Con gli enunciati performativi – non descrittivi! – della realtà del mondo, dell’esistenza di altri esseri e della effettività dell’io, si aprono le prospettive di cui la fondazione della morale come quella dell’etica hanno necessità. L’imperativo morale come l’esigenza etica riposano entrambi su postulati pratici: l’effettività di un io autonomo per il dovere morale, la realtà del mondo e l’esistenza d’altri per l’esigenza etica mettono tra parentesi le differenze modali tra la necessità, l’esistenza e la possibilità. Là risiede il legame tra la religione riflessiva e la riflessione meta-etica la cui posta principale consiste nel rendere ragione del significato categorico del dovere morale, o, se si preferisce, della forza deontica, che non sarebbero in grado di spiegare né il contenuto oggettivo dell’azione moralmente buona, né la forma della massima che la ispira [1] . Mentre al contenuto corrisponde la finalità dell’agire; alla forma, la sua conformità a una legge ; alla forza spetta la stessa categoricità , di cui, a quanto è dato di capire, la filosofia contemporanea crede di dover rinunciare a fornire una ragione.
Una simile impresa non potrà evitare di confrontare la morale stricto sensu con la ragione pubblica, che si caratterizza innanzi tutto, nelle società pluraliste, come agnosticismo costituzionale. Soprattutto oggi, con il montare della marea dei nuovi problemi etici della società, è possibile percepire un limite sistematico del dispositivo di base del liberalismo politico. Il deficit funzionale di una ragione pubblica strutturata sul modello stretto dei diritti liberali [2] era già diventato chiaro nella alternativa tra la pena di morte e della sua abolizione. Tale deficit è stato confermato dai conflitti suscitati da problemi come l’HIV, l’eutanasia, il diritto di decidere della propria morte, i limiti della manipolazione genetica, e tutte le situazioni che mettono in gioco opzioni filosofiche relative alla condizione umana e al valore della vita. Abbiamo senza dubbio bisogno di lumi extra-giuridici per venire in chiaro delle nostre difficoltà attuali; e se la religione può progredire solo sulla via di una delucidazione dei propri contenuti, accettando di esporli con spirito fallibilista alle domande profane di spiegazione, una risorsa a questo riguardo non risiede che nel fondo privato delle nostre convinzioni e intuizioni morali, così profondamente innervate che le tradizioni religiose le conservano, di fatto, in archivio. Nondimeno, è nella misura in cui le società liberali avranno saputo interiorizzare i valori canonici della ragione pubblica che la religione potrà cessare di essere assegnata politicamente al rango di convinzione strettamente privata.
In attesa, si può soltanto supporre che le religioni riconosciute nello spazio democratico sono, tutte, delle dottrine che inglobano argomentazioni razionali. In questa misura, ci si pone sul piano di un confronto positivo tra i loro più generali orientamenti circa ciò che è giusto e le linee di forza della ragione pubblica. In linea di ipotesi, le religioni che operano nello spazio pubblico sono tolleranti rispetto ai contrasti e rispettose delle divergenze, anche se qualcuna non è liberale in ragione di un fondamentalismo di principio nel campo morale [3] . Nel parlare di aspetti illiberali delle religioni, non vediamo posizioni consequenziali con la convinzione di un carattere sacro della vita umana, come la proibizione del suicidio, dell’eutanasia, dell’aborto, dell’eugenetica e della clonazione, fin tanto che si tratta di presentare queste esigenze difensive come divieti morali. È visibile, piuttosto, la tendenza a voler trasferire questi divieti morali nella sfera dei divieti giuridici facendo uso dell’argomento che la dignità umana ha il primato sulla libertà dell’individuo (il suo arbitrio). È la tentazione di organizzare la società a partire da una visione etica sostanziale invece di concepirla come l’ordinamento politico della coesistenza possibile tra visioni particolari del Bene. Allora, la struttura di base della società non troverebbe più la propria ragion d’essere in una pluralità di visioni del mondo. Queste saranno negate in nome di una convergenza, frutto di un dialogo interreligioso, da cui emergerebbe un’etica universale sostanziale, dotata di una pretesa sovversiva: sostituire, mediante una dottrina unitaria della vita buona, unanimemente condivisa, la giustificazione pubblica di una costituzione giuridica legata alla circostanza di fatto del pluralismo.
C’è qui una seria tentazione della nostra tarda modernità, post-secolare, che si apre alla mondializzazione. Dopo tutto è importante riallacciare un rapporto con l’ambizione fondazionale, oggi abbastanza in discredito. Il pathos scettico che vuole che il mondo moderno sia legato irrimediabilmente alla figura di un individualismo ateo, fondato sul politeismo dei valori, apre un’ampia breccia ai tentativi dogmatici di restaurazione di un ordine fondato sulla presunta natura delle cose. Di fronte al rischio del fondamentalismo, rimane solo l’approfondimento di una filosofia critica che possa offrire una via non regressiva alla fondazione della ragione pratica; e di fronte alla sua antitesi laicista, solo una giustificazione critica della categoricità dell’imperativo categorico può fondare la possibilità logica di un dialogo tra ragione e fede, vale a dire il principio di una possibile traduzione dei significati religiosi nel linguaggio secolare, senza che a una tale riconciliazione debba fare ostacolo la presunta incompatibilità tra la costituzione critica della ragione pubblica e la costituzione dogmatica delle religioni rivelate: è giustamente al vertice della riflessione trascendentale che una tale riconciliazione diventa possibile e necessaria.
Nel linguaggio di Heidegger, si potrebbe interpretare una prospettiva agnostica come chiave di volta di un Essere ricondotto ad Esserci, e, quindi, ad “esistenza”, senza il riparo di un cielo teologico o di un tetto metafisico. Tuttavia, da questo punto di vista, l’agnosticismo vale soltanto come punto di vista teorico: praticamente, l’esistenza individuale sarà posta di fronte all’alternativa tra ateismo e fideismo.
Ripetiamo: l’impegno a favore dell’uno o dell’altro termine dell’alternativa non è, inizialmente, un problema di credenza bensì di decisione e di scelta, se malgrado tutto ateismo e fideismo mettono capo a un criticismo pratico poggiando l’uno e l’altro sul presupposto teorico dell’agnosticismo.
L’obiettivo è di ricostruire conseguentemente quanta ragione è nel fideismo come nell’ateismo. In che modo si può rendere ragione della fede? Come pensare questo evento, come evento di rivelazione o di conversione, che passa a fuoco vivo l’essere tutto intero, se è vero che all’origine un tale evento non poggia su nessuna credenza metafisicamente fondata, ma, al contrario, sull’incertezza radicale dell’agnosticismo? Come dunque riconciliare i due punti di vista: il punto di vista filosofico, che pensa l’impegno religioso (la fede) come un fatto imputabile alla scelta autonoma del soggetto umano, e il punto di vista teologico, che comprende un tale impegno come un fatto imputabile alla rivelazione o alla grazia divina?
Il lato “archetipico” della scelta (di credere o di non credere) è che essa non fa che aprire uno sguardo sul mondo: genera una serie di conseguenze che dividono il mondo in differenze. Non si tratta di effetti derivanti dal credere o dal non credere alla configurazione oggettiva del mondo ambiente (per esempio, al livello delle istituzioni), ma piuttosto di una trasfigurazione del mondo vissuto, che comporta riconfigurazioni degli orizzonti d’attesa più che degli spazi d’esperienza. Ciò riguarda lo schema fondamentale delle relazioni interpersonali. Pensiamo alla trasfigurazione che opera su tutto un mondo l’azione di una vita quasi santa, consacrata al soccorso caritatevole in uno spirito che fa suo il comandamento dell’amore degli uomini e lo mette effettivamente in pratica. Molti conoscono almeno una persona di tal fatta, la cui vita è come illuminata. La sua bontà, il suo amore per gli altri, la sua abnegazione, la sua gioia profonda diffondono un’aura unica, un carisma che impregna la comunità intera, e incita ognuno a uscire fuori di se stesso. Si prova la forza unica di questo amoroso oblio di sé, che realizza nelle proprie azioni l’unità della virtù e della felicità con una indimenticabile facoltà di illuminazione. È come se il mondo vissuto mutasse colore, si reincantasse sotto l’effetto di una grazia. Si è indotti a supporre in una tale persona una luce interiore, sorgente di una energia invincibile, che sarà il messaggio di una vita, della vita che vuole se stessa e si traduce nell’ entusiasmo di diffondere amore, di spargere la propria luce tra gli uomini, che si accorda con l’idea che Dio è la felicità dell’uomo, Deus est hominis beatitudo [4] . Di fatto, non sono molte le personalità di questo tipo che non collocano la propria esistenza sotto il segno di Dio.
Chiediamoci, allora, a proposito di una tale persona – la questione non è, tuttavia, di natura empirica –, quale fu il suo gesto iniziale, la sua azione inaugurale, per cui il mondo che ne deriva, il suo, ma anche quello di quanti avrà saputo toccare, offre agli occhi di molti una immagine di redenzione. Senza dubbio, la forza di una tale personalità, il suo potere carismatico di trasfigurazione del quotidiano trova una genesi, in qualche modo trascendentale, nella risoluzione assunta un giorno, di cambiare vita. Si comprende come il cristianesimo abbia attribuito un tale evento ad un’azione della Trinità. Si tratta della conversione: «È lo Spirito che apre le porte del cuore affinché gli uomini possano credere al Signore e rivelarlo».
La conversione, è ricordato nell’enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II, «si esprime dall’inizio attraverso una fede totale e radicale che non pone né limiti né indugi al dono di Dio». Si è allora tentati di rinviare un evento così sconvolgente a un effetto dinamico indipendente dalla volontà intesa come libero arbitrio. Con riferimento al saggio di Rudolf Otto sul sacro, Carl Jung aveva caratterizzato tale presenza come «elemento numinoso», numinosum, presenza reale, non importa se visibile o invisibile, che determina una modificazione caratteristica della coscienza [5] .
Il numinosum si segnala a differenti livelli della psicologia. È presente in certi sogni, quelli in cui si crede di viverne “davvero” il contenuto, come una realtà prodotta al di fuori dell’io. Si tratta di sogni così coinvolgenti, che il soggetto, privato del proprio autocontrollo, è eccezionalmente posto nell’incapacità di capire, nel momento in cui sogna, che si tratta di nient’altro che di un sogno. Il sogno diventa allora come una rivelazione che cessa di essere per il soggetto una produzione psichica di cui è lui l’autore. Esso gli appare come un puro messaggio, laddove abitualmente egli sa bene, se non guidarne lo sviluppo, almeno seguirlo con consapevolezza e anche, entro certi limiti, tentare di orientarlo.
Il numinosum opportunamente chiamato in causa dalla acuta intelligenza di Jung si manifesta così al livello delle patologie, nei casi in cui il paziente si riconosce vittima di ossessioni, di angosce che lo assediano, pur sapendo che sono immaginarie. Ma egli non può fare altro che prenderne sul serio il contenuto. Per lui si tratta di vere minacce esterne, di pericoli reali che lo spaventano e avvelenano la sua esistenza quotidiana. Ma quando il soggetto crede, in qualche caso, che un altro essere dentro di lui gli parla; per esempio, che delle voci lo interpellano, gli assegnano una missione; o ancora, quando i soui familiari, constatando delle manifestazioni strane e inesplicabili per la ragione ordinaria, come pronunciare parole in lingue sconosciute, lo ritiengono letteralmente posseduto da un demonio, allora il numinosum riveste un aspetto religioso, e qualunque linguaggio clinico lo descriva diventa inadatto al fenomeno. Il “posseduto” non è più un “paziente” nevrotico, che sa tuttavia che ciò che lo affligge viene da lui, e parlare di “psicosi” non fa che deviare il senso della difficoltà; si è autorizzati a ipotizzare che in sé il fenomeno paranormale investe altre categorie: lo psichiatra che si intestardisce ad attribuire questo genere di fenomeni alla psicopatologia si espone al ridicolo di ipotesi che, essendo relative alla psiche e alla sua forza demiurgica, sono altrettanto fantastiche che le spiegazioni parapsicologiche. Non che qui si pretenda di stabilire la plausibilità del soprannaturale, piuttosto si ammette l’esperienza di fenomeni di cui finora la religione ha potuto, alla sua maniera, rendere pienamente ragione. Le Scritture sono piene di riferimenti ad azioni con cui Gesù di Nazareth liberava esseri umani dai demoni che li possedevano. È proprio in queste prestazioni da esorcista, secondo la tradizione, che risiede l’essenziale delle sue opere per dir così di routine.
È interessante sottolineare che a questo livello il numinosum realizza il suo concetto. Le forze psichiche, spirituali o d’altra natura, che sorgono nell’individuo come forze autonome non sono più soltanto elementi parassitari molesti, delle “cose” che interferiscono con il sé cosciente per renderne indecifrabile il linguaggio. Si tratta ora di elementi che si atteggiano come quasi persone dotate di una intenzione autonoma; quelle che Jung definiva «personalità frammentarie» o «secondarie». Simili osservazioni, tuttavia, non concernono propriamente il numinosum dell’esperienza di Dio, se si intende questa come un fenomeno che oltrepassa di molto l’interferenza di personalità larvali e parziali all’interno del soggetto; perché essa si presenta piuttosto come l’irruzione di un messaggio grandioso, Rivelazione che domina e afferra il soggetto umano tutto intero con la sua potenza, associata all’idea di una gloria che conviene solo a Dio. Il numinosum dell’esperienza di Dio offre una chiave interessante per tentare di comprendere il mistero vivente della religione da un punto di vista psicologico. Ma non tocca per niente il punto di vista filosofico sul fenomeno della fede intesa come risoluzione e scelta.
Senza dubbio, il confronto tra filosofia e teologia è molto delicato, perché la seconda, per quel tanto che le sue elaborazioni rinviano direttamente all’esperienza religiosa, avrà la tendenza a respingere l’idea che una decisione del soggetto autonomo sia alla base della fede. La tradizione cristiana invita piuttosto a pensare che il soggetto, alla maniera di Paolo di Tarso sulla via di Damasco, sarà propriamente afferrato da una chiamata diretta di Dio stesso; e un simile numinosum divino sembra spogliare il soggetto umano di una responsabilità personale rispetto alla propria fede. È questo, d’altra parte, che appare problematico nel protestantesimo, il cui paradosso risiede nel fatto che il “suo” cristianesimo, più di ogni altra religione, da un lato, concorda con la concezione della moralità nel non far dipendere la motivazione al dovere da nessuna ricompensa e da nessun castigo, e tuttavia, dall’altro afferma il principio fondamentale della salvezza mediante la grazia, come per evitare il rischio del malinteso volontaristico che potrebbe suscitare il principio sola fides (la fede sola salva), l’adesione al quale potrebbe ancora rinviare a una decisione autonoma del soggetto.
È questa la questione cruciale della libertà umana: sapere, in fondo, se l’arbitrio è libero o è servo, conflitto che oppose Erasmo a Lutero, l’umanesimo alla Riforma. Erasmo non può accettare che Dio trascini al peccato degli uomini privi di libertà [6] . Una filosofia cri...