Rainer Maria Rilke vide in atto, già negli anni Venti del Novecento, un processo di dimenticanza dell’origine che si spingeva molto in profondità: «i padri, che come macerie di monti, ci dormono al fondo, (…) l’alveo secco di fiume delle madri d’un tempo, (…) tutto intero il paesaggio silente» [1] . Il padre e la madre vengono meno e se ne perde la memoria benché, prosegue l’elegia, la loro forza continui a nutrire quanti vivono oggi. Tuttavia si possono percepire nuove voci, che si fanno nuovamente strada nel «paesaggio silenzioso».
Oggi, fra le istanze culturali di maggiore importanza, c’è quella di riflettere con serietà e in modo nuovo sul corpo (femminile). Si rimprovera volentieri al cristianesimo un’ostilità, un’inimicizia verso il corpo e verso la donna. Ma entrambi gli atteggiamenti si possono riscontrare, in misura molto maggiore, nel femminismo più radicale e nella mentalità Gender, diventata oggi il mainstream nell’opinione pubblica. Più profondamente dell’uomo, la donna è portatrice di «corpo e vita» ( Eva/Chawwa= vita). In questo senso ha preso avvio anche un nuovo «discorso sulla maternità», più consapevole e critico (si veda più avanti Julia Kristeva), su quella stessa maternità, che è fra i temi che il femminismo tradizionale ha voluto lasciare in altre mani (optando per quella «soluzione», così spesso enfatizzata, che, da Simone de Beauvoir in poi, si chiama aborto). Ecco un altro imperativo del nostro tempo: dovremmo smettere di svalutare il corpo, di ridurlo a pura materia di cui si può disporre. In particolare, dovremmo smettere di «smontare in pezzi», variamente riutilizzabili, il corpo femminile (prostituzione, donazione degli ovuli, maternità surrogata in donne povere! Si veda più avanti Sibylle Lewitscharoff).
Corpo e vita non sono «utilizzabili» a piacere.
Naturalmente, nell’ambito della Chiesa cattolica c’è sempre stata la difesa dei genitori e, in modo particolare, della maternità, ma senza che ciò abbia esercitato un grande influsso sul discorso femminista. Con la teoria del Gender si è affermata inoltre una dimenticanza del corpo, che certo parla di donne e di uomini, ma che nello stesso tempo ha messo al posto delle costanti biologiche i costrutti socioculturali [2] . In essa il corpo vivente viene ridotto a corpo materiale, in sé privo di essenza e di valore, e la maternità viene presa in considerazione prevalentemente come fertilità che si può manipolare per mezzo della tecnica. Tuttavia, alcune scrittrici postmoderne – e non fra le meno autorevoli – possono essere considerate, oggi, come portavoci di un nuovo modo di pensare; esse articolano e impostano in modo nuovo la questione della maternità e dell’essere donna – nell’ottica, principalmente, di una comprensione psicanalitica o fenomenologica del corpo vivente.
1.1. Stabat mater: Julia Kristeva
Recentemente si sono verificate, in ambito intellettuale, una serie di prese di posizione e di mosse in direzione del cristianesimo, che provengono dall’«atrio dei gentili» – l’espressione con cui si indicava il cortile del tempio di Gerusalemme, riservato ai visitatori non ebrei. Alcuni scrittori postmoderni, e non fra i meno autorevoli, sono tornati a compitare le parole della Bibbia – nonostante tutto il parlare della «assenza di Dio» sotto il cielo della stanchezza religiosa e dello scetticismo intellettuale dell’Europa. Così Papa Benedetto XVI ha invitato ad Assisi, nell’ottobre del 2011, come ospiti, anche numerose personalità agnostiche. Tra di loro c’era Julia Kristeva (nata nel 1941), una filosofa bulgara, psicanalista e teorica della letteratura, che vive e insegna a Parigi. Molti anni fa, ella non era passata inosservata, quando, per protestare contro la mancanza, nel discorso femminista, della riflessione sull’essere madre, aveva provocatoriamente pubblicato, nel 1976, il saggio Stabat mater [3] . In esso tornava di nuovo a riflettere, da diverse prospettive, sulla figura della madre e sul fenomeno della maternità. Le pagine dell’edizione tedesca sono divise a metà: nella colonna di destra sono riportati testi e riflessioni filosofiche e psicanalitiche sulla maternità. In corrispondenza, l’autrice pone immagini e quadri della tradizione e della cultura cristiana che la rappresentano – soprattutto raffigurazioni della vergine, e madre, Maria. In sette sotto-paragrafi viene poi notato e apprezzato l’influsso culturale, incomparabilmente forte e profondo, esercitato da questo «universo» e «cosmo» di immagini.
Nella colonna di sinistra, con tutt’altre parole, piene di commozione, la Kristeva annota le sensazioni che ella stessa ha provato durante la gravidanza e il parto. Già il cambiamento del corpo materno rimanda a una realtà, che parla una sua propria lingua dei segni. Alla fine, ella chiede che si metta mano alla formulazione di una nuova «etica della modernità»; perché le donne, «con il loro desiderio di riprodurre e generare (di stabilità)», coniano un’altra lingua culturale e politica.
Ad Assisi la Kristeva ha presentato e sviluppato Dieci principi per un nuovo umanesimo, nei quali viene allo stesso modo avanzata l’istanza di includere la corporeità nella comprensione dell’essere umano. Esistere è essere corpo – con altre conseguenze per la donna come per l’uomo. Con ciò il «punto cieco» del movimento delle donne viene «portato alla luce» e gli si dà parola, contro chi vorrebbe farlo tacere anche nel proprio ambito cristiano e contro la paura di ricadere in un pensiero cattolico «premoderno», del tutto interno e autoreferenziale, riguardo alla maternità. Cito:
La lotta per una equiparazione economica, giuridica e politica richiede una nuova riflessione sulla scelta e sulla responsabilità della maternità. La secolarizzazione ha prodotto una mentalità e un modo di vivere, una civilizzazione, nella quale l’unica cosa che, fino a oggi, continua a mancare è un discorso sul ruolo della madre. Il legame dell’amore tra madre e figlio, questo primo «Altro», che rappresenta la prima luce dell’amore e l’alba del diventare uomini, questo legame, attraverso il quale la continuità biologica diventa senso, alterità e parola, è un legame di riconoscimento e di reciprocità. Questo legame che unisce il figlio alla madre si differenzia dalla religiosità come anche dalla funzione propria del padre, che le integra e le completa entrambe e diventa in questo modo un elemento e un fattore pieno di valore all’interno dell’etica umanistica [4] .
La Kristeva afferma che non esisterebbe oggi alcun discorso adeguato sulla maternità. La cultura attuale parlerebbe piuttosto, in proposito, due lingue «parallele». In particolare il cristianesimo cattolico vedrebbe la maternità come qualcosa di sacro, mentre la scienza medica ridurrebbe l’esser madre a fenomeno naturale e lo consegnerebbe in toto nelle mani della tecnica – questi sarebbero, al presente, gli unici due discorsi della cultura occidentale. Il movimento per l’emancipazione della donna avrebbe prodotto un secondo «discorso parallelo»: per le donne, si tratterebbe da un lato della propria realizzazione nel lavoro e nelle proprie scelte, dall’altro dei figli e della famiglia – due cose, però, fra le quali si dovrebbe, il più delle volte, optare. Anche in questa prospettiva la maternità rappresenterebbe un fattore di stress e un peso, cui non si troverebbe soluzione nemmeno con l’affidamento ad altri dei figli.
Kristeva pone così l’istanza di un «nuovo discorso sulla maternità»:
Questa necessità deriva a suo giudizio dal fatto che quello della maternità sarebbe un luogo poco individuato e definito, e che la madre è stata lasciata completamente sola con le sue «difficoltà economiche» e il «senso di colpa». In controtendenza ella si batte per prestare ascolto a ciò che, in termini di sentimenti, impressioni e pensieri, tocca e preoccupa le donne nell’esperienza della maternità. Si tratterebbe, anche, per lei, di ripercorrere le orme della «grandiosa costruzione dell’elemento materno», che il cristianesimo avrebbe creato con la vergine Maria, e di indagarla in profondità nella sua complessità e multidimensionalità. (…) In questo senso l’autrice postula un nuovo discorso sulla maternità, che attribuisca nuovo valore alle relazioni tra le madri e le figlie e prepari così la possibilità della genesi di una nuova soggettività femminile. Nel momento in cui anche le «rappresentazioni dell’odio e dell’amore» vengono formulate in modo nuovo, e l’uscita di una singola donna dalla comunità delle donne non viene più vissuta come una minaccia, viene anche spianata la strada alla definizione di un profilo positivo di autorità della donna. Un nuovo discorso sulla maternità, che diventa di ora in ora sempre più necessario, affonda le proprie radici in una nuova considerazione e stima della figura della madre, se possibile liberata dalla zavorra delle attribuzioni conferitele in chiave ambivalente o negativa, nel corso della storia, dalla cultura e dalla religione. Questo implica naturalmente anche un (desiderato e tenacemente voluto) cambiamento a favore della donna nell’assetto delle istituzioni della società e del potere, non però a costo di nuove ingiustizie, ma piuttosto nella forma di «riconoscimento e legittimazione reciproci su valori forti, in posizioni effettive di potere equivalenti» – secondo la formulazione della Kristeva – che creano un equilibrio tra i momenti dell’eguaglianza e della differenza [5] .
La Kristeva non dovrebbe essere letta acriticamente. La sua affermazione secondo la quale ci sarebbero tante sessualità quanti individui può essere l’espressione di un debito verso una voluta rivalutazione dell’individualità, ma di fatto è priva di senso e conduce, in ultimo, a una concezione arbitraria della sessualità, così come viene pensata e praticata anche nella teoria Gender.
Nessuno è un essere umano di pura natura, ma è sempre già persona – perciò natura coltivata ed educata. Tuttavia, sul piano teoretico, la base naturale dell’essere uomini, la sessualità inscritta nel corpo di ciascun essere umano, come portatrice della sua personalità, non può essere taciuta e soppressa.
1.2. Una nuova etica femminile: Sibylle Lewitscharoff
La vincitrice del Premio Büchner, Sibylle Lewitscharoff (nata nel 1954), proviene da ambienti protestanti. Nel suo Discorso di Dresda del marzo 2014 ha toccato una questione scottante: il potere della medicina di disporre della vita e della morte. In particolare ella ha criticato la fecondazione artificiale: implicitamente anche le metodologie di screening che ne derivano, ma in primo luogo, ed esplicitamente, la maternità surrogata, la banca degli ovuli e la «inseminazione programmata». La Lewitscharoff ha formulato le sue tesi in modo tagliente e in parte sbagliandosi, confondendo una cosa con un’altra, come quando ha parlato del bimbo fabbricato in provetta come di un «essere a metà»: «una dubbia creatura, metà uomo, metà qualcosa di artificiale, che non si sa bene cosa sia» (affermazione che, più tardi, ha ritrattato). Anche dopo le forti critiche ricevute, ella è tuttavia rimasta ferma, in linea di principio, nel suo rifiuto della procreazione manipolata attraverso la tecnica, in particolare pensando alle madri, che dovrebbero sottoporsi a procedure che le privano della loro dignità – non meno che ai padri, che dovrebbero procurare lo sperma nel più breve tempo possibile, con l’aiuto di immagini pornografiche e masturbandosi.
La Lewitscharoff, figlia di una ginecologa di Stoccarda, è disgustata da tutto ciò. Le sue parole appassionate e le sue tesi estremizzate offuscano però un poco il dato obiettivo e la prassi che ella critica: «gli eccessi della folle illusione di poter manipolare le cose e (...) la strumentalizzazione dei figli a complici e mezzi di soddisfazione delle proiezioni dei loro genitori» [6] . Per questo «merita attenzione e considerazione la sua appassionata richiesta ...