Cambiamento climatico
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Cambiamento climatico

Una piccola introduzione

Marcello Di Paola

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Cambiamento climatico

Una piccola introduzione

Marcello Di Paola

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Cos'è il cambiamento climatico e perché stentiamo a credere che esista? Perché è difficile contrastarlo? Cosa significa per noi e per i nostri discendenti? In che senso la questione ambientale rappresenta un problema etico? Questo libro risponde a queste e altre domande, divenute oggi politicamente concrete e urgenti.
Il cambiamento climatico è un problema senza precedenti, dalle implicazioni sociali potenzialmente catastrofiche. Esso coinvolge i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta e pone minacce multiple, probabilistiche, indirette, spesso invisibili e senza limiti di spazio o di tempo. Non è una piaga impostaci da una divinità invidiosa ma un fenomeno dovuto in maniera determinante ai nostri schemi di pensiero e alle nostre scelte politiche, economiche e personali. Tuttavia, la nostra percezione del problema e il dibattito internazionale sul tema non paiono ancora essere all'altezza della sua effettiva complessità.

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1. Scienza

1.1 Come funzionano le cose
Il sole è la fonte primaria di energia sulla Terra. La maggior parte delle radiazioni solari vengono assorbite dalla superficie terrestre, che si riscalda, mentre una parte minore viene riflessa indietro nello spazio da ghiacci e nuvole. Parte dell’energia assorbita dalla superficie terrestre viene poi rilasciata nell’atmosfera sotto forma di raggi infrarossi e a sua volta assorbita da quelli che chiamiamo “gas serra”: principalmente vapore acqueo, anidride carbonica, metano e protossido di azoto. Parte dell’energia assorbita da tali gas viene a sua volta ri-emessa sotto forma di calore, riscaldando così sia la bassa atmosfera che la superficie terrestre. L’azione catturante dei gas serra fa sì che la temperatura della Terra sia di circa 33 gradi Celsius più calda di quanto lo sarebbe in loro assenza, permettendo così la vita.
L’atmosfera terrestre è formata per il 79% circa da azoto e per il 20% circa da ossigeno. Il restante include i gas serra (vapore acqueo 0,33%, anidride carbonica 0,0398%, metano 0,00016%, protossido d’azoto 0,00003%). Le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera sono, come si vede, relativamente basse: ciononostante, se esse variano il clima del pianeta può, dato un intervallo di tempo abbastanza lungo, cambiare radicalmente.
Non è dato ricostruire con esattezza ciò che è accaduto al clima terrestre negli ultimi milioni di anni, poiché non abbiamo i dati. I climatologi possono però concentrarsi sul passato relativamente recente e affidarsi a indicatori indiretti. Per studiare la variabilità del clima solitamente si studiano le vicende di un gas serra in particolare, l’anidride carbonica, di cui si stimano le concentrazioni atmosferiche attraverso i secoli. Il metodo più accurato per far ciò è quello di analizzare le placche di ghiaccio più profonde dei Poli terrestri: le bolle d’aria in quel ghiaccio contengono aria di 800.000 anni fa. Queste analisi dimostrano che più anidride carbonica c’è nell’atmosfera, più alte saranno le temperature medie sulla superficie terrestre. Dimostrano inoltre che, negli ultimi 800.000 anni, non c’è mai stata tanta anidride carbonica nell’atmosfera quanta ce n’è adesso.
I climatologi si concentrano sull’anidride carbonica non perché gli altri gas serra non abbiano effetti sul clima o perché le loro concentrazioni non cambino ma perché è sulle concentrazioni di anidride carbonica che gli umani hanno maggiore influenza diretta. Nel caso dell’anidride carbonica, a differenza di quello degli altri gas, è possibile discernere con precisione cosa sia naturale e cosa no perché i livelli di anidride carbonica naturalmente presenti nell’atmosfera sono rimasti largamente stabili negli ultimi 12.000 anni (durante tutto l’Olocene, la nostra epoca geologica d’appartenenza) grazie al lavoro di assorbimento fatto da foreste, oceani e rocce. La situazione è cambiata solo quando gli umani hanno cominciato a estrarre combustibili fossili dal sottosuolo e a convertirli in energia che desse linfa a modelli industriali di produzione e consumo.
Dal 1800 in poi le concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera sono cresciute progressivamente e molto significativamente. All’alba della Rivoluzione industriale si era stabili a 280 parti per milione (ovvero 280 molecole di anidride carbonica per ogni milione di molecole d’aria), ma l’invenzione della macchina a vapore rivelò al mondo l’immenso potenziale energetico contenuto nel carbone, nel petrolio e in alcuni gas naturali, dando il via a un massiccio pompaggio di anidride carbonica nell’atmosfera, dovuto alle emissioni prodotte durante la combustione di tali materie prime. La concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è conseguentemente aumentata, da circa 280 parti per milione nel 1800 a 398 parti per milione nel 2015.
Questo è certamente il livello più alto raggiunto negli ultimi 800.000 anni e l’incremento continua a una velocità di due parti per milione ogni anno. Sulla base di misurazioni dal 1800 in poi, sappiamo che l’aumentata concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera ha già causato un innalzamento medio della temperatura della superficie terrestre di 0,8 gradi centigradi. Sappiamo inoltre che negli ultimi cinquant’anni la temperatura si è alzata due volte più velocemente di quanto non abbia fatto nel cinquantennio precedente.
Prima della Rivoluzione industriale, vari processi naturali rilasciavano nell’atmosfera più o meno 700 miliardi di tonnellate di anidride carbonica l’anno. Quell’anidride carbonica veniva gestita in tempo reale da processi naturali di segno opposto: veniva assorbita dalle piante e dagli oceani e si sedimentava nelle rocce. Questo, insieme ad altri fattori, garantiva generale stabilità climatica. L’uso di combustibili fossili ha però aggiunto 30-40 miliardi di tonnellate di anidride carbonica l’anno, pari a uno scarso 5% d’incremento. Il problema è che quel 5% sfugge alle capacità di sequestro dei processi naturali e resta dunque nell’atmosfera. Più anidride carbonica si accumula nell’atmosfera, più tempo ci vorrà perché i processi naturali la eliminino. Se anche smettessimo di emettere oggi ci vorrebbero millenni per rimuovere l’anidride carbonica accumulatasi nell’atmosfera negli ultimi 200 anni. Ciò è aggravato dal fatto che abbattendo foreste restringiamo ulteriormente le capacità d’assorbimento della natura.
Per queste ragioni i climatologi sostengono che l’aumento di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera ci abbia già condannato a un aumento della temperatura pari ad almeno il doppio di quella che abbiamo osservato sinora, ovvero di circa 1,5 gradi centigradi rispetto al 1800. Questo succederà anche se cessassimo ogni emissione oggi, il che ovviamente non è un’opzione realistica: al contrario, le emissioni stanno aumentando. La temperatura globale media si innalzerà pertanto certamente più di 1,5 gradi sopra i livelli di riferimento.
L’uso industriale di carbone, petrolio e gas come fonti di energia dà conto di larga parte dell’aumento di gas serra nell’atmosfera degli ultimi 200 anni. La parte restante è invece dovuta a deforestazione, agricoltura e produzione di cemento. La deforestazione causa emissioni di anidride carbonica, metano e protossido di azoto, provenienti dalle carcasse di alberi e piante lasciate a decomporsi. I campi agricoli contengono grandi quantità di anidride carbonica nella forma di materia organica varia, che vengono liberate nell’atmosfera quando i campi vengono rivoltati dagli aratri. La produzione e l’uso di fertilizzanti e pesticidi rilascia nell’atmosfera protossido di azoto, laddove le coltivazioni di riso e i rigetti gastrici degli animali d’allevamento rilasciano metano. La produzione di cemento rilascia anidride carbonica. Le esalazioni delle discariche rilasciano metano.
Tutte queste attività si sono intensificate negli ultimi 200 anni e in modo particolarmente marcato dal 1950 in poi. I modelli climatici non riuscirebbero a spiegare l’innalzamento medio delle temperature terrestri oggi osservabile se non includessero questi fattori antropici. Ciò non significa che il clima non cambi anche naturalmente: lo ha fatto per circa quattro miliardi di anni a causa della quantità di energia emessa dal sole, delle oscillazioni dell’orbita terrestre, di variazioni nell’inclinazione del suo asse, d’impatti di asteroidi, di grandi eruzioni vulcaniche, o di mutamenti nelle coperture di ghiaccio e nelle correnti oceaniche. Significa però che il clima non sarebbe cambiato così tanto e così in fretta se noi umani non ci avessimo messo più d’uno zampino. Per questo si definisce “antropogenico” il cambiamento climatico che sta avendo luogo da circa 200 anni a questa parte.
Il quadro fornito sinora è però ingannevolmente lineare. Quando si alzano le temperature sistemi naturali di ogni tipo possono reagire in vari modi, innescando una serie di ritorni – o feedback – che possono rinforzare (feedback positivi) come alleviare (feedback negativi) l’aumento delle temperature. Ad esempio, gli oceani potrebbero divenire soggetti a gradi maggiori di evaporazione, aggiungendo vapore acqueo nell’atmosfera il quale, essendo un gas serra, catturerà e tratterrà ancora più calore. Questo è un feedback positivo. Un altro potrebbe essere innescato dallo scioglimento dei ghiacci terrestri: questi riflettono i raggi solari indietro nello spazio, ma la terra scura sottostante non ha queste proprietà riflettenti e dunque attirerà più calore. Un terzo feedback positivo, molto potente, ha a che fare con il possibile scioglimento del permafrost – ovvero la terra permanentemente ghiacciata di aree quali l’Alaska, la Siberia, il Canada e l’Antartide. Allo sciogliersi del permafrost il materiale organico che vi è stato seppellito sotto per millenni inizierà a marcire, rilasciando anidride carbonica nell’atmosfera. Se il permafrost copriva zone un tempo paludose, come è nella maggior parte dei casi, vi saranno anche massicci rilasci di metano.
Questi sono tutti feedback positivi, ma potrebbero essercene anche di negativi. Ad esempio, un inaridimento di più ampie sezioni della superficie terrestre potrebbe, se accompagnato da venti abbastanza forti, causare la dispersione nell’aria di notevoli quantità di polveri. Alcuni tipi di polveri potrebbero oscurare parzialmente la luce solare, con effetto raffreddante. Lo stesso effetto può averlo la dispersione di aerosol, particelle pompate nell’atmosfera proprio dall’uso di combustibili fossili. Altri feedback ancora potrebbero essere sia positivi che negativi: l’accumulo di vapore acqueo che potrebbe seguire a evaporazioni di oceani e laghi, cui ho già accennato, potrebbe infatti formare nuvole che da un lato tratterrebbero maggior calore, ma dall’altro rifletterebbero via la luce del sole.
L’implicazione è chiara: non sappiamo esattamente di quanto l’aumentare delle concentrazioni atmosferiche di anidride carbonica e altri gas serra alzerà le temperature. Possiamo operare simulazioni da laboratorio, ma nel mondo reale saranno coinvolti numerosi processi naturali contemporaneamente e a diversi livelli (fisici, chimici, biologici), e ognuno di questi processi è ancora solo parzialmente compreso dalla scienza anche preso singolarmente. Le nostre previsioni sono dunque solo probabilistiche: per quello che ne sappiamo, un raddoppiamento delle concentrazioni di anidride carbonica rispetto ai livelli pre-industriali (ovvero 550 parti per milione – i trend attuali, se non corretti, porterebbero oltre le 450 parti per milione intorno al 2050) potrebbe causare un aumento delle temperature medie terrestri tra 1,5 e 4,5 gradi centigradi, o anche di 6 negli scenari più pessimistici.
A infittire le zone d’ombra si aggiunge il fatto che le temperature non si alzeranno in modo lineare nel tempo né in modo uniforme nello spazio (da cui la continua precisazione che si tratta di aumenti delle temperature globali “medie”). Alcune aree potrebbero riscaldarsi velocemente, altre più lentamente e ovunque potrebbe esserci più caldo o più freddo in alcune stagioni piuttosto che in altre. Sembra probabile che possa piovere di più durante l’arco dell’anno in Canada, Russia e in altre aree solitamente esposte più a nevicate che a precipitazioni. Potrebbe invece smettere di piovere d’inverno negli Stati Uniti occidentali, il che trasformerebbe quell’area in un deserto permanente. La stessa cosa potrebbe succedere nel bacino del Mediterraneo e in Australia. Il Polo Nord e il Polo Sud si riscalderanno più velocemente del resto del pianeta, causando un innalzamento globale delle acque. Il tutto ulteriormente complicato, in modi non chiari, da possibili macro-variazioni nelle dinamiche dei venti e delle correnti oceaniche.
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1.2 Fatti e previsioni
Fatti e previsioni si intrecciano in modo contorto nel caso del clima. Ecco intanto una carrellata di fatti. Primo: come detto, l’atmosfera contiene oggi concentrazioni di anidride carbonica record (398 parti per milione nel 2015), mai osservate negli ultimi 800.000 anni. Secondo: la temperatura globale si è innalzata, in media, di 0,8 gradi centigradi dall’inizio della Rivoluzione industriale ed è certamente destinata a salire di oltre 1,5 gradi. Terzo: le acque dei mari si sono innalzate, in media, di 25 centimetri – a seguito non solo dello scioglimento dei ghiacci ma anche dell’espansione delle acque stesse, causata dall’aumentato calore atmosferico. Quarto: i ghiacciai montani hanno preso a sciogliersi e perdere massa su base regolare; così, come detto, hanno preso a fare i Poli, particolarmente e più velocemente il Polo Nord. Quinto: la stagione di crescita delle piante, su diversi continenti, si è allungata in media di un paio di settimane. Sesto: numerose specie animali hanno alterato la loro distribuzione spaziale e i loro cicli riproduttivi e migratori a seguito di mutate dinamiche stagionali.
Inizia qui la nebulosa transizione da fatti a previsioni. Si prevede che il cambiamento climatico causerà una più alta frequenza di eventi meteorologici estremi. L’ondata di calore che investì l’Europa nel 2003 e quella che investì Europa, Russia, Stati Uniti e Cina nel 2010, provocando decine di migliaia di morti; o l’uragano Katrina e l’uragano Sandy, che hanno sfigurato New Orleans e sfregiato New York; o l’inondazione del Pakistan nel 2010; o ancora gli incendi che hanno con puntualità bruciato l’Australia nelle ultime estati – sono esattamente questi i tipi di eventi meteorologici che i climatologi si aspetterebbero dover seguire a innalzamenti significativi delle temperature. È però impossibile provare che tali eventi locali siano effettivamente causati dall’innalzamento delle temperature globali: data la complessità dei processi coinvolti non si ritrovano catene causali lineari e dunque possiamo dire, al massimo, che il riscaldamento dell’atmosfera abbia reso questi eventi più probabili – ma non possiamo essere del tutto certi che questi eventi non avrebbero avuto luogo egualmente anche senza di esso.
Anche di quanto esattamente le temperature s’innalzeranno è, come detto, impossibile da prevedere non fosse altro perché una parte cospicua degli innalzamenti dipenderà dalla quantità di gas serra che gli umani pomperanno nell’atmosfera nel breve e nel lungo termine, e questo a sua volta dipenderà da un numero imprecisato di fattori tecnologici, sociali, economici e politici, risultato di miriadi di comportamenti individuali, aziendali, legislativi ed esecutivi. I modelli climatici tentano di dar conto di tutte queste variabili facendo vari assunti su ognuno dei fattori menzionati e producendo così un novero di scenari verosimili – sempre più verosimili all’incrementare dei dati già in possesso e all’affinarsi delle tecnologie che li computano. I modelli indicano con insistenza alcune previsioni salienti.
Primo: i livelli del mare potrebbero alzarsi ulteriormente e significativamente. A seconda di quanto aumenteranno le temperature, i livelli del mare potrebbero ancora alzarsi di 60 centimetri o anche di due o più metri. Questo significherebbe giganteschi, in alcuni casi insormontabili problemi per città costiere come Amsterdam, New York, Hong Kong, Cape Town, Lima e Sidney.
Secondo: potrebbe esserci meno acqua, e la siccità potrebbe interessare aree più ampie del mondo e per periodi più prolungati. Una ragione è che non pioverà, o pioverà molto meno, in aree dove oggi si registrano ancora notevoli regimi di precipitazioni; un’altra è che più caldo fa, più velocemente l’umidità evapora dal suolo. Il sud-ovest degli Stati Uniti, il bacino del Mediterraneo e l’Africa subsahariana soffriranno molto probabilmente di entrambi i fenomeni, in modo più o meno marcato a seconda di come andrà un numero imprecisato di altri processi naturali. Altre aree della terra potrebbero invece cominciare a ricevere pioggia piuttosto che neve, il che è egualmente problematico perché la pioggia scorre via e si perde, laddove la neve diventa ghiaccio e va a costituire riserve d’acqua stagionali – ghiacciai temporanei destinati a sciogliersi nei mesi più caldi. Più o meno un sesto della popolazione mondiale utilizza acqua proveniente da queste riserve e andrebbe dunque in grave difficoltà se esse si assottigliassero. Temperature più calde potrebbero anche anticipare lo scioglimento stagionale dei ghiacciai – così che molta acqua diverrebbe disponibile in primavera ma non se ne troverebbe più in estate, ovvero quando la richiesta è maggiore.
Terzo: potrebbe esserci meno cibo. Ci sono oggi oltre sette miliardi di persone al mondo, ognuna delle quali deve mangiare per sopravvivere. L’attuale produzione di cibo (che tra l’altro utilizza – in modo spesso altamente inefficiente – circa il 70% dell’acqua consumata a livello globale) sarebbe più che sufficiente per tutti, ma meccanismi di mercato hanno l’effetto ultimo di condannare oltre un miliardo di persone a morire di fame mentre mezzo miliardo si preoccupa di perdere peso. Nel 2050, il pianeta ospiterà non più sette ma nove miliardi di persone: in linea di principio, si potrebbe ancora riuscire a produrre abbastanza cibo da sfamare tutti, ma se tutti saranno poi effettivamente sfamati o meno dipenderà da quali regimi di distribuzione saranno adottati, da che cibo la gente vorrà consumare e anche da quanta terra sarà sottratta alla produzione alimentare per esser devoluta alla produzione di biocarburanti come l’etanolo, il che a sua volta dipenderà dai prezzi del petrolio. Dunque incerti fenomeni di natura sociale, economica, tecnologica, politica e culturale complicano le previsioni riguardo la generale disponibilità di cibo nel medio e lungo termine. L’innalzamento delle temperature aggraverà queste incertezze: eventi meteorologi estremi potrebbero distruggere i raccolti, aumentati gradi di evaporazione potrebbero causare siccità, alterate dinamiche stagionali potrebbero velocizzare i processi di maturazione complicandone la gestione sia agricola che commerciale. Tutto questo sarà più marcato quanto più ci si approssimerà all’Equatore, rendendo l’agricoltura dei paesi interessati poco competitiva sui mercati globali e dunque fiaccando gli investimenti interni ed esteri. Purtroppo, in quelle aree si annida già buona parte della povertà, della fame e della malnutrizione mondiale.
Quarto: moltissime specie animali e vegetali potrebbero scomparire. Il cambiamento climatico potrebbe, in altre parole, diminuire la biodiversità della Terra. A oggi, sono state catalogate circa 1,5 milioni di specie. Ne esistono molte di più: le stime vanno dai 3 ai 30 milioni. Si calcola che circa 700.000 specie si siano estinte negli ultimi 200 anni, soprattutto perché i loro habitat sono stati alterati o compromessi da attività umane: ma è molto probabile che questa sia solo una piccola parte del numero effettivo. L’innalzamento delle temperature sta già accelerando questo processo e potrebbe accelerarlo parecchio di più in futuro. Alcune specie si sono evolute per sopravvivere in condizioni climatiche molto varie, ma altre non sono così versatili e all’aumentare delle temperature tenteranno di spostarsi verso più alte latitudini o verso maggiori altitudini. Il problema è che in alcuni casi troveranno il passaggio bloccato da insediamenti o attività umane, come città e autostrade, mentre in altri semplicemente non avranno dove andare, come nel caso di specie che vivono già in montagna o vicino ai Poli. Un altro problema, più generale, è che i processi di adattamento delle specie hanno i loro tempi e l’innalzamento delle temperature, se proseguisse ai ritmi attuali, richiederebbe una velocizzazione di tali processi biologicamente e/o logisticamente impossibile per molte delle specie attualmente esistenti. Non possiamo dire esattamente ...

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