L’amore è uno, indivisibile. Non è possibile frammentarlo, piegarlo alle esigenze della modernità con le sue forme ed i suoi ambiti, con la sua semantica e i suoi simboli. L’amore non si fa rinchiudere nel recinto del consumo, della provvisorietà, della parola debole che dice di un’esperienza debole. L’amore ha un suo proprio linguaggio che trascende ogni contemporaneità e va alla sua radice senza tempo.
Il magistero di Paolo VI sull’amore è di grandissima portata, è vasto, onnicomprensivo, paradigma di ogni altro suo dire, segno di ogni possibilità dell’essere. Basti pensare alla “civiltà dell’amore” che anche in una grande visione poetica sintetizza quanto “il mondo abbia bisogno d’amore” perché ogni uomo è bisognoso d’amore. Ma proprio perché questo è bisogno primario, radicale dell’uomo, proprio sull’amore si gioca la battaglia decisiva tra il Bene e il Male. E come sempre, prima di intaccare la carne e lo spirito, il Male attacca la parola.
Contrario ad ogni astrazione, male della società contemporanea che ha ideologizzato ogni aspetto della vita, Paolo VI va alla radice concreta, reale, esperienziale dell’amore, additando immediatamente quali tremendi equivoci possano sorgere intorno ad una parola così grande:
L’amore, nell’esperienza umana, è un termine terribilmente equivoco, a seconda dei beni a cui si rivolge; può significare le passioni più abbiette e più sordide, può camuffarsi nell’egoismo più esigente e maligno, può bilanciarsi in legittime reciprocità trovandosi pago di ciò che riceve per ciò che ha dato, e può concedersi con calcoli di quasi inavvertito interesse; e può finalmente darsi gratuitamente, realizzandosi nella sua essenziale definizione, per amore, senza considerare il merito di chi lo riceve, né il compenso che gli sarebbe dovuto [1] .
L’equivoco dunque sta innanzitutto nella parola che lo definisce, troppo ampia e abusata per dire la cosa.
E qui ci si presenta una formidabile questione: sappiamo noi veramente che cosa è l’amore? Non è questa parola fra quelle più usate, e perciò fra le più difficili a definirsi? fra quelle polivalenti nei significati, a cui è attribuita? Non è fra le più equivoche, perfino fra le più sublimate e le più degradate? Non si riferisce a forme fra sé contrarie del nostro spirito, in senso verticale, riferita alle ascensioni verso Dio, che è Amore, e verso il Quale è essenzialmente rivolta la nostra vocazione naturale e soprannaturale? (sintesi di S. Agostino: Tu - o Dio - ci hai fatti per Te; ed il nostro cuore è inquieto finché in Te non riposi!); e riferita questa parola alle discese più volgari e degradanti dell’animalità sensuale e perfino innaturale, come un fatale peso di gravità, non trascina forse al basso, sotto i livelli d’ogni decenza e d’ogni onesta felicità? E in senso orizzontale, cioè interpersonale, non può l’amore significare, a volta a volta, la dedizione più generosa, ovvero la brama più egoista, o anche le due cose insieme? Non sarà facilmente possibile dare un significato univoco all’ambigua parola «amore», che oscilla fra «eros» e «agape» (carità), fra una simpatia istintiva e passionale e una aspirazione al bene, alla felicità, alla vita [2] .
Libertà e carità: così si definisce l’amore agli occhi di Dio. Così l’ha voluto Dio stesso: «Quanto potrebbe valere un amore che fosse imposto e non una scelta?» [3] . Libertà e carità definiscono insomma l’amore nella sua natura e nel suo linguaggio. Perché l’amore è esperienza di luce e comunicazione [4] .
Ma la comunicazione dell’amore, anzi, la comunicazione amorevole e amorosa, non è fatta di parole inutili, di discorsi artificiosi. L’amore esige il silenzio, come insegna proprio l’esperienza che si vive nella famiglia primigenia, il modello, la famiglia di Nazareth, da cui ci giunge «una lezione di silenzio innanzitutto. Che rinasca in noi il rispetto del silenzio, questa ammirevole e indispensabile condizione dello spirito; in noi, che siamo assaliti da tanti clamori, dai problemi e dalle grida nella nostra vita moderna, rumorosa e ipersensibilizzata. Oh silenzio di Nazareth, insegnaci il raccoglimento, l’interiorità, la disposizione ad ascoltare gli esempi e le parole dei veri maestri; insegnaci il bisogno e il valore della preparazione, dello studio, della meditazione, della vita personale e della vita interiore, della preghiera che Dio solo vede nell’intimo» [5] . Perché solo «nel silenzio s’interpreta e si capisce l’ineffabile», ovvero in una «più intima meditazione della letizia interiore, intangibile dominio della grazia, che scaturisce senza misura dal sacramento» [6] .
Ma il silenzio non è affatto assenza della parola. È semmai un ecosistema spirituale capace di far vibrare la verità della parola, la sua giusta modulazione, il suo vero significato, la sua capacità di vincere le ambiguità, le ambivalenze pericolose che l’esperienza dell’amore porta con sé. La parola, nel silenzio, è suono, non rumore.
Il tempo esige sul tema una riflessione speciale. La questione diviene centrale perché attraverso tali ambiguità sembra insinuarsi nel cuore stesso della natura divina dell’amore, il tarlo del relativismo, lo snaturamento della giusta relazione non solo tra le persone, ma tra queste e il loro Creatore con il suo Creato. E tale snaturamento, tale abbassamento della natura divina dell’amore, passa proprio attraverso l’ambiguità semantica, il dire la cosa, il suo ordinamento nell’economia di un discorso. «Se si resta negli strati inferiori, l’amore è passione, è istinto; tante volte è vizio, offesa all’ordine, ai buoni sentimenti e, soprattutto, quando diviene rapporto a due, offesa al rispetto dovuto all’una e all’altra persona. Ma se si ascende, ecco l’amore diventare ricerca, integrazione, complemento naturale dell’esistenza» [7] . Per Paolo VI, sul finire del magnifico e terribile decennio che ha visto la sua elezione al soglio pontificio, la chiusura del Concilio, le controversie interne ed esterne circa la sua applicazione che vanno al cuore della natura stessa della storia della Salvezza e della Chiesa, si tratta di riprendere la parola e dare dell’amore la giusta definizione, ridargli il giusto linguaggio, la sua vera prospettiva, difenderlo dalle insidie della sua mistificazione demoniaca. Si tratta di riproporre agli uomini e alle donne che vivono le lusinghe della modernità e soprattutto ne assumono i paradigmi lessicali e – dunque – interpretativi, le sole vere parole che dicono l’amore.
L’ Humanae Vitae viene promulgata, dopo quattro anni di ricerche, di studi, di valutazioni, di ascolto di pareri, nel luglio 1968, quinto anno del pontificato di Paolo VI. «Risponde questa Enciclica – spiega Paolo VI pochi giorni dopo la pubblicazione – a questioni, a dubbi, a tendenze, su cui la discussione, come tutti sanno, si è fatta in questi ultimi tempi assai ampia e vivace, e su cui la Nostra funzione dottrinale e pastorale è stata fortemente interessata» [8] .
Il primo sentimento è stato quello d’una Nostra gravissima responsabilità. Esso Ci ha introdotto e sostenuto nel vivo della questione durante i quattro anni dovuti allo studio e alla elaborazione di questa Enciclica. Vi confideremo che tale sentimento Ci ha fatto anche non poco soffrire spiritualmente. Non mai abbiamo sentito come in questa congiuntura il peso del Nostro ufficio. Abbiamo studiato, letto, discusso quanto potevamo; e abbiamo anche molto pregato. Alcune circostanze a ciò relative vi sono note: dovevamo rispondere alla Chiesa, all’umanità intera; dovevamo valutare, con l’impegno e insieme con la libertà del Nostro compito apostolico, una tradizione dottrinale, non solo secolare, ma recente, quella dei Nostri tre immediati Predecessori; eravamo obbligati a fare Nostro l’insegnamento del Concilio da Noi stessi promulgato; Ci sentivamo propensi ad accogliere, fin dove Ci sembrava di poterlo fare, le conclusioni, per quanto di carattere consultivo, della Commissione istituita da Papa Giovanni: di venerata memoria, e da Noi stessi ampliata, ma insieme doverosamente prudenti; sapevamo delle discussioni accese con tanta passione ed anche con tanta autorità, su questo importantissimo tema; sentivamo le voci fragorose dell’opinione pubblica e della stampa; ascoltavamo quelle più tenui, ma assai penetranti nel Nostro cuore di padre e di pastore, di tante persone, di donne rispettabilissime specialmente, angustiate dal difficile problema e dall’ancor più difficile loro esperienza; leggevamo le relazioni scientifiche circa le allarmanti questioni demografiche nel mondo, suffragate spesso da studi di esperti e da programmi governativi; venivano a Noi da varie parti pubblicazioni, ispirate alcune dall’esame di particolari aspetti scientifici del problema, ovvero altre da considerazioni realistiche di molte e gravi condizioni sociologiche, oppure da quelle, oggi tanto imperiose, delle mutazioni irrompenti in ogni settore della vita moderna...
Quante volte abbiamo avuto l’impressione di essere quasi soverchiati da questo cumolo di documentazioni, e quante volte, umanamente parlando, abbiamo avvertito l’inadeguatezza della Nostra povera persona al formidabile obbligo apostolico di doverCi pronunciare al riguardo; quante volte abbiamo trepidato davanti al dilemma d’una facile condiscendenza alle opinioni correnti, ovvero d’una sentenza male sopportata dall’odierna società, o che fosse arbitrariamente troppo grave per la vita coniugale! [9]
È quasi con tono confidenziale che Paolo VI parla ai fedeli di questo suo compito, di questo dovere: tornare a chiamare le cose con il loro nome.
Ci siamo valsi di mo...