Un insegnante deve sapere davvero tante cose. L’insegnante di scuola primaria è chiamato, e non a caso, ad affrontare un percorso formativo abilitante quinquennale fino al conseguimento della laurea magistrale e chiunque eserciti già come docente sa che nemmeno questo è sufficiente, giacché giocare la partita sul campo rende evidenti regole non scritte altrettanto cogenti di quelle messe a norma.
Secondo norma vigente
L’ iter formativo del docente di scuola primaria è oggi regolamentato dal D.M. n. 249/2010 [1] . Gli artt. 2 e 3 indicano gli obiettivi della formazione iniziale degli insegnanti e le competenze alla cui acquisizione essa è preordinata.
La formazione iniziale «è finalizzata a qualificare e valorizzare la funzione docente attraverso l’acquisizione di competenze disciplinari, psico-pedagogiche, metodologico-didattiche, organizzative e relazionali necessarie a far raggiungere agli allievi i risultati di apprendimento previsti dall’ordinamento vigente» e prevede l’acquisizione da parte dei futuri docenti le competenze necessarie allo sviluppo e al sostegno dell’autonomia [2] , competenze queste che «costituiscono il fondamento dell’unitarietà della funzione docente».
Ma non ci si ferma qui; vengono considerate necessarie ai fini del raggiungimento degli obiettivi sopra indicati anche l’acquisizione delle competenze linguistiche di lingua inglese livello B; di competenze digitali (che vengono dettagliate), anche in prospettiva di accessibilità, di competenze didattiche atte a favorire l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità.
Nell’Allegato A al provvedimento si esplicita ulteriormente l’importanza per il laureato, e quindi abilitato all’insegnamento, di «aver acquisito solide conoscenze nei diversi ambiti disciplinari oggetto di insegnamento e la capacità di proporle nel modo più adeguato al livello scolastico, all’età e alla cultura di appartenenza degli allievi con cui entreranno in contatto. A questo scopo è necessario che le conoscenze acquisite dai futuri docenti nei diversi campi disciplinari siano fin dall’inizio del percorso strettamente connesse con le capacità di gestire la classe e di progettare il percorso educativo e didattico. Inoltre essi dovranno possedere conoscenze e capacità che li mettano in grado di aiutare l’integrazione scolastica di bambini con bisogni speciali».
Si dichiarano necessari il possesso di conoscenze disciplinari negli ambiti linguistico-letterari, matematici, di scienze fisiche e naturali, storici e geografici, artistici, musicali e motori nonché di capacità pedagogico-didattiche, relazionali e gestionali. Occorre che il docente abilitato sia in grado di articolare i contenuti disciplinari in rapporto al contesto di esercizio della professione identificando gli strumenti più adeguati e partecipando attivamente alla gestione della scuola, in prospettiva collegiale e aperta al territorio. Se si vogliano poi analizzare le conoscenze di dettaglio specificate, si noterebbe che esse vanno dall’elettrostatica alla neuropsichiatria infantile, dal diritto all’arte, dalla letteratura alla matematica applicata.
Un profilo coerente al suo interno, ma certamente molto ampio e articolato.
Pas sato (prossimo)
Tutti vorremo aver avuto un maestro o una maestra così colto e competente.
Eppure, dal momento che il 55% degli insegnanti di scuola primaria italiana supera i cinquant’anni di età [3] , molti degli insegnanti in servizio non hanno ricevuto questa istruzione terziaria, ma si sono limitati all’acquisizione del diploma magistrale.
Sono degli incompetenti?
È stato un azzardo permettere loro di insegnare?
Dipende. Dare una risposta assolutizzante sarebbe insensato.
Se le conoscenze sono fattore indispensabile per maturare competenze esperte [4] , come di fatto è, allora dovremmo dire che un maestro “vecchia maniera”, con alle spalle soltanto quattro, se non tre [5] anni di preparazione dedicata non avrebbe potuto essere un docente competente.
Gli è, però, che fin da quei primi anni il formando esercitava esperienze sul campo, e quello che, oggi, è il tirocinio obbligatorio per un congruo numero di Crediti Formativi Universitari previsto dal decreto succitato a partire dal secondo anno di studi accademici, esperito dunque dal ventiduesimo anno di vita, al tempo dell’Istituto Magistrale [6] era realizzato con regolarità a partire dal sedicesimo anno d’età. Anni nei quali la formae mentis si costituisce e, non a caso, anni di frequenza scolastica nei quali, dopo aver espunto per ragioni che sarebbe qui troppo lungo illustrare [7] la vita, e quindi anche il lavoro, dalla scuola, ora ci si ripropone di ricreare una circolarità tra mondo reale e mondo della scuola attraverso le esperienze di alternanza scuola lavoro [8] .
Inoltre i contenuti che si apprendevano, forse pochi, erano affrontati in modo chiaro, limpido, non di rado approfondito.
I programmi del 1955, prefigurando quelli che sarebbero stati i nuovi scenari dell’autonomia e della personalizzazione, seppure ante litteram e a tutt’oggi da realizzarsi in modo compiuto, dopo aver esordito sottolineando l’unicità e socialità di ogni bambino recitavano così in premessa: «[...] Il vecchio interrogativo se l’istituto magistrale debba essere scuola di cultura o corso professionale non trova la sua risposta in soluzioni unilaterali ed assolute [...]. L’umanità del maestro si approfondirà al contatto di una cultura letteraria e scientifica, primo presupposto dell’arte magistrale: ma troverà particolarmente nel gruppo filosofia, pedagogia, psicologia, integrato dalle esercitazioni didattiche e dal carattere di anno in anno più intensamente professionale degli altri insegnamenti, la possibilità di conquistare quella che dell’arte magistrale si può dire l’iniziazione tecnica. [...] Così l’unità del fine viene a tradursi in perfetta unità di azione» [9] . La premessa sottolinea la novità del proporre programmi sobri che prevedano, una volta chiarito bene lo scopo del percorso formativo, grande libertà di azione didattica e di scelta a partire da una prospettiva solo tracciata e così concludono: «Questa stessa libertà, che viene offerta ai docenti, sappiano essi concedere con prudente discrezione, ai loro alunni. E ascoltino le voci, ne secondino le spirazioni, consentano che essi propongano lo sviluppo di particolari attività, a trattazione di nuovi argomenti che siano in relazione ad esigenze reali e sentite. Da questa libertà, per così dire, ciclica, moto si può attendere la scuola» [10] .
Come noto, e come molti hanno sperimentato sulla propria pelle incontrando docenti tanto colti quanto incapaci di insegnare, sebbene questo normalmente accada in gradi superiori rispetto alla scuola primaria, possedere conoscenze non significa saperle offrire al discente in modo efficace. Le conoscenze possono rimanere inerti, sia nel maestro sia nell’alunno, ed è proprio quanto la didattica si impegna ad evitare.
Ma, allo stesso tempo, è necessario che le conoscenze si possiedano.
M. de Montaigne mette bene in evidenza quello che possiamo definire il dilemma della coscienza consapevole quando narra del filosofo Pirrone che, su di una nave in mezzo ad una tempesta, esorta i compagni di sventura a guardare il porco che viaggiava con loro il quale, ignaro, era senza timore. Meglio, quindi rinunciare alla coscienza la cui consapevolezza si alimenta con la conoscenza? D’altro canto egli esemplifica anche la condizione di un atleta o di un mulattiere nei quali si vede maggior fermezza di fronte al dolore o alla morte di quanta la scienza ne abbia mai fornito a chi non vi fosse preparato e disposto da sé [11] . «Plutarco dice che greco ed erudito erano parole di biasimo e di disprezzo tra i Romani. In seguito, con l’età, ho visto che avevano perfettamente ragione, e che magis magnos clericos non sunt magis magnos sapientes. Ma come possa accadere che un animo ricco della conoscenza di tante cose non ne divenga più vivo e sveglio, e che uno spirito grossolano possa albergare in sé, senza migliorarsi, i ragionamenti e i giudizi degli spiriti più eletti che il mondo abbia prodotto, ancora non so». L’autore prosegue nella sua riflessione evidenziando come vi sia una maniera sbagliata «di applicarsi alle scienze, e che, per il modo in cui siamo istruiti, non c’ è da meravigliarsi se né gli scolari né i maestri diventano più dotti. Invero, le cure e le spese dei nostri padri mirano soltanto ad imbottirci la testa di scienza; di discernimento o di virtù poco o nulla. [...] Bisognerebbe chiedere chi sappia meglio, non chi sappia di più. Lavoriamo solo a riempire la memoria, e lasciamo vuoti l’intelletto e la coscienza. Proprio come gli uccelli vanno di volta in volta in cerca del granello e lo portano nel becco senza assaggiarlo per imbeccare i loro piccoli, così i nostri pedantes vanno spigolando la scienza nei libri e la tengono appena a fior di labbra, tanto per ributtarla fuori e gettarla al vento. [...] Ma quel che è peggio, è che nemmeno i loro scolari e i loro ragazzi se ne nutrono e se ne alimentano; anzi, essa passa di mano in mano al solo fine di farne mostra, di conversarne con altri e di farne dei racconti; come una moneta senza valore, inutile ad ogni altro uso e impiego che a contare e a servir da gettone. Apud alios loqui didicerunt, non ipsi secum. Non est loquendum, sed gubernandum» [12] .
Ancora M. de Montaigne è illuminante anche con la celeberrima espressione poi ripresa da E. Morin e foriera di tutta una serie di riflessioni, anche di carattere politico all’epoca del famoso cacciavite di Fioroni [13] , con la quale sostiene che sia da preferirsi una testa ben fatta che ben piena [14] . La cosa interessante, e spesso trascurata nella rievocazione dell’espressione, è che in realtà l’autore la riferiva non tanto al discente, quanto proprio al precettore, da scegliersi esattamente secondo questo criterio. Certo la scienza, ma più possono i costumi e l’intelligenza.
Non ci paia scontata questa cinquecentesca considerazione, visto che, limitando l’osservazione al regno di Sardegna che tanta parte ha avuto nello stabilire liaison con quello che sarebbe stato lo Stato unitario italiano del 1861, l’abilitazione all’insegnamento dei maestri avveniva attraverso l’acquisizione di una patente ottenuta previso superamento di un esame atto a «dar saggio della loro capacità nell’insegnare, giusta il prescritto metodo» [15] , che si riduceva de facto alla conoscenza dei contenuti che si sarebbero insegnati, e non alla “metodica”, secondo l’espressione del tempo, attraverso la quale ciò si sarebbe poi fatto in classe.
Fin da allora però si riconobbe importanza agli aspetti metodologici, tanto che le Scuole normali di metodo proprio di questo si occupavano; non fu un caso che proprio a Torino venne chiesto a F. Aporti, che già se ne occupava a Cremona, di istituirne una presso l’Università.
L’espansione sul territorio provinciale delle Scuole di metodo, di durata trimestrale, prevedeva, a seguire, l’affiancamento del novello maestro ad un “Maestro normale” [16] per un intero anno, tempo che poi fu ridotto a sei mesi per le femmine dopo l’istituzione delle Scuole magistrali e spesso, per ragioni emergenziali di impiego, fu anche del tutto bypassato.
Oggi
La formazione di un insegnante parte, transita ed arriva da ad un’idea di scuola.
Gli stimoli, gli spunti cui un insegnante è esposto sono moltissimi, quindi la prima cosa che un insegnante, presente o futuro, deve saper fare è fidarsi di un contesto formativo, senza cessare mai di interrogarsi sulla propria professionalità.
Per quanto riguarda gli insegnanti in formazione, il Corso di Laurea in Scienze della formazione primaria, di recente istituzione (dall’anno accademico 2011-2012, nella nuova versione che ottempera al D.M. n. 249/2010) garantisce una preparazione solida, anche se non completa. Ma mai, per definizione, nessun percorso formativo può dirsi completo.
L’intreccio tra conoscenze disciplinari, conoscenze sulle scienze dell’educazione, competenze didattiche, conoscenze sull’articolazione ordinamentale del sistema scuola sono tali e tante che non si può immaginare un maestro confezionato a 25 anni. A 25 anni, tuttavia, si può essere già ottimi maestri, pur sempre in formazione continua.
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