1. Giustizia
1. Premessa
L’idea di giustizia globale trae origine dai processi di globalizzazione in atto. Questi processi hanno effetti non solo di natura economica ma anche sociale, legale e culturale, così da dare luogo poco alla volta a una sorta di comunità globale. Come ben sappiamo, nel mondo attuale, esistono enormi differenze in termini di reddito, ricchezza, cultura e potere tra Stati e individui. Al cospetto della ricordata comunità globale, tutto ciò genera nuovi problemi morali e politici. Si può dire che l’idea di giustizia globale nasca proprio di qui. Molti di noi, per esempio, data l’ineguaglianza profonda tra individui e tra Stati a livello mondiale, sarebbero pronti a sostenere che tale ineguaglianza è ingiusta. Ciò vuol dire che – a livello globale – i beni e le opportunità più importanti non sarebbero divisi tra individui e Stati in maniera eticamente accettabile. Cosa che appare ancora più scandalosa quando la povertà estrema o l’ignoranza assoluta non consentono di condurre una vita dignitosa. Spesso si ritiene anche che la benevolenza e la carità non bastino ad affrontare simili questioni, e che ci sia bisogno di più politica a livello della comunità globale per farlo. Da un simile sfondo trae origine una diffusa domanda di giustizia globale.
Ma non si può parlare di giustizia globale senza partire dall’idea di giustizia sviluppata all’ombra dello Stato-nazione. Il problema della giustizia globale diviene così quello di comprendere in quali limiti l’idea di giustizia – così come concepita nell’ambito dello Stato-nazione – possa essere estesa alla comunità di tutti gli esseri umani. Come vedremo nel prosieguo del libro, si possono riconoscere diverse risposte teoriche a questo tipo di interrogativo. Prima di entrare nel merito di diverse opzioni nell’ambito della giustizia globale, conviene però esaminare il concetto stesso di giustizia così come è stato discusso nella filosofia politica contemporanea.
2. Giustizia
“Giustizia” si dice da sempre in molti modi. Il concetto di giustizia è comunque centrale nella filosofia politica contemporanea, perlomeno dal 1971 in poi (Rawls 2008). Trattare il tema della giustizia in una prospettiva filosofico politica implica, innanzitutto, prendere in esame quella che si chiama di solito giustizia distributiva. Tale scelta dipende da ragioni di tipo insieme concettuale e storico. Dal punto di vista concettuale, non c’è dubbio che – almeno per la maggior parte dei filosofi e degli scienziati sociali contemporanei – la nozione di giustizia coincide in primo luogo con quella di giustizia come equa considerazione degli interessi e parità di trattamento, che a sua volta coincide con l’idea di giustizia distributiva. Dal punto di vista storico, inoltre, questo primato concettuale della giustizia distributiva si spiega facilmente con l’alternativa tra capitalismo e comunismo che ha caratterizzato la teoria e la pratica politica nel periodo della guerra fredda. Questo vuol dire privilegiare la trattazione dell’idea di giustizia come distribuzione equa, il cui focus è sui problemi socio-economici in termini di libertà-eguaglianza e differenza di classe.
Un’implicazione diretta di questa impostazione consiste nel trattare in un secondo momento l’idea di giustizia come pluralismo politico e “riconoscimento”, idea il cui contenuto è tipicamente simbolico e riguarda più le questioni culturali e di status che non quelle di classe e posizione economica (Walzer 1987; Rawls 1994; Fraser e Honneth 2007; Taylor 1993). Anche in questo caso le ragioni sono sia concettuali sia storiche. Dal primo punto di vista, crediamo sia opportuno considerare inizialmente la giustizia come riconoscimento in termini di differenza specifica con la giustizia distributiva: talvolta, come nel caso di una minoranza etnica povera, i due tipi di giustizia tendono a coincidere; talaltra, come nel caso di un paese che esce con successo dal colonialismo, i due tipi di giustizia possono divergere. Dal punto di vista storico, invece, sembra lecito pensare che la centralità della giustizia come riconoscimento derivi in parte notevole dalla crisi del 1989, con il tramonto del comunismo e la rinascita virulenta dei localismi e delle tradizioni. Naturalmente, si può ritenere che giustizia come redistribuzione e giustizia come riconoscimento siano concetti internamente legati a filo doppio, per cui non si potrebbe discutere l’uno senza al tempo stesso occuparsi dell’altro. La mia opinione è che, invece, qualcosa del genere è possibile purché si abbiano chiaramente presenti i confini dei due modi di concepire la giustizia, e magari la possibilità di integrarli. La parte finale di questo capitolo mostra che questi confini hanno a che fare innanzitutto con le conseguenze che la giustizia come riconoscimento ha sulla questione del pluralismo culturale e dei diritti delle minoranze. Data l’ovvia importanza di queste tematiche, il non discuterle a sufficienza in questa sede costituisce solo un rimando a capitoli successivi. Un’osservazione analoga si potrebbe fare sui rapporti tra l’idea di giustizia distributiva e la questione del potere, inteso come determinazione delle forme, dei modi e dei gruppi capaci di realizzare in concreto, magari attraverso il conflitto, aspetti controversi di alcune visioni politiche. Anche in questo caso, in queste pagine mi limiterò a sottolineare alcuni limiti delle teorie della giustizia distributiva, qualora si parta dalla centralità della questione sul potere. Ciò che a noi interessa in questa sede è mostrare il nesso interno esistente tra “giustizia” intesa in senso generale e le sue articolazioni attraverso il binomio potere/cultura che verranno trattate in maniera più profonda nei successivi capitoli.
2.1 Giustizia come distribuzione
Il concetto di giustizia distributiva è popolare nel mondo accademico e nell’opinione pubblica colta dei nostri giorni. Con giustizia distributiva si intende di solito un tipo particolare di giustizia politica, legata all’appartenenza dei soggetti alla struttura istituzionale (l’insieme delle istituzioni maggiori) ed economica di base, in quanto fornisce i criteri di distribuzione tra loro dei beni primari. Da questo punto di vista, la giustizia distributiva ha a che fare in primo luogo con principi normativi pensati come criteri per la distribuzione equa dei vantaggi e svantaggi che derivano dalla cooperazione sociale. Questo è il modo in cui ha parlato di giustizia distributiva John Rawls, nel suo libro seminale A Theory of Justice del 1971 (Rawls 2008). Occorre, notare che:
(i) La nozione contemporanea di giustizia distributiva è discontinua rispetto alla nozione classica di giustizia (quella di Platone e Aristotele, per esempio), se non altro perché presuppone l’eguaglianza degli individui e un sistema sociale basato sulla cooperazione e la divisione del lavoro.
(ii) Ci sono diversi principi di giustizia distributiva, e adottare gli uni o gli altri può dare luogo a diversi modi di intendere la giustizia. Ci sono in sostanza diverse concezioni della giustizia, ma non è detto che cambiando concezione della giustizia il concetto di giustizia distributiva rimanga inalterato. Tutte le concezioni discusse in questo capitolo possono avere conseguenze sul concetto di giustizia e le sue ricadute internazionali che qui ci interessano. Critiche al concetto di giustizia di Rawls, come per esempio quelle di Nozick e Sen, sono rilevanti nell’ottica della giustizia globale. Così come lo è la posizione presa sulla questione della giustizia come riconoscimento.
(iii) Non è importante solo il contenuto della propria concezione della giustizia ma anche il novero dei soggetti cui essa si applica. Sarebbe impossibile, però, richiamare in questa sede tutte le estensioni del concetto di giustizia in maniera appropriata.
(iv) Le concezioni di giustizia distributiva che elencheremo qui in seguito hanno la caratteristica di rivolgersi normativamente a individui, di essere solitamente laiche o secolari (nel senso di non invocare argomenti religiosi a loro sostegno) e di avere la struttura di base della società come elemento fondamentale destinatario dei principi di giustizia distributiva. In questo modo, le concezioni di giustizia di un marxista o di un religioso radicale sono escluse a priori.
Si potrebbe ritenere che il modo più semplice di pensare a una teoria della giustizia distributiva sia quello di fare appello a criteri intuitivi di giustizia, come quelli basati sull’eguaglianza degli esseri umani o sul merito. Ma non è così. Questi criteri intuitivi, infatti, spesso creano più problemi di quanti ne risolvono. L’egualitarismo per esempio (Carens 1981; Nielsen 1979) va incontro a due problemi fondamentali:
a) è facile capire che ci sono altre distribuzioni diverse dalla semplice eguaglianza di beni, che sono come si dice pareto-ottimali, alla luce delle quali cioè almeno qualcuno sta meglio e nessuno peggio (vedi tabella 1);
b) non è facile realizzare l’eguaglianza materiale senza sacrificare le preferenze e i meriti relativi delle persone, gli incentivi economici e la libertà individuale.
| Tabella 1 – Ipotizziamo che la prima linea indichi tre fasce di popolazione, A B e C, mentre nella prima colonna sono indicate tre tipi diversi di distribuzione X, Y e Z. Come si può evincere dalla tabella non è detto che la prima distribuzione (che possiamo immaginare rappresenti l’egualitarismo semplice) sia effettivamente quella in cui la fascia di popolazione più debole stia meglio. |
| | A | B | C | A+B+C |
| X | 25000 | 25000 | 25000 | 75000 |
| Y | 35000 | 40000 | 60000 | 135000 |
| Z | 25000 | 35000 | 85000 | 145000 |
Per quanto riguarda, invece, una visione della giustizia distributiva basata sul merito individuale (Feinberg 1970; Miller 1976), risulta in realtà molto difficile, dato un sistema sociale complesso basato sulla reciprocità, separare i contributi e quindi i meriti di ciascuno da quelli degli altri. In sostanza, si può ritenere che i meriti in quanto tali dipendano dalla struttura di base della società e dalla sua capacità di creare aspettative legittime fondate sul merito (in altre parole, i meriti sarebbero in parte notevole derivati e non primitivi).
Per queste ragioni, sono stati pensati molti principi di giustizia distributiva alternativi a quelli intuitivi. Tra questi i più noti principi tra gli studiosi di giustizia distributiva sono probabilmente quelli che fanno riferimento a: l’utilitarismo; la teoria della giustizia come equità di Rawls; il libertarismo di Nozick; il risorsismo alla Dworkin; il capability approach di Sen. In questo capitolo discuteremo i primi tre, mentre ci limiteremo ad accennare al risorsismo e all’approccio basato sulle capabilities (capacitazioni). Tutte queste teorie sono trattate alla luce di quella di Rawls, che viene ritenuta essenziale nell’ottica del libro nel suo complesso.
2.2 Utilitarismo
L’utilitarismo (Pellegrino 2010; Glover 1990) è insieme un movimento riformatore del secolo decimonono e una teoria morale della società e della persona. In queste pagine, viene discusso solo in quanto filosofia politica che ha costituito insieme la visione dominante nel mondo anglosassone prima del 1971 e l’obiettivo critico della teoria della giustizia come equità (Rawls 2008; Maffettone 2010a, 2010b).
Proprio per ciò interessa qui più la teoria utilitarista della giustizia distributiva, teoria di cui Jeremy Bentham e John Stuart Mill furono i maggiori esponenti filosofici. Da sempre l’utilitarismo ha avuto problemi con l’idea di giustizia. Tanto che John Stuart Mill scrisse: «In tutti i tempi, uno dei più forti ostacoli che si è trovata di fronte la dottrina dell’utilità o felicità come criterio della ragione e del torto è venuto dall’idea di giustizia» (Mill 1999). Questo avviene perché le teorie della giustizia pongono di solito vincoli alla massimizzazione dell’utilità, che costituisce il nucleo di ogni utilitarismo. E si suppone che tali vincoli – ma lo stesso Mill pensava su questo punto il contrario – siano incompatibili con l’anima stessa dell’utilitarismo. Questo problema si capisce meglio se si esamina la struttura della teoria. Tale struttura può essere vista come il risultato di una composizione di quattro parti diverse, tra cui:
(i) Conseguenzialismo. L’utilitarismo è per un’etica delle conseguenze, come contrapposta a un’etica delle intenzioni. È in realtà difficile pensare a qualsiasi forma di etica pubblica che non tenga conto delle conseguenze. Qui, il problema dell’utilitarismo nasce dal conflitto con l’idea kantiana di persona e dalla difficoltà di tutelare la persona nell’ambito di un puro conseguenzialismo al di fuori di un paradigma basato sui diritti.
(ii) Welfarism (benesserismo). L’utilitarismo considera un solo tipo di informazione, quella basata sul benessere. In questo caso, il problema nasce dal fatto che ci sono importanti motivazioni etico-politiche diverse da quelle benesseriste.
(iii) Massimizzazione. L’utilitarismo è una teoria etica che massimizza, per esempio la somma algebrica dei piaceri e dei dolori che otteniamo come effetto di un’azione. Il problema nasce qui dai vincoli che talvolta pare opportuno apporre a ogni massimizzazione. La priorità della libertà di Rawls è un esempio in materia.
(iv) Simmetria (rispetto al principio di utilità): le preferenze di ognuno hanno lo stesso valore. Questo assioma viene spesso interpretato dagli utilitaristi come risultato di una scelta ipotetica da parte di un agente neutrale e disinteressato. Il problema è in questo caso dovuto al fatto che talora alcune preferenze (per esempio legate a diritti individuali) sembrano da tutelare in maniera speciale.
Non è difficile capire che l’utilitarismo ha perlomeno due questioni aperte, che Rawls metterà in risalto. Da un lato, trascura talvolta i diritti individuali in nome dell’utilità totale. Dall’altro, non sembra concepire adeguatamente l’idea stessa di distribuzione giusta, a cominciare dal fatto che una visione utilitarista rischia di premiare troppo alcune persone nei confronti di altre (purché la somma algebrica delle utilità sia massimale). È stata messa, da questo punto di vista, in discussione – da Rawls in poi – l’idea centrale dell’utilitarismo come teoria della giustizia distributiva, sarebbe a dire che principi di libertà, riconoscimento di meriti e diritti abbiano significato se e solo se promuovono l’utilità totale aggregata. Rawls ha fatto osservare che in questo modo non si prendono sul serio le differenze tra persone. La massimizzazione della soddisfazione delle preferenze può, se si segue Rawls, andare bene nell’ottica intra-personale, ma non funzionerebbe se trasportata nell’ottica inter-personale. La critica all’utilitarismo si basa proprio sul fatto che sposterebbe inopportunamente un principio di prudenza adatto a individui in una prospettiva sociale.
Va anche detto che un’ottica benesserista e massimizzatrice consente di adottare, come conseguenza, svariate funzioni di benessere sociale di cui l’utilitarismo è solo la più nota. Molte della critiche rivolte negli ultimi anni dipendono in effetti dal tipo di funzione prescelta, per esempio dal tipo di utilità considerato (ordinale-cardinale) o dall’accettare o meno un criterio di confronto interpersonale di utilità. Nell’ambito dell’assiomatizzazione standard l’utilitarismo assume utilità cardinale e confronto interpersonale di utilità (Sen 1976; Maffettone 1982, 1992).
Non è chiaro, infine, in che modo l’utilitarismo – anche avendo accettato sul piano teorico un determinato tipo di funzione di benessere sociale – possa avere conseguenze coerenti con la teoria che riguardano la effettiva distribuzione di beni e servizi. Come notato tra gli altri da Dworkin (2000), due utilitaristi potrebbero trarre conseguenze materiali opposte dallo stesso nucleo teorico.
2.3 I principi di giustizia di John Rawls
Si è già detto quanto importante sia l’opera di Rawls per discutere il tema della giustizia distributiva oggi (Rawls 2008, 1994, 1999; Maffettone 1982, 2010a e 2010b; Freeman 2007; Richardson e Weithman 1999). La tesi centrale nella teoria della giustizia come equità fa ricorso a un contratto sociale ipotetico. I principi di giustizia sono scelti nella posizione originaria. Le parti contraenti in questa posizione originaria scelgono i principi di giustizia sotto uno «spesso [thick] velo di ignoranza» che non consente loro di conoscere chi sono, nel senso che ignorano la loro posizione specifica, i loro talenti e abilità, e soprattutto i propri «piani di vita» e «concezioni del bene». Le parti sono, però, razionali nel senso standard dato al termine nella teoria economica, e sono motivate a perseguire, in un regime di mutuo disinteresse e mancanza di invidia, il proprio interesse. La combinazione di razionalità individuale e velo di ignoranza approssima la natura di una decisione morale imparziale di stampo kantiano (non sapendo chi sono, sarò più equo). Quest’ultimo viene misurato in termini di beni sociali primari quali la ricchezza, il reddito, il benessere, le opportunità, le libertà e le basi sociali del rispetto di sé. I principi di giustizia, così scelti, riguardano le istituzioni principali e non le vite delle singole persone. È anche importante considerare che una volta che le parti abbiano optato per i principi, questi devono essere confermati da un confronto con i nostri giudizi intuitivi in «equilibrio riflessivo». Il risultato di questa procedura dovrebbe assicurare lo sfondo teorico ideale per un assetto stabile delle istituzioni nel tempo (Daniels 1989; Freeman 2003, 2006a, 2006b; Maffettone 1982, 2010a, 2010b; Pogge 1989).
Sotto queste ipotesi, Rawls sostiene che le parti sceglierebbero una concezione speciale della giustizia, basata su due principi:
(1) ogni persona ha un eguale diritto al sistema totale più esteso di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti;
(2) 2a: cariche e posizioni sociali devono essere aperte a tutti sotto condizioni di equa eguaglianza di opportunità; e 2b: le eguaglianze sociali ed economiche devono essere organizzate in modo che siano per il più grande beneficio dei meno avvantaggiati.
All’interno di questi principi esiste per Rawls una priorità del primo principio rispetto al secondo, e della prima parte del secondo (qui sopra 2a) sulla seconda parte (qui sopra 2b). Ciò rende difficile valutare il peso reciproco dei principi nella concezione della giustizia distributiva di Rawls. Il primo principio è un principio di libertà per tutti i cittadini. Non è del tutto chiaro come tale libertà massimale possa considerare trade-off tra diverse libertà, quanto cioè un sacrificio di una libertà possa essere compensato dall’ampliamento di un’altra. Rawls è particolarmente attento al significato sostanziale delle libertà, e quindi ai suoi occhi non conta solo una lista attendibile di libertà ma anche che sia garantito un certo valore effettivo della libertà. Il principio di equa eguaglianza di opportunità tutela i cittadini dalle diseguaglianze non giustificabili. In questo modo, li protegge dagli effetti perversi della lotteria sociale (da chi sono nato) e d...