Il tema della reciprocità del maschile e del femminile non può oggi essere affrontato senza un confronto serio e onesto con una possibilità – spesso presentata come un fatto , più spesso come un diritto – da cui il valore di tale reciprocità viene fortemente messo in questione : è la possibilità dell’omogenitorialità. Infatti, sostenere o tacitamente accettare che due persone dello stesso sesso svolgano le funzioni di una coppia genitoriale equivale a smentire la relazione uomo-donna come tessuto proprio della genitorialità, ovvero a negarla nel luogo in cui questa relazione è sempre stata considerata essenziale.
Per lungo tempo, l’atteggiamento naturale e l’atteggiamento scientifico hanno considerato come un fatto ovvio la presenza di un uomo e di una donna all’interno di una famiglia come figure di riferimento decisive per la crescita sana e completa dei bambini di quel nucleo familiare. È stata soprattutto la “tradizione psicanalitica” a legare la costruzione dell’identità di un bambino e, in modo diverso, di una bambina alla scoperta del limite offerto, all’interno delle relazioni primarie, dall’alterità dell’altro diversamente sessuato. Come è noto, secondo questi studi di matrice freudiana, la conquista di sé da parte del bambino e della bambina, che nascono nello spazio dell’unione simbiotica con la madre coltivando un immediato sentimento di onnipotenza, passa attraverso una ferita narcisistica; essa è generata proprio dalla scoperta di non poter avere/essere tutto, innanzitutto perché ciascuno incarna uno dei due sessi e non l’altro. In questo percorso risulta decisiva la presenza del padre: terzo rispetto alla diade madre-bambino che, attestando dinanzi al figlio e/o alla figlia, il limite e la regola, porta l’uno e/o l’altra verso il mondo esterno.
Oggi tutto questo appare, come si diceva, messo in questione. In molti dibattiti scientifici (psicologici e sociologici soprattutto) e non scientifici del nostro tempo, e nelle sempre più numerose pubblicazioni sul tema, si afferma che la società è sempre più complessa; che la famiglia nucleare “tradizionale” è solo una delle strutture possibili e che ad essa si sono affiancate altre forme “familiari”, dove spesso regna più amore; che, nel novero di queste nuove forme familiari, non ci sarebbe alcun motivo di escludere la famiglia omogenitoriale. Farlo, d’altra parte, sarebbe un’ingiusta discriminazione, che perpetrerebbe i pregiudizi secolari della società “tradizionale” omofoba: nessun amore di coppia va discriminato e, d’altra parte, per un bambino, la cosa più importante è sentirsi amato, indipendentemente dall’identità o dall’orientamento sessuale dei genitori; infatti – e veniamo ad una delle espressioni più ricorrenti e apparentemente incontestabili – è l’amore che fa la famiglia [1] .
L’intento di queste pagine è quello di avviare una riflessione pedagogica, al confine con la riflessione di filosofia dell’educazione, su queste e simili argomentazioni, cercando di comprendere quali ne siano i presupposti, esaminando il lessico e la sintassi cui si fa ricorso. Nella mia analisi, proverò progressivamente a presentare possibili controargomenti o, meglio, a sollevare alcune “controdomande”. Mi concentrerò sul lessico e sulla sintassi dell’argomentare, proprio per far emergere che, rispetto a temi così controversi è facile cadere in fallacie semantiche di ambiguità, che conducono ad un uso vago o equivoco delle parole, o in fallacie sintattiche, ovvero in argomenti scorretti logicamente, come sono quelli che si fondano sull’autorità e sul potere degli argomentanti, ma anche quelli che gli scolastici chiamavano ad populum, cioè basati sulle emozioni dei più.
In sede di premessa, va subito chiarito che svolgere una riflessione propriamente pedagogica su un tema significa farlo da una posizione precisa: dal punto di vista dell’educazione e avendo come criterio ordinatore delle priorità (innanzitutto epistemologiche) la tutela dei soggetti più deboli, che in questo caso (come in molti altri), sono i bambini e le bambine. Quelli del nostro tempo e quelli che verranno. Ciò significa che la pur legittima tutela di altri soggetti deve essere, alla tutela dei bambini, sempre subordinata: deve venir dopo e non prima.
Inoltre, va tenuto presente che, nella prospettiva di chi scrive, la pedagogia è una scienza husserlianamente rigorosa che, a differenza di altre (come appunto la psicologia e la sociologia, che indubbiamente da più tempo si occupano del tema), non è una scienza dei dati di fatto [2] , ovvero non è un sapere empiriologico: la pedagogia non ha il suo criterio ultimo nella verificabilità empirica; né il suo compito specifico è quello di descrivere e spiegare i dei fatti. Semmai, nella riflessione pedagogica, e segnatamente nella pedagogia fondamentale di stile fenomenologico-ermeneutico [3] , sulla spiegazione dei fatti condotta con l’ausilio di altre scienze, si innesta la ricerca di una progressiva comprensione di essi, quindi un’indagine sul senso che tali fatti, nella prospettiva dell’educare, hanno e possono avere per la piena realizzazione e fioritura della persona della persona umana, ovvero per il suo bene.
Si può anche dire che una tale indagine risponde all’esigenza di un’esplicitazione dell’ essenziale, che rimane per lo più implicito e non pensato nelle altre scienze: un’esigenza che, proprio di fronte alle contemporanee trasformazioni della famiglia e del suo vocabolario essenziale, è oggi particolarmente sentita. Come si esprime l’etnologa A. Cadoret all’inizio del suo libro Genitori come gli altri. Omosessualità e genitorialità, “ci troviamo oggi di fronte a un moltiplicarsi di forme familiari che spinge ciascuno di noi a interrogarsi sul fondamento implicito della nostra concezione della famiglia” [4] . La pedagogia fondamentale offre strumenti per attraversare tale necessario interrogarsi, ponendo le questioni in modo radicale.
L’obiettivo di queste pagine, quindi, è quello di cominciare a mettere ordine tra i concetti e problemi che sono spesso mescolati l’uno con l’altro per ricercare e provare a mettere in evidenza il problema fondamentale da cui prendere le mosse per pervenire alla comprensione di tutti gli altri problemi [5] . Ciò significa innanzitutto lavorare sulle parole e sul loro riempimento, indagando sul modo in cui l’esperienza viene portata al linguaggio [6] , acquistando senso per l’esistenza personale. D’altra parte, sono proprio gli studi che nel Novecento hanno messo in primo piano la lotta alle discriminazioni su base sessuale, ovvero gli studi delle donne, a ricordarci che parlare non è mai neutro [7] .