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La cristologia idealista

Massimo Borghesi

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La cristologia idealista

Massimo Borghesi

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Oggetto costante della riflessione di Hegel, dagli scritti "teologici"giovanili sino alle tarde lezioni sulla filosofia della religione, l'interpretazione della figura di Cristo accompagna l'evoluzionedel suo pensiero. Il risultato è una lettura filosofica della fede cheal Gesù "storico" dei Vangeli contrappone il Cristo "dogmatico", l'Uomo-Dio nel quale viene a coscienza l'unità di finito e infinitodestinata a cambiare la storia. Un riconoscimento del cristianesimo, come religione della libertà, che implica, però, il passaggiodalla passione del Golgota al "venerdì santo speculativo". Nellacroce muore il Figlio, Gesù di Nazareth, e, insieme, il Padre, ilDio trascendente degli ebrei. Dalla doppia negazione sorge il"nuovo" Assoluto, lo Spirito del mondo la cui attuazione coincidecon la secolarizzazione moderna. Il volume costituisce unaintroduzione alla cristologia hegeliana e alle sue interpretazioni, dalla sinistra hegeliana alla teologia contemporanea, accompagnateda opportuni percorsi bibliografici.

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Information

Year
2018
ISBN
9788838246739

1. Il Cristo kantiano a Tubinga e a Berna

Nella sua formazione giovanile Hegel, studente di teologia presso l’Università di Tubinga, si interroga sulla persona e l’opera di Gesù, non tanto per l’insegnamento dei suoi maestri universitari, quanto piuttosto mediante l’influenza di quei pensatori che vengono segnando la cultura tedesca in direzione manifestamente illuminista: tra questi in particolare Lessing, Kant e il giovane Fichte, autore della Critica di ogni rivelazione del 1792.
Il cristianesimo, così com’è interpretato da questi autori, conserva la sua attualità, non già nel suo aspetto di Rivelazione storica, che come tale appare parziale e limitata, ma solo per la sua dottrina morale, che conserva un valore universale al di là delle circostanze contingenti in cui si è affermata. A partire da questa universalità propria della sua etica, il cristiano, come Lessing esemplifica in una sua opera teatrale molto amata dal giovane Hegel, Nathan il saggio, può alfine deporre ogni ostacolo, ecclesiastico o dogmatico che sia, che gli impedisce di dialogare o di riconoscersi con uomini di altre fedi religiose, siano essi musulmani od ebrei. Lo spirito di tolleranza presuppone il superamento del livello storico-dogmatico che, nella sua dura “positività”, risulta contrastare con l’autonomia della ragione e la libertà della legge morale. Questo livello può tutt’al più, così come Kant indica ne La religione nei limiti della semplice ragione e Lessing ne L’educazione del genere umano, conservare una sua funzione come un fattore propedeutico, come ponte di passaggio, cioè, dalla coscienza sensibile – che ha ancora bisogno di una conferma empirica per il suo agire – alla purezza della coscienza morale, che può fare a meno ormai di ogni mediazione esteriore. La valorizzazione in positivo della funzione storica che la Rivelazione può costituire non toglie il fatto che, rispetto alla dottrina morale, essa rappresenti l’inessenziale in rapporto all’essenziale, il contingente nei confronti del necessario. Riflessa nella figura di Gesù, tale distinzione diviene separazione in lui dell’aspetto religioso, quello per cui egli “appare” come Figlio di Dio, da quello etico, in cui risulta essere un maestro di morale del tutto degno, al pari di Socrate, di ammirazione e rispetto. La salvaguardia dell’insegnamento morale di Cristo, che è razionale proprio perché può essere assunto da ogni uomo indipendentemente dal suo iniziatore, ha pertanto come prezzo la sua dissociazione dalla rivelazione divina che, come tale, appare relativa alle circostanze storiche in cui si determinò, superata dal generale progresso della coscienza umana.
Se questi sono i risultati a cui l’ Aufklärung perviene nella concezione di Cristo occorre dire che Hegel, nelle sue riflessioni teologiche giovanili, risentì profondamente della loro influenza e, in misura essenziale, ne rimase poi costantemente segnato. Oltre alla presenza delle correnti di razionalismo religioso, v’è in lui anche un’ulteriore componente che accresce, per come viene avvertita, la sua diffidenza nei confronti del cristianesimo: il fascino dell’Ellade. L’atmosfera determinata dal neoclassicismo tedesco mediante la figure di Winckelmann, Herder, Goethe, dello Schiller de Gli Dei della Grecia, con la loro idealizzazione dell’antichità classica precristiana, è sensibile negli scritti hegeliani della giovinezza. Il continuo paragone che in lui ricorre tra la bellezza e l’armonia del mondo classico e lo spirito di decadenza che segnerebbe l’avvento del cristianesimo dipende non soltanto dalla lettura dell’opera del Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, ma si illumina, più profondamente, mediante lo spirito del tempo. È in questo clima, illuminista e neoclassico al contempo, che avviene l’incontro tra Hegel e la figura di Cristo.
La lettura che egli compie della figura di Gesù, già nel periodo in cui è studente presso lo Stift teologico di Tubinga e poi nel successivo periodo di permanenza a Berna, non esce infatti dai canoni lessinghiani e kantiani sopra indicati. È il Kant della seconda Critica, con la sua concezione di Cristo come mero maestro di virtù, privo di ogni connotazione divina e trascendente, che lo persuade. Anche per il giovane “teologo” di Tubinga il Cristo storico non coincide con l’immagine che ne ebbero gli apostoli e la comunità dei credenti. Cristo, secondo Hegel, non chiese fede nella sua persona, non si proclamò Dio, così come vuole la Scrittura. Furono i discepoli, formatisi all’interno dell’angusta mentalità ebraica, che lo immaginarono, corrispondentemente alle proprie attese, come il Messia e il Figlio di Dio. Diversamente, in terra greca, gli scolari di Socrate non ebbero mai verso il loro maestro un rapporto di questo tipo; essi rimasero per sé ciò che erano dapprima, né ebbero segni distintivi, né si separarono come quelli di Cristo dai legami della famiglia, della proprietà, ecc. A questi, come espressione di uomini liberi, va il plauso del giovane Hegel. Merito di Socrate infatti è di aver compreso come il bene è innato nell’uomo sì che esso non può essere imposto, né derivato da qualcosa di esteriore, ma solo risvegliato nella coscienza assopita. Questa intuizione appartiene in una certa misura anche a Gesù; anch’egli è maestro di virtù, ma certi suoi richiami, se concepiti secondo la “lettera” e non secondo lo “spirito” , possono risultare dannosi per la convivenza civile. Tra essi v’è la richiesta di donare tutto ai poveri, in contrasto con il diritto di proprietà; il dovere del perdono, in contrasto con il principio di legittima difesa, ecc. Cristo, consapevole di tale rischio, avrebbe, secondo Hegel, rivolto essenzialmente il proprio messaggio ai singoli, dedicandosi unicamente alla formazione individuale e trascurando deliberatamente la società nel suo insieme. La religione cristiana è all’origine eminentemente privata. Furono essenzialmente i discepoli a mutare il senso dell’insegnamento del maestro, facendo del Cristianesimo una religione pubblica con tutte le conseguenze negative, in primis l’intolleranza, che questo fatto storicamente avrebbe comportato. Il Cristo storico, identificato nel maestro di dottrina morale, non coincide con il Cristo della fede. Allorché Hegel studia a Tubinga i suoi studi di teologia riflettono la dissociazione tra fede e storia introdotta da Reimarus con la sua opera Frammenti di uno sconosciuto, editi tra il 1774 e il 1788 da Lessing . La critica del testo evangelico diviene la premessa, non più problematizzata, di una concezione razionalistica della religione. Una concezione che sottende una visione titanica, prometeica, dell’uomo che, dallo Sturm und Drang allo Übermench di Nietzsche, costituisce il filo rosso della cultura tedesca tra la fine del ’700 e l’800. Per essa la religione, il “bisogno” di Dio, affonda le sue radici nella debolezza dell’uomo, in uno stato di “minorità” che l’illuminismo, come elevazione all’età adulta, non è più disposto a tollerare. L’ autonomia della ragion pratica viene contrapposta, kantianamente, all’ eteronomia del credente, dell’uomo non libero che dipende da un signore estraneo.

La fede in Cristo è una fede in un ideale personificato. Perché, per rafforzarci nella lotta per la virtù, per sentire in noi la scintilla divina, la nostra forza di divenire padroni del mondo sensibile, non ci bastano esempi di uomini? Perché non riconosciamo in uomini virtuosi che essi sono non solo carne della nostra carne, sangue del nostro sangue, ma sentono anche la simpatia morale, e sono spirito del nostro spirito e forza della nostra forza? Ahimé! Ci hanno convinto che queste facoltà sono a noi estranee, che l’uomo rientra solo nella serie degli esseri naturali, e dei più corrotti; l’idea della santità è stata del tutto isolata ed attribuita ad un essere remoto, e si è ritenuto che essa non possa associarsi alla limitazione dipendente da una natura sensibile; e se ad essa potesse attribuirsi una perfezione morale, non formerebbe una parte della nostra propria essenza, ma il suo operare in noi sarebbe possibile solo ad opera dell’unione di quella essenza di tutte le essenze con noi ad opera della sua presenza innata in noi («unio mystica»). Questa umiliazione della natura umana non ci permette dunque di riconoscerci in uomini virtuosi. Per tale ideale, che per noi sarebbe l’immagine della virtù, vi è stato bisogno di un Uomo-Dio. Ciò tuttavia va bene, se il vero divino in lui lo troviamo non nel fatto che egli è la seconda persona della divinità, che è generato dal padre ab aeterno, ecc., ma nel fatto che il suo spirito, la sua disposizione d’animo, concorda con la legge morale, la cui idea alla fine dobbiamo invero trarre da noi stessi [1] .

Questa perfetta coincidenza tra lo spirito di Gesù e quello dei suoi discepoli, fuori da ogni immagine soprannaturale, corrisponderebbe, secondo Hegel, alle reali intenzioni di Cristo. La Vita di Gesù, scritta durante il suo soggiorno a Berna nel 1795, è tutta protesa a verificare la realtà di questa corrispondenza. La narrazione evangelica è qui arditamente ripercorsa attenendosi rigidamente al criterio esposto e verificato da Kant nella Religion per cui l’operazione «di cercare nella Scrittura un senso che si armonizzi con ciò che di più santo insegna la ragione non solo è lecita, ma dev’essere anche considerata un dovere» [2] . Alla luce della descrizione di Gesù come semplice maestro di virtù, anch’essa prefigurata nella Religion, Hegel interpreta Cristo come annunciatore dell’eterna legge morale, del primato della ragion pratica sulla sfera sensibile, della totale autonomia della coscienza di fronte al mondo e al divino. Il Gesù hegeliano non chiede infatti fede in se stesso, ma solo rispetto della santa legge della ragione. È per esso che i discepoli possono essere uniti con lui in profonda sintonia spirituale, una unità tale, come Cristo affermerebbe nell’ultima cena, che «le nostre persone sono bensì diverse e separate, ma la nostra essenza è unica e noi non siamo lontani gli uni dagli altri» [3] . In questa consapevolezza egli cessa di essere maestro per coloro che lo hanno sino ad allora seguito, per divenire semplice amico, in tutto e per tutto uguale a loro. Viceversa, per la maggioranza degli ebrei, radicati in una concezione eteronoma della volontà, la sua idea del divino come coincidente con la ragione morale risulta inaccettabile e questo segna la sua fine. La descrizione hegeliana della Vita di Gesù termina con la sua morte; della resurrezione significativamente qui non v’è cenno. Ancora Kant aveva infatti affermato che con la morte termina la storia pubblica di Cristo; l’altra, quella segreta, concernente la resurrezione e l’ascensione, «non può essere utilizzata da una religione nei limiti della semplice ragione» [4] .
Se questa è l’immagine di Gesù quale possiamo desumere da Hegel nel suo periodo tubinghese e svizzero, un’immagine più o meno socratica, rimane il problema di chiarire come Cristo sia stato poi deificato, come sia potuto divenire l’uomo-Dio. Le ragioni che vengono addotte sono sostanzialmente due, l’una da parte di Cristo, l’altra dei discepoli in quanto ebrei, che convergono nel significato.
La prima, che coinvolge la stessa persona di Cristo, è da Hegel indicata in un suo saggio non completato, titolato dal Nohl Positività della religione cristiana, composto nel suo nucleo tra il 1795 e il 1796. Qui la genesi della “positività” del cristianesimo, del suo trapassare da dottrina morale autonoma a fede in un “dato” ( positivo), non è attribuita soltanto ai discepoli, ma, in parte, a Gesù medesimo. Egli, di fronte alla totale risoluzione da parte degli ebrei della morale in fede ecclesiastica, non avrebbe avuto altro modo per rendersi credibile che richiamarsi al rapporto con Dio, alla propria dipendenza dal Padre. Giovanni, a cui in questa fase Hegel preferisce i “Sinottici” perché più fedeli all’immagine di Cristo maestro di virtù, insiste particolarmente su questo legame.

Perciò Gesù, oltre al raccomandare una religione basata sulla virtù, fu costretto anche a mettere sempre in gioco se stesso, il maestro di questa religione, a richiedere fede nella sua persona, della quale fede la sua religione razionale aveva bisogno solo per opporsi alla positività [5] .

A ciò egli fu anche indotto dall’attesa ebraica di un Messia per cui i suoi interlocutori avrebbero potuto accogliere un insegnamgento diverso da quello tradizionale solo da una figura che avesse un’autorità superiore. Su questo «Gesù non poteva direttamente contraddirli, poiché questa loro supposizione era l’unica condizione perché trovasse seguito presso di loro; tuttavia cercò di indirizzare verso un fine morale le loro aspettative messianiche» [6] . Nonostante tale intenzione, fu però inevitabile, secondo Hegel, che l’elemento positivo così introdotto – la fede in lui – risultasse di pari dignità se non più importante della stessa dottrina morale. «Così la ragion...

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