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Breve storia di Firenze
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Nella Breve Storia di Firenze è racchiusa una città nata nel cuore di una regione unica: stiamo parlando della Toscana e di Firenze. Capitale dell'arte e della cultura, Firenze fu anche capitale d'Italia, patria di grandi condottieri, di papi, di famiglie potenti che si fronteggiarono per il controllo di territori immensi. Per conoscere meglio Firenze e scoprirne tutti segreti questo volume realizzato da Franco Cardini, fiorentino "doc" e affermato storico, è davvero uno strumento indispensabile.
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Information
Dal regno dâItalia a oggi
Il tramonto della monarchia granducale asburgo-lorenese, in realtĂ giĂ da tempo preparato, era stato breve e solo superficialmente drammatico. Il granduca Leopoldo, allo scoppio delle ostilitĂ tra lâAustria e le lega franco-piemontese, si era rifiutato di scendere in campo al fianco della seconda, pur consentendo a chi dei suoi sudditi lo avesse voluto di partir volontario. Ma ormai si era giĂ avviata una âcospirazioneâ â della quale in realtĂ tutti ben sapevano, a cominciare dalla polizia granducale â, centro della quale era il palazzo del marchese Ferdinando Bartolommei. Ne facevano parte i liberali moderati che in realtĂ avevano cercato fino allâultimo di convincere il sovrano ad accettare la guerra allâAustria, i membri della âSocietĂ Nazionaleâ esplicito programma della quale era lâannessione del granducato al regno di Piemonte e i democratici a capo dei quali era il mazziniano Giuseppe Dolfi. Alla fine dellâaprile del 1859 il granduca ebbe le prove evidenti che nemmeno lâesercito gli obbediva piĂš: alla sera del 26 i soldati si unirono alla manifestazione popolare che percorse le vie cittadine, e non mancarono le ingiurie al comandante delle truppe, il generale Ferrari. Si cercò in extremis di negoziare una soluzione, che però era durissima: il granduca avrebbe dovuto non solo ripristinare il regime costituzionale a partecipare alla guerra, ma anche abdicare in favore del figlio. I moderati lo avevano quasi convinto, quando le carte in tavola vennero cambiate di nuovo: egli si rese allora conto che non câera altra via che lâesilio. UscĂŹ dalla cittĂ difatti il 27 aprile, peraltro piuttosto ottimista sul fatto che la vittoria delle armi austriache o un accordo con Napoleone III gli avrebbero restituito di lĂŹ a poco il trono. Sarebbe invece morto esule a Roma undici anni piĂš tardi, ospite del pontefice che non aveva mai riconosciuto il nuovo governo toscano.
Con lâaccorta, energica e in qualche momento perfino perentoria regia di Bettino Ricasoli, le soluzioni indipendentistiche furono rapidamente scartate: la borghesia toscana e i ceti dirigenti temevano, a torto o a ragione, possibili âfughe in avantiâ dei democratici e dei repubblicani, e i partigiani della monarchia sabauda seppero abilmente sfruttare queste paure. Superando i malumori di Napoleone III e le obiettive difficoltĂ diplomatiche internazionali, si proclamò prima il protettorato del re di Sardegna sulla Toscana, quindi si passò a una reggenza del principe Eugenio di Carignano e alla fine, con un plebiscito, si decretò lâunione al Piemonte mentre una serie di leggi approvate a ritmo galoppante poneva la Toscana in grado di accedere a tale unione adeguandovi sistemi istituzionali, magistratura, forze armate, moneta, pesi, misure. Per fiancheggiare gli arditi propositi di Bettino Ricasoli era nato il 14 luglio del 1859 un giornale quotidiano fiorentino, âLa Nazioneâ, destinato a divenire per eccellenza il giornale di Firenze.
Qualcuno sperò che quella fosse la volta buona per fondare a Firenze anche unâUniversitĂ : ma giĂ due illustri Atenei erano presenti in Toscana, a Pisa e a Siena, il che obbligò la capitale ad accontentarsi di un Istituto di Studi Superiori e di Perfezionamento; intanto però si fondavano lâIstituto Agrario delle Cascine, lâIstituto Musicale, la Scuola di Declamazione, lâAccademia di Belle Arti, il Museo delle AntichitĂ nel palazzo del Bargello.
Il plebiscito era stato tenuto tra lâ11 e il 12 marzo del 1860; dieci giorni dopo Bettino Ricasoli presentava i risultati, a Torino, al re di Piemonte; il 16 aprile Vittorio Emanuele II faceva il suo ingresso trionfale in Firenze. Lâanno successivo Massimo dâAzeglio avanzò per primo, provocando scandalo a Torino e in tutto il Piemonte, lâesplicita tesi che a Firenze piĂš che a qualunque altra cittĂ spettasse di diritto il ruolo di capitale di quel regno dâItalia che âper grazia di Dio e volontĂ della Nazioneâ era stato proclamato il 17 marzo, dopo che lâannessione del regno delle Due Sicilie era stata sancita dalla cessazione della resistenza borbonica a Gaeta e a Messina.
Lâargomentazione del DâAzeglio non mancava nĂŠ di fascino, nĂŠ di ragioni culturali e pratiche. Ormai, dopo il trionfo decretato a I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, la âquestione della lingua italianaâ che durava da circa mezzo millennio poteva dirsi definitivamente chiusa: il âveroâ italiano era quello dei fiorentini colti, ed esso rappresentava ormai quella lingua nazionale senza la quale, come senza la sovranitĂ e la continuitĂ territoriale, una nazione non poteva dirsi tale. La fama dellâarte e della cultura fiorentina specie nei âsecoli dâoroâ tra Medioevo e Rinascimento stava frattanto affermandosi irreversibilmente non solo in Italia, ma anche e soprattutto allâestero. Trasferire la capitale a Firenze sarebbe stato quanto mai opportuno in quanto avrebbe consentito un allentamento della pressione politica e diplomatica che pesava sulla nuova Italia. In effetti le potenze europee, e soprattutto quella che da circa un decennio era la vera protettrice e garante del regno sabaudo di fronte alle altre potenze, la Francia del Secondo Impero, non avevano affatto mostrato di apprezzare la politica di successivi colpi di mano plebiscitari e di continui âfatti compiutiâ che aveva condotto alla proclamazione dâun regno unitario dâItalia. Rimaneva lo Stato della Chiesa, la presenza del quale interrompeva la continuitĂ territoriale della nuova compagine statale: nel settembre del 1860, mentre Giuseppe Garibaldi proclamava apertamente di voler marciare su Roma, il conte di Cavour era riuscito a persuadere Napoleone III che solo a patto di ridurre i territori politicamente controllati dal pontefice al solo Lazio, dotando quindi il regno dâItalia di continuitĂ territoriale, il potere temporale della Chiesa avrebbe potuto salvarsi. Tuttavia il 27 marzo del 1861, dopo il celebre discorso cavouriano della âlibera Chiesa in libero Statoâ, la Camera dei Deputati aveva proclamato Roma capitale dâItalia. Era quanto volevano i democratici garibaldini, che speravano di poter forzare la mano al re e alla compagine delle potenze internazionali; ma lo volevano anche i mazziniani, che speravano di procurare con ciò una vera e propria crisi dellâautoritĂ sabauda stretta tra opinione pubblica italiana e volontĂ dellâImperatore dei francesi, che a questo punto era â con quello dâAustria â il massimo garante del mantenimento dello Stato della Chiesa. E a Roma stavano affluendo, insieme con truppe regolari francesi, i volontari âcrociatiâ pronti a far scudo con i loro corpi al pontefice.
La crisi raggiunse lâapice con i fatti dâAspromonte, il 29 agosto del 1862, allorchĂŠ il corpo di spedizione garibaldino â appoggiato sottobanco dal governo Rattazzi â fu bloccato da reparti italiani inviati su perentoria richiesta di Napoleone: Garibaldi venne ferito e imprigionato, ancorchĂŠ la ferita fosse alquanto leggera e lâamnistia arrivasse molto tempestiva. Fu il ministero presieduto dal Minghetti, con i provvedimenti solennemente sanciti il 15 settembre del 1864, a ottenere il ritiro da Roma delle truppe imperiali (ma non dei volontari), in cambio di un formale impegno a non assalire lo Stato della Chiesa. A quel punto il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, presentato ufficialmente come definitivo, era unâostentata garanzia del fatto che il governo italiano aveva rinunziato allâidea di Roma capitale. Democratici e repubblicani reagirono dappertutto con disappunto, quando non con ira; a Torino, la rabbia popolare causata dallâumiliazione di veder declassata la cittĂ esplose in moti di piazza spietatamente repressi dal generale Lamarmora. Ma, in questo modo, il voto in apparenza isolato espresso quattro anni prima dal DâAzeglio si adempiva adesso: ed era chiaro del resto a tutti (sia a quelli che lo auspiacavano, sia a quanti lo temevano) che il passaggio da una capitale allâaltra era in realtĂ un trasloco solo parziale, un avvicinamento a quella che tutti volevano come capitale futura. Il primo sindaco della Firenze annessa al Piemonte fu per regio decreto, nel settembre del 1865, Gugulielmo De Cambray-Digny.
A parte, beninteso, i cattolici irriducibilmente non liberali. E a parte forse, chissĂ , gli stessi fiorentini o buona parte di loro, equamente distribuiti fra ceti dirigenti e strati popolari. Eppure, nel 1861, il fatto che la prima Esposizione Nazionale, presieduta da Cosimo Ridolfi si tenesse proprio in Firenze, nei locali della vecchia stazione di Porta al Prato venne inteso da molti come un gesto al tempo stesso promozionale e simbolico. Fu in quellâoccasione che venne presentata unâinvenzione destinata a far epoca: il motore a scoppio del padre Barsanti.
Per cinque anni dunque, fra 1865 e 1870, la corte e il governo furono insediati in palazzo Pitti, antica reggia granducale; il parlamento e il Ministero degli Affari Esteri trovarono ospitalitĂ nel palazzo della Signoria, quello degli Interni nel vecchio Palazzo Mediceo di Via Larga (ribattezzata Via Cavour), passato alla famiglia Riccardi. Fu allora progettata, per quanto venisse attuata in seguito, quellâautentica rivoluzione urbanistica che trovò il suo motore e la sua anima nellâarchitetto Giuseppe Poggi â il cui progetto di ristrutturazione urbana generale era stato approvato dallâamministrazione comunale il 18 febbraio del 1865 â e che trasformò radicalmente una Firenze la quale era rimasta, sostanzialmente, chiusa nelle sue mura trecentesche che fino ad allora le erano bastate. Il centro storico fu sventrato e ârisanatoâ (anche se tale progetto fu concepito solo nel 1881 e portato a termine solo nel 1893); il perimetro murario urbano abbattuto in gran parte, salvo il segmento sud-orientale che collegava Porta Romana con il Forte del Belvedere di San Giorgio e che del resto delimitava i reali giardini di Boboli; le mura, delle quali furono tuttavia risparmiate le monumentali porte, vennero sostituite con un anello di boulevard sul modello di quelli parigini di Haussmann, collegati fra loro da piazze circolari; nellâarea di sud-est, dove le mura erano state risparmiate, si progettò lâampio e panoramico Viale deâColli, da allora divenuto una delle glorie panoramiche e turistiche cittadine e una sede dâimportanti aristocratiche dimore. Si provvide allora anche a ristrutturare il Lungarno dotandolo di migliori argini, in vista anche di una nuova regolamentazione del corso del fiume che peraltro in effetti non ci fu: lâalluvione del 3-4 novembre del 1864 era stata disastrosa, ma i problemi relativi non furono risolti. Tanto che, esattamente centodue anni dopo, ci si trovò alle solite.
Il lustro di Firenze capitale parve racchiuso, come in una luminosa parentesi, da due grandi celebrazioni patriottiche e culturali: nel 1865 la celebrazione del sesto centenario della nascita di Dante Alighieri con lâinaugurazione, in Santa Croce, del cenotafio del poeta; e, alla vigilia del trasferimento del governo e del Parlamento a Roma, la traslazione delle ceneri di Ugo Foscolo in quella stessa chiesa, châegli nel carme de I Sepolcri aveva consacrato âtempio⌠delle itale glorieâ. Ora lâItalia aveva davvero il suo Pantheon, come quello che il suo modello in quanto capitale possedeva alto sulla collina di Sainte GenĂŠviève. Frattanto, però, il Secondo Impero era caduto e con esso il monarca che per un decennio aveva impedito allâItalia di coronare la sua unitĂ con la liberazione di quella che la stragrande maggioranza degli appartenenti al ceto dirigente giudicava la sua ânaturaleâ capitale. Va da sĂŠ che tale giudizio non era per nulla ovvio e obiettivo: esso discendeva in effetti da un forte pregiudizio laicista e anticattolico, sostenuto soprattutto dalle logge massoniche: la Roma cui ci si riferiva come capitale dâItalia, quindi come modello culturale e spirituale, era quella pagana. La âTerza Romaâ, che molti retoricamente auspicavano, avrebbe dovuto essere per alcuni la cittĂ dei grandi ideali di libertĂ e di uguaglianza, per altri il caput mundi modello ed auspicio per âuna piĂš grande Italiaâ che aveva il diritto di far ingresso nel concerto delle grandi potenze europee magari a sua volta dotandosi di una potenza finanziaria e industriale della quale ancora non disponeva, di un esercito adeguato e dei relativi possedimenti coloniali senza i quali non si aveva accesso alla cerchia ristretta dai paesi che davvero contavano.
Non si è mai davvero capito quindi, e forse non sapremo mai, con quale animo i fiorentini accettassero, nel 1870, il solenne indirizzo dâomaggio che la camera dei Deputati dâItalia dedicò a Firenze, grata âper la liberalitĂ e il patriottismo con cui aveva adempiuto allâalto ufficioâ. La cittĂ , proclamata âbenemerita della nazioneâ, faceva davvero buon viso a cattivo gioco, dato che la partenza del re, del governo e del parlamento le sottraevano in effetti prestigio e risorse? O si aspettava invece di poter comunque mettere a frutto la modernizzazione e lâimpulso economico, infrastrutturale e culturale che quel lustro le aveva procurato traendo vantaggio anche dal sollievo dâuna serie di oneri e di pastoie che la funzione di capitale fatalmente comportava? Comunque, se al censimento nazionale del 1861 i fiorentini erano 114.500, nel 1870 erano giĂ diventati 194.000. Lo sviluppo urbanistico e lâampliamento demografico non erano stati uno scherzo: Ubaldino Peruzzi, popolarissimo sindaco tra 1868 e 1878, accumulò per ammodernare la cittĂ un debito enorme: il deficit nel 1878 era di cento milioni di lire, e nel marzo del 1878 il Comune dichiarò fallimento.
Certo è che la Firenze dellâItalietta godette, tra ultimo trentennio del XIX secolo e primi anni del successivo, di una sorta di nuova primavera, ravvivata da una vitalitĂ economica, imprenditoriale e produttiva come non si era mai visto prima e da unâinventiva e unâoriginalitĂ intellettuale che ne fecero la piĂš vicina forse, fra le cittĂ italiane, alla gaia e tumultuosa Parigi della Belle Epoque.
Soprattutto dal punto di vista culturale. Alle riviste piĂš propriamente scientifiche o di alta cultura, come lââArchivio Storico Italianoâ e lââAntologiaâ, si erano andate affiancando ai primi del Novecento, lâuna dietro lâaltra, quelle della cultura militante, attorno alla quale si scatenavano feroci polemiche e talvolta perfino qualche scazzottata: âIl Leonardoâ (1903), âLa Voceâ (1909), âLacerbaâ (1913), piĂš tardi, âIl Selvaggioâ (1924), âSolariaâ (1925), âIl Frontespizioâ (1925). Dopo i âmacchiaioliâ, divenuto ai primi degli anni Sessanta il nome di battaglia di un agguerrito gruppo di giovani artisti, fu la volta dei âfuturistiâ impegnati alla vigilia del primo conflitto mondiale in risse e in bevute. Singolare fu che quel gruppo, che era nato per âuccidere il chiaro di lunaâ, si riconvertisse negli anni Trenta, auspice anche il nuovo clima estetico-politico, nel culto âdelle colonneâ e âdegli archiâ. Anche le case editrici fiorentine erano molte, raffinate, agguerrite: dopo i venerabili modelli ottocenteschi di Bemporad, di Barbera, di Vieusseux, di Le Monnier, di Giunti, si svilupparono i Nerbini, i Salani, i Vallecchi, la Libreria Editrice Fiorentina, gli Olschki, quindi i Sansoni e la Nuova Italia; sarebbero poi arrivati i Nardini, i Bonechi, la Scala, la Edifir.
Dâaltronde, non è che la buona borghesia fiorentina si lasciasse attrarre piĂš di tanto dal fermento intellettuale di tutti quei ragazzacci o dal coraggio imprenditoriale di librai che si trasformavano in editore: la gente continuava a preferire i cafè-chantants, dove si avvicendavano chansonniers e chanteuses (âsciantoseâ, si diceva alla napoletana). Uno per tutti: Odoardo Spadaro. Furoreggiavano anche le operette, alcuni degli autori piĂš noti delle quali erano appunto fiorentini. E la gente del âpopoloâ, i ceti subalterni ancora attaccati alle cerimonie religiose ma in parte ormai legati alle attivitĂ ricreatrici e culturali dei partiti della sinistra democratica, continuava a preferire le Fiere della Rificolona e dellâImpruneta e i balli in piazza con le orchestre âpippolesiâ.
Sotto il profilo urbanistico, la Firenze tardottocentesca - primonovecentesca si presentava con un aspetto ormai decisamente nuovo rispetto alla cittĂ i connotati della quale erano stati delineati nel XIV secolo e che da allora, pur arricchitasi di molti e bellissimi monumenti e di splendide opere dâarte, poco era cambiata. Le mura non esistevano piĂš; i viali delimitavano ormai nuove realtĂ abitative, nuovi modi dâintendere la qualitĂ della vita; gli âsventramentiâ del centro storico e la costruzione dei Lungarni avevano non solo profondamente modificato equilibri abitativi e prospettive panoramiche, ma anche mutato la struttura sociale della popolazione con i relativi equilibri. Le piccolissime borghesie artigiane e bottegaie e il proletariato dei salariati, dei manovali e dei disoccupati erano stati espulsi dallâarea centrale e dispersi nelle periferie a est e a ovest, lungo lâArno, mentre lo sviluppo urbano a nord e a sud, a ridosso dei due sistemi collinari paralleli al fiume, si era presto saturato ed era stato adibito prevalentemente ad aree residenziali. La cittĂ si presentava ormai come abitata principalmente da grandi, medi e piccoli proprietari fondiari, da commercianti, da artigiani. Poco sviluppata vi era lâindustria, a parte alcuni circoscritti ma qualificanti casi come la Richard-Ginori a Rifredi o le Fonderie del Pignone nellâarea sudoccidentale della cittĂ dove, a ridosso del popolare quartiere di San Frediano e fuori le mura lĂ in parte conservate o restaurate, si era andato costituendo un agglomerato di residenze operaie. I ripetuti moti e sciopero, fra 1891 e 1898, che avevano condotto fino alla proclamazione dello stato dâassedio, consigliavano uno smistamento dei ceti subalterni. LâIstituto Autonomo Case Popolari, fondato nel 1909, provvide a realizzare numerosi blocchi abitativi periferici. Il Piano Regolatore del 1915, che dal â18 avviò la sistemazione dellâarea industriale di Rifredi, cominciò a mostrare qualche frutto solo verso il â24.
Ma tra il â19 e il â25 la ribollente Firenze operaia, prevalentemente socialista e anarchica â quella del Metello e di Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini â aveva fatto sentir forte la sua voce, resa piĂš rabbiosa e drammatica dopo la tragedia della prima guerra mondiale, con tutte le sue promesse di benessere e di riforme agrarie e sociali non mantenute. E durissima era stata anche la repressione squadristica, del resto in parte espressione dâun fascismo a sua volta radicale, uscito in gran parte dalle trincee del conflitto, fatto a sua volta in larga misura di ex-socialisti e di ex-anarchici. Dopo la ânormalizzazioneâ, dal â25 in poi, il regime procurò a stabilire sulla cittĂ un severo controllo teso non solo a reprimere le tentazioni âsovversiveâ, ma anche a contenere e ad eliminare o a riassorbire le fronde fasciste. A parte i ristretti centri dâeccellenza industriale â Richiard-Ginori, Pignone, Galileo â le linee sociali dello sviluppo cittadino vennero autoritariamente definite nelle tre direzioni complementari del commercio, dellâartigianato e del turismo.
GiĂ alla fine dellâOttocento era stato fondato in Via Serragli, a pochi passi dal glorioso teatro Goldoni, il collegio-convitto degli âArtigianelliâ, dove tanti ragazzi poveri e senza famiglia venivano nutriti, educati e avviati a un âmestiereâ artigiano.
La forte e profonda riqualificazione del lavoro artigiano fiorentino, accompagnata da una ridefinizione profonda negli oggetti, nei metodi, nelle funzioni, fu tuttavia piĂš tardi quella imposta dai registi politici e urbanistici della âgrande Firenzeâ degli anni Trenta. Fu allora che sâinventò â auspice la torrenziale attivitĂ di Alessandro Pavolini, segretario federale del Partito Nazionale Fascista della provincia di Firenze tra 1929 e 1934 â, la Firenze della cultura, dei âmaggi musicaliâ, del commercio legato strettamente allâartigianato, alle scuole di apprendistato e al turismo.
Fu Pavolini a ideare e a sostenere la tesi di una vera e propria âindustria turisticaâ che avrebbe dovuto avere Firenze come suo centro propulsore. Attorno a tale idea, che faceva del capoluogo toscano il âsalotto buonoâ delle attivitĂ culturali âdi regimeâ sĂŹ, ma intelligentemente e spregiudicatamente aperte, non solo si creò un artigianato fiorentino di tipo nuovo, ma addirittura sâinventarono una tradizione artigiana e un vero e proprio âstile fiorentinoâ, che si ritrova ancor oggi in certi oggetti dâargento e di pelle, in certe carte stampate, in certi mobili e in certe stoffe.
Era uno stile dichiaratamente ispirato alla gloriosa Firenze medievale e artigianale, ma ripensato attraverso la ridefinizione romantica e non senza unâattenzione molto forte al âmedioevo reinventatoâ dal cinema dellâepoca (La cena delle beffe, La corona di ferro e cosĂŹ via). Esso aveva un duplice scopo: creare uno stile con forti ancorchĂŠ largamente falsificate valenze identitarie e affidare alla cittĂ un messaggio che, attraverso il turismo, sarebbe diventato una sua âcifraâ, una sua griffe nel mondo. Allâincrocio tra commercio, artigianato e turismo, la moda stava divenendo unâaltra fra le grandi attrazioni fiorentine.
Definita nel 1931 âstazione turistica internazionaleâ con unâapposita legge e fatta oggetto nel 1934 dâun Piano Regolatore, che resta il piĂš recente e sistematico esperimento in materia, la cittĂ fu energicamente ripensata entro un quadro urbanistico rigoroso, che la collocava tra le ardite modernissime architetture della nuova stazione di Santa Maria Novella di Giovanni Michelucci costruita febbrilmente tra continue polemiche negli anni â33-â35 (mentre si apriva la âdirettissima ferroviariaâ Firenze-Bologn...
Table of contents
- Copertina
- Frontespizio
- Copyright
- Introduzione
- Un fiume, un ponte, una strada
- Patroni celesti, protettori terreni, cinte murarie
- Una cittĂ di guerrieri e di mercanti
- Lâapogeo
- Crisi e ridefinizione dâuna âcittĂ borgheseâ
- Una cittĂ per un principe
- Figli di Giove e della pioggia dâoro
- LâetĂ lorenese
- Dal regno dâItalia a oggi