Breve storia di Firenze
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Breve storia di Firenze

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Nella Breve Storia di Firenze è racchiusa una città nata nel cuore di una regione unica: stiamo parlando della Toscana e di Firenze. Capitale dell'arte e della cultura, Firenze fu anche capitale d'Italia, patria di grandi condottieri, di papi, di famiglie potenti che si fronteggiarono per il controllo di territori immensi. Per conoscere meglio Firenze e scoprirne tutti segreti questo volume realizzato da Franco Cardini, fiorentino "doc" e affermato storico, è davvero uno strumento indispensabile.

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Information

Year
2012
Print ISBN
9788877818904
eBook ISBN
9788863150742
Topic
Storia

Dal regno d’Italia a oggi

Il tramonto della monarchia granducale asburgo-lorenese, in realtà già da tempo preparato, era stato breve e solo superficialmente drammatico. Il granduca Leopoldo, allo scoppio delle ostilità tra l’Austria e le lega franco-piemontese, si era rifiutato di scendere in campo al fianco della seconda, pur consentendo a chi dei suoi sudditi lo avesse voluto di partir volontario. Ma ormai si era già avviata una “cospirazione” – della quale in realtà tutti ben sapevano, a cominciare dalla polizia granducale –, centro della quale era il palazzo del marchese Ferdinando Bartolommei. Ne facevano parte i liberali moderati che in realtà avevano cercato fino all’ultimo di convincere il sovrano ad accettare la guerra all’Austria, i membri della “Società Nazionale” esplicito programma della quale era l’annessione del granducato al regno di Piemonte e i democratici a capo dei quali era il mazziniano Giuseppe Dolfi. Alla fine dell’aprile del 1859 il granduca ebbe le prove evidenti che nemmeno l’esercito gli obbediva più: alla sera del 26 i soldati si unirono alla manifestazione popolare che percorse le vie cittadine, e non mancarono le ingiurie al comandante delle truppe, il generale Ferrari. Si cercò in extremis di negoziare una soluzione, che però era durissima: il granduca avrebbe dovuto non solo ripristinare il regime costituzionale a partecipare alla guerra, ma anche abdicare in favore del figlio. I moderati lo avevano quasi convinto, quando le carte in tavola vennero cambiate di nuovo: egli si rese allora conto che non c’era altra via che l’esilio. Uscì dalla città difatti il 27 aprile, peraltro piuttosto ottimista sul fatto che la vittoria delle armi austriache o un accordo con Napoleone III gli avrebbero restituito di lì a poco il trono. Sarebbe invece morto esule a Roma undici anni più tardi, ospite del pontefice che non aveva mai riconosciuto il nuovo governo toscano.
Con l’accorta, energica e in qualche momento perfino perentoria regia di Bettino Ricasoli, le soluzioni indipendentistiche furono rapidamente scartate: la borghesia toscana e i ceti dirigenti temevano, a torto o a ragione, possibili “fughe in avanti” dei democratici e dei repubblicani, e i partigiani della monarchia sabauda seppero abilmente sfruttare queste paure. Superando i malumori di Napoleone III e le obiettive difficoltà diplomatiche internazionali, si proclamò prima il protettorato del re di Sardegna sulla Toscana, quindi si passò a una reggenza del principe Eugenio di Carignano e alla fine, con un plebiscito, si decretò l’unione al Piemonte mentre una serie di leggi approvate a ritmo galoppante poneva la Toscana in grado di accedere a tale unione adeguandovi sistemi istituzionali, magistratura, forze armate, moneta, pesi, misure. Per fiancheggiare gli arditi propositi di Bettino Ricasoli era nato il 14 luglio del 1859 un giornale quotidiano fiorentino, “La Nazione”, destinato a divenire per eccellenza il giornale di Firenze.
Qualcuno sperò che quella fosse la volta buona per fondare a Firenze anche un’Università: ma già due illustri Atenei erano presenti in Toscana, a Pisa e a Siena, il che obbligò la capitale ad accontentarsi di un Istituto di Studi Superiori e di Perfezionamento; intanto però si fondavano l’Istituto Agrario delle Cascine, l’Istituto Musicale, la Scuola di Declamazione, l’Accademia di Belle Arti, il Museo delle Antichità nel palazzo del Bargello.
Il plebiscito era stato tenuto tra l’11 e il 12 marzo del 1860; dieci giorni dopo Bettino Ricasoli presentava i risultati, a Torino, al re di Piemonte; il 16 aprile Vittorio Emanuele II faceva il suo ingresso trionfale in Firenze. L’anno successivo Massimo d’Azeglio avanzò per primo, provocando scandalo a Torino e in tutto il Piemonte, l’esplicita tesi che a Firenze più che a qualunque altra città spettasse di diritto il ruolo di capitale di quel regno d’Italia che “per grazia di Dio e volontà della Nazione” era stato proclamato il 17 marzo, dopo che l’annessione del regno delle Due Sicilie era stata sancita dalla cessazione della resistenza borbonica a Gaeta e a Messina.
L’argomentazione del D’Azeglio non mancava né di fascino, né di ragioni culturali e pratiche. Ormai, dopo il trionfo decretato a I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, la “questione della lingua italiana” che durava da circa mezzo millennio poteva dirsi definitivamente chiusa: il “vero” italiano era quello dei fiorentini colti, ed esso rappresentava ormai quella lingua nazionale senza la quale, come senza la sovranità e la continuità territoriale, una nazione non poteva dirsi tale. La fama dell’arte e della cultura fiorentina specie nei “secoli d’oro” tra Medioevo e Rinascimento stava frattanto affermandosi irreversibilmente non solo in Italia, ma anche e soprattutto all’estero. Trasferire la capitale a Firenze sarebbe stato quanto mai opportuno in quanto avrebbe consentito un allentamento della pressione politica e diplomatica che pesava sulla nuova Italia. In effetti le potenze europee, e soprattutto quella che da circa un decennio era la vera protettrice e garante del regno sabaudo di fronte alle altre potenze, la Francia del Secondo Impero, non avevano affatto mostrato di apprezzare la politica di successivi colpi di mano plebiscitari e di continui “fatti compiuti” che aveva condotto alla proclamazione d’un regno unitario d’Italia. Rimaneva lo Stato della Chiesa, la presenza del quale interrompeva la continuità territoriale della nuova compagine statale: nel settembre del 1860, mentre Giuseppe Garibaldi proclamava apertamente di voler marciare su Roma, il conte di Cavour era riuscito a persuadere Napoleone III che solo a patto di ridurre i territori politicamente controllati dal pontefice al solo Lazio, dotando quindi il regno d’Italia di continuità territoriale, il potere temporale della Chiesa avrebbe potuto salvarsi. Tuttavia il 27 marzo del 1861, dopo il celebre discorso cavouriano della “libera Chiesa in libero Stato”, la Camera dei Deputati aveva proclamato Roma capitale d’Italia. Era quanto volevano i democratici garibaldini, che speravano di poter forzare la mano al re e alla compagine delle potenze internazionali; ma lo volevano anche i mazziniani, che speravano di procurare con ciò una vera e propria crisi dell’autorità sabauda stretta tra opinione pubblica italiana e volontà dell’Imperatore dei francesi, che a questo punto era – con quello d’Austria – il massimo garante del mantenimento dello Stato della Chiesa. E a Roma stavano affluendo, insieme con truppe regolari francesi, i volontari “crociati” pronti a far scudo con i loro corpi al pontefice.
La crisi raggiunse l’apice con i fatti d’Aspromonte, il 29 agosto del 1862, allorché il corpo di spedizione garibaldino – appoggiato sottobanco dal governo Rattazzi – fu bloccato da reparti italiani inviati su perentoria richiesta di Napoleone: Garibaldi venne ferito e imprigionato, ancorché la ferita fosse alquanto leggera e l’amnistia arrivasse molto tempestiva. Fu il ministero presieduto dal Minghetti, con i provvedimenti solennemente sanciti il 15 settembre del 1864, a ottenere il ritiro da Roma delle truppe imperiali (ma non dei volontari), in cambio di un formale impegno a non assalire lo Stato della Chiesa. A quel punto il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, presentato ufficialmente come definitivo, era un’ostentata garanzia del fatto che il governo italiano aveva rinunziato all’idea di Roma capitale. Democratici e repubblicani reagirono dappertutto con disappunto, quando non con ira; a Torino, la rabbia popolare causata dall’umiliazione di veder declassata la città esplose in moti di piazza spietatamente repressi dal generale Lamarmora. Ma, in questo modo, il voto in apparenza isolato espresso quattro anni prima dal D’Azeglio si adempiva adesso: ed era chiaro del resto a tutti (sia a quelli che lo auspiacavano, sia a quanti lo temevano) che il passaggio da una capitale all’altra era in realtà un trasloco solo parziale, un avvicinamento a quella che tutti volevano come capitale futura. Il primo sindaco della Firenze annessa al Piemonte fu per regio decreto, nel settembre del 1865, Gugulielmo De Cambray-Digny.
A parte, beninteso, i cattolici irriducibilmente non liberali. E a parte forse, chissà, gli stessi fiorentini o buona parte di loro, equamente distribuiti fra ceti dirigenti e strati popolari. Eppure, nel 1861, il fatto che la prima Esposizione Nazionale, presieduta da Cosimo Ridolfi si tenesse proprio in Firenze, nei locali della vecchia stazione di Porta al Prato venne inteso da molti come un gesto al tempo stesso promozionale e simbolico. Fu in quell’occasione che venne presentata un’invenzione destinata a far epoca: il motore a scoppio del padre Barsanti.
Per cinque anni dunque, fra 1865 e 1870, la corte e il governo furono insediati in palazzo Pitti, antica reggia granducale; il parlamento e il Ministero degli Affari Esteri trovarono ospitalità nel palazzo della Signoria, quello degli Interni nel vecchio Palazzo Mediceo di Via Larga (ribattezzata Via Cavour), passato alla famiglia Riccardi. Fu allora progettata, per quanto venisse attuata in seguito, quell’autentica rivoluzione urbanistica che trovò il suo motore e la sua anima nell’architetto Giuseppe Poggi – il cui progetto di ristrutturazione urbana generale era stato approvato dall’amministrazione comunale il 18 febbraio del 1865 – e che trasformò radicalmente una Firenze la quale era rimasta, sostanzialmente, chiusa nelle sue mura trecentesche che fino ad allora le erano bastate. Il centro storico fu sventrato e “risanato” (anche se tale progetto fu concepito solo nel 1881 e portato a termine solo nel 1893); il perimetro murario urbano abbattuto in gran parte, salvo il segmento sud-orientale che collegava Porta Romana con il Forte del Belvedere di San Giorgio e che del resto delimitava i reali giardini di Boboli; le mura, delle quali furono tuttavia risparmiate le monumentali porte, vennero sostituite con un anello di boulevard sul modello di quelli parigini di Haussmann, collegati fra loro da piazze circolari; nell’area di sud-est, dove le mura erano state risparmiate, si progettò l’ampio e panoramico Viale de’Colli, da allora divenuto una delle glorie panoramiche e turistiche cittadine e una sede d’importanti aristocratiche dimore. Si provvide allora anche a ristrutturare il Lungarno dotandolo di migliori argini, in vista anche di una nuova regolamentazione del corso del fiume che peraltro in effetti non ci fu: l’alluvione del 3-4 novembre del 1864 era stata disastrosa, ma i problemi relativi non furono risolti. Tanto che, esattamente centodue anni dopo, ci si trovò alle solite.
Il lustro di Firenze capitale parve racchiuso, come in una luminosa parentesi, da due grandi celebrazioni patriottiche e culturali: nel 1865 la celebrazione del sesto centenario della nascita di Dante Alighieri con l’inaugurazione, in Santa Croce, del cenotafio del poeta; e, alla vigilia del trasferimento del governo e del Parlamento a Roma, la traslazione delle ceneri di Ugo Foscolo in quella stessa chiesa, ch’egli nel carme de I Sepolcri aveva consacrato “tempio… delle itale glorie”. Ora l’Italia aveva davvero il suo Pantheon, come quello che il suo modello in quanto capitale possedeva alto sulla collina di Sainte Genéviève. Frattanto, però, il Secondo Impero era caduto e con esso il monarca che per un decennio aveva impedito all’Italia di coronare la sua unità con la liberazione di quella che la stragrande maggioranza degli appartenenti al ceto dirigente giudicava la sua “naturale” capitale. Va da sé che tale giudizio non era per nulla ovvio e obiettivo: esso discendeva in effetti da un forte pregiudizio laicista e anticattolico, sostenuto soprattutto dalle logge massoniche: la Roma cui ci si riferiva come capitale d’Italia, quindi come modello culturale e spirituale, era quella pagana. La “Terza Roma”, che molti retoricamente auspicavano, avrebbe dovuto essere per alcuni la città dei grandi ideali di libertà e di uguaglianza, per altri il caput mundi modello ed auspicio per “una più grande Italia” che aveva il diritto di far ingresso nel concerto delle grandi potenze europee magari a sua volta dotandosi di una potenza finanziaria e industriale della quale ancora non disponeva, di un esercito adeguato e dei relativi possedimenti coloniali senza i quali non si aveva accesso alla cerchia ristretta dai paesi che davvero contavano.
Non si è mai davvero capito quindi, e forse non sapremo mai, con quale animo i fiorentini accettassero, nel 1870, il solenne indirizzo d’omaggio che la camera dei Deputati d’Italia dedicò a Firenze, grata “per la liberalità e il patriottismo con cui aveva adempiuto all’alto ufficio”. La città, proclamata “benemerita della nazione”, faceva davvero buon viso a cattivo gioco, dato che la partenza del re, del governo e del parlamento le sottraevano in effetti prestigio e risorse? O si aspettava invece di poter comunque mettere a frutto la modernizzazione e l’impulso economico, infrastrutturale e culturale che quel lustro le aveva procurato traendo vantaggio anche dal sollievo d’una serie di oneri e di pastoie che la funzione di capitale fatalmente comportava? Comunque, se al censimento nazionale del 1861 i fiorentini erano 114.500, nel 1870 erano già diventati 194.000. Lo sviluppo urbanistico e l’ampliamento demografico non erano stati uno scherzo: Ubaldino Peruzzi, popolarissimo sindaco tra 1868 e 1878, accumulò per ammodernare la città un debito enorme: il deficit nel 1878 era di cento milioni di lire, e nel marzo del 1878 il Comune dichiarò fallimento.
Certo è che la Firenze dell’Italietta godette, tra ultimo trentennio del XIX secolo e primi anni del successivo, di una sorta di nuova primavera, ravvivata da una vitalità economica, imprenditoriale e produttiva come non si era mai visto prima e da un’inventiva e un’originalità intellettuale che ne fecero la più vicina forse, fra le città italiane, alla gaia e tumultuosa Parigi della Belle Epoque.
Soprattutto dal punto di vista culturale. Alle riviste più propriamente scientifiche o di alta cultura, come l’“Archivio Storico Italiano” e l’“Antologia”, si erano andate affiancando ai primi del Novecento, l’una dietro l’altra, quelle della cultura militante, attorno alla quale si scatenavano feroci polemiche e talvolta perfino qualche scazzottata: “Il Leonardo” (1903), “La Voce” (1909), “Lacerba” (1913), più tardi, “Il Selvaggio” (1924), “Solaria” (1925), “Il Frontespizio” (1925). Dopo i “macchiaioli”, divenuto ai primi degli anni Sessanta il nome di battaglia di un agguerrito gruppo di giovani artisti, fu la volta dei “futuristi” impegnati alla vigilia del primo conflitto mondiale in risse e in bevute. Singolare fu che quel gruppo, che era nato per “uccidere il chiaro di luna”, si riconvertisse negli anni Trenta, auspice anche il nuovo clima estetico-politico, nel culto “delle colonne” e “degli archi”. Anche le case editrici fiorentine erano molte, raffinate, agguerrite: dopo i venerabili modelli ottocenteschi di Bemporad, di Barbera, di Vieusseux, di Le Monnier, di Giunti, si svilupparono i Nerbini, i Salani, i Vallecchi, la Libreria Editrice Fiorentina, gli Olschki, quindi i Sansoni e la Nuova Italia; sarebbero poi arrivati i Nardini, i Bonechi, la Scala, la Edifir.
D’altronde, non è che la buona borghesia fiorentina si lasciasse attrarre più di tanto dal fermento intellettuale di tutti quei ragazzacci o dal coraggio imprenditoriale di librai che si trasformavano in editore: la gente continuava a preferire i cafè-chantants, dove si avvicendavano chansonniers e chanteuses (“sciantose”, si diceva alla napoletana). Uno per tutti: Odoardo Spadaro. Furoreggiavano anche le operette, alcuni degli autori più noti delle quali erano appunto fiorentini. E la gente del “popolo”, i ceti subalterni ancora attaccati alle cerimonie religiose ma in parte ormai legati alle attività ricreatrici e culturali dei partiti della sinistra democratica, continuava a preferire le Fiere della Rificolona e dell’Impruneta e i balli in piazza con le orchestre “pippolesi”.
Sotto il profilo urbanistico, la Firenze tardottocentesca - primonovecentesca si presentava con un aspetto ormai decisamente nuovo rispetto alla città i connotati della quale erano stati delineati nel XIV secolo e che da allora, pur arricchitasi di molti e bellissimi monumenti e di splendide opere d’arte, poco era cambiata. Le mura non esistevano più; i viali delimitavano ormai nuove realtà abitative, nuovi modi d’intendere la qualità della vita; gli “sventramenti” del centro storico e la costruzione dei Lungarni avevano non solo profondamente modificato equilibri abitativi e prospettive panoramiche, ma anche mutato la struttura sociale della popolazione con i relativi equilibri. Le piccolissime borghesie artigiane e bottegaie e il proletariato dei salariati, dei manovali e dei disoccupati erano stati espulsi dall’area centrale e dispersi nelle periferie a est e a ovest, lungo l’Arno, mentre lo sviluppo urbano a nord e a sud, a ridosso dei due sistemi collinari paralleli al fiume, si era presto saturato ed era stato adibito prevalentemente ad aree residenziali. La città si presentava ormai come abitata principalmente da grandi, medi e piccoli proprietari fondiari, da commercianti, da artigiani. Poco sviluppata vi era l’industria, a parte alcuni circoscritti ma qualificanti casi come la Richard-Ginori a Rifredi o le Fonderie del Pignone nell’area sudoccidentale della città dove, a ridosso del popolare quartiere di San Frediano e fuori le mura là in parte conservate o restaurate, si era andato costituendo un agglomerato di residenze operaie. I ripetuti moti e sciopero, fra 1891 e 1898, che avevano condotto fino alla proclamazione dello stato d’assedio, consigliavano uno smistamento dei ceti subalterni. L’Istituto Autonomo Case Popolari, fondato nel 1909, provvide a realizzare numerosi blocchi abitativi periferici. Il Piano Regolatore del 1915, che dal ’18 avviò la sistemazione dell’area industriale di Rifredi, cominciò a mostrare qualche frutto solo verso il ’24.
Ma tra il ’19 e il ’25 la ribollente Firenze operaia, prevalentemente socialista e anarchica – quella del Metello e di Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini – aveva fatto sentir forte la sua voce, resa più rabbiosa e drammatica dopo la tragedia della prima guerra mondiale, con tutte le sue promesse di benessere e di riforme agrarie e sociali non mantenute. E durissima era stata anche la repressione squadristica, del resto in parte espressione d’un fascismo a sua volta radicale, uscito in gran parte dalle trincee del conflitto, fatto a sua volta in larga misura di ex-socialisti e di ex-anarchici. Dopo la “normalizzazione”, dal ’25 in poi, il regime procurò a stabilire sulla città un severo controllo teso non solo a reprimere le tentazioni “sovversive”, ma anche a contenere e ad eliminare o a riassorbire le fronde fasciste. A parte i ristretti centri d’eccellenza industriale – Richiard-Ginori, Pignone, Galileo – le linee sociali dello sviluppo cittadino vennero autoritariamente definite nelle tre direzioni complementari del commercio, dell’artigianato e del turismo.
Già alla fine dell’Ottocento era stato fondato in Via Serragli, a pochi passi dal glorioso teatro Goldoni, il collegio-convitto degli “Artigianelli”, dove tanti ragazzi poveri e senza famiglia venivano nutriti, educati e avviati a un “mestiere” artigiano.
La forte e profonda riqualificazione del lavoro artigiano fiorentino, accompagnata da una ridefinizione profonda negli oggetti, nei metodi, nelle funzioni, fu tuttavia più tardi quella imposta dai registi politici e urbanistici della “grande Firenze” degli anni Trenta. Fu allora che s’inventò – auspice la torrenziale attività di Alessandro Pavolini, segretario federale del Partito Nazionale Fascista della provincia di Firenze tra 1929 e 1934 –, la Firenze della cultura, dei “maggi musicali”, del commercio legato strettamente all’artigianato, alle scuole di apprendistato e al turismo.
Fu Pavolini a ideare e a sostenere la tesi di una vera e propria “industria turistica” che avrebbe dovuto avere Firenze come suo centro propulsore. Attorno a tale idea, che faceva del capoluogo toscano il “salotto buono” delle attività culturali “di regime” sì, ma intelligentemente e spregiudicatamente aperte, non solo si creò un artigianato fiorentino di tipo nuovo, ma addirittura s’inventarono una tradizione artigiana e un vero e proprio “stile fiorentino”, che si ritrova ancor oggi in certi oggetti d’argento e di pelle, in certe carte stampate, in certi mobili e in certe stoffe.
Era uno stile dichiaratamente ispirato alla gloriosa Firenze medievale e artigianale, ma ripensato attraverso la ridefinizione romantica e non senza un’attenzione molto forte al “medioevo reinventato” dal cinema dell’epoca (La cena delle beffe, La corona di ferro e così via). Esso aveva un duplice scopo: creare uno stile con forti ancorché largamente falsificate valenze identitarie e affidare alla città un messaggio che, attraverso il turismo, sarebbe diventato una sua “cifra”, una sua griffe nel mondo. All’incrocio tra commercio, artigianato e turismo, la moda stava divenendo un’altra fra le grandi attrazioni fiorentine.
Definita nel 1931 “stazione turistica internazionale” con un’apposita legge e fatta oggetto nel 1934 d’un Piano Regolatore, che resta il più recente e sistematico esperimento in materia, la città fu energicamente ripensata entro un quadro urbanistico rigoroso, che la collocava tra le ardite modernissime architetture della nuova stazione di Santa Maria Novella di Giovanni Michelucci costruita febbrilmente tra continue polemiche negli anni ’33-’35 (mentre si apriva la “direttissima ferroviaria” Firenze-Bologn...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. Un fiume, un ponte, una strada
  6. Patroni celesti, protettori terreni, cinte murarie
  7. Una cittĂ  di guerrieri e di mercanti
  8. L’apogeo
  9. Crisi e ridefinizione d’una “città borghese”
  10. Una cittĂ  per un principe
  11. Figli di Giove e della pioggia d’oro
  12. L’età lorenese
  13. Dal regno d’Italia a oggi