indigeni del continente americano, allora scoperto, Ma già prima di esaminare le gravi questioni derivanti da tale conquista, il De Vitoria aveva indagato (specialmente nella Relectio « De potestate civili») i fondamenti ed i fini dello Stato, ritrovandoli nel diritto naturale e divino, e segnando quindi i limiti della potestà pubblica e della obbligatorietà delle leggi umane. Nella Relectio « De Indis recenter inventis» egli estende l’indagine ai rapporti tra i vari Stati. Con una chiarezza forse mai raggiunta prima di allora, egli afferma che questi rapporti debbono essere regolati dal diritto. Riferendosi alla famosa definizione di Gaio dello jus gentium ( quod naturalis ratio inter omnes homines constituit), egli vi introduce una modificazione apparentemente piccola, ma in realtà di grande momento, sostituendo alla parola homines la parola gentes [7] .
Che il De Vitoria fosse pienamente consapevole dell’importanza di questa sostituzione, risulta, oltreché dal contesto del discorso (ove egli usa anche la parola nationes), da tutta la sua dottrina, ove egli sostiene esplicitamente che esiste un vero e proprio vincolo giuridico tra tutti gli Stati. Non a torto fu osservato che con ciò egli anticipa precisamente quello che suol chiamarsi il concetto moderno del diritto internazionale [8] ; e può anzi dirsi che, sotto certi aspetti, la sua dottrina e quelle analoghe di alcuni altri pensatori di quell’epoca vanno oltre la fase attuale delle relazioni interstatuali, e segnano la via per possibili futuri progressi.
Fondamentale è anzitutto questo concetto, che si legge nella Relectio «De potestate civili» ed è poi svolto in quelle « De Indis» e « De jure belli»: Il diritto delle genti non ha vigore soltanto per un patto o una convenzione tra uomini, ma ha anche valore di legge; poiché tutto il mondo è in certo modo una sola repubblica, ed ha la potestà di stabilire leggi eque e convenienti per tutti. Né è lecito ad un singolo Stato non volere esser tenuto a osservare il diritto delle genti, poiché questo emana dall’autorità di tutto il mondo [9] . Segue da ciò che gli Stati non sono assolutamente indipendenti, ma piuttosto interdipendenti, perché soggetti del pari alla legge che vale obbligatoriamente per tutti [10] . Vi ha, afferma ancora il De Vitoria, fra tutti i popoli una naturalis societae et communicatio [11] ; onde nessuno di essi può proibire l’ingresso e il soggiorno nel proprio territorio ad altri che siano innocui; una legge che proibisse ciò sarebbe inumana ed irrazionale, e non avrebbe quindi forza di legge [12] .
Per ben comprendere il valore della dottrina del De Vitoria, in confronto ad altre del tempo suo e anche dell’età successiva, occorre considerare specialmente questa sua tesi: tutti i popoli, anche se barbari e pagani, hanno governi legittimi, ossia sono veri Stati; e non è lecito a Stati cristiani privare gl’infedeli dei loro governi, né dei loro territori o dei loro beni, per ciò solo che sono infedeli, se non siano colpevoli di altra ingiuria [13] . In altre parole: la naturalis societas comprende tutti gli Stati, nonostante le differenze di religione. Né l’imperatore è sovrano di tutto il mondo (totius orbis dominus), né il Papa è sovrano civile o temporale di tutto il mondo: egli ha bensì una potestà temporale, ma solo in quanto è necessario per l’amministrazione delle cose spirituali [14] . Nessuna potestà egli ha dunque sugli infedeli; e perciò il fatto che questi rifiutino di riconoscere il suo dominio non è un motivo di giusta guerra per i cristiani [15] . Nemmeno può sostenersi (dichiara inoltre il De Vitoria) che gli Spagnuoli abbiano un titolo giuridico sui territori abitati dagli indigeni americani per il fatto della scoperta, perché il diritto di occupazione si applica solo alle res mullius; ma quei territori non erano deserti, e gl’indigeni ne erano veri domini [16] .
È quasi superfluo avvertire che queste opinioni del De Vitoria erano in grave contrasto con quelle predominanti al suo tempo, come appare dalla sua medesima trattazione, ove gli argomenti avversari sono ampiamente riferiti e discussi. Ancora maggiore era il contrasto colla pratica dei conquistadores del nuovo mondo. Ciò che importa di rilevare nell’opera del De Vitoria, più ancora del suo pur grande valore teoretico, è lo spirito di umanità e di carità dal quale è, in generale, animata.
Egli non esclude, per vero, interamente la guerra nei rapporti coi popoli barbari; ma la ammette solo dopo che si siano tentati invano tutti i mezzi per stabilire pacifiche relazioni con essi, cioè secondo il medesimo presupposto che varrebbe a render la guerra lecita anche contro cristiani [17] . Unico fine legittimo della guerra è, in generale, l’assicurazione della pace ( pax et securitas reipublicae), qualora sia stata ricevuta un’ingiuria ( injuria accepta): la quale però deve essere grave, poiché non è lecito scendere in guerra contro gli autori di ingiurie lie...