Sviluppo urbano e politiche per la qualità della vita
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Sviluppo urbano e politiche per la qualità della vita

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La società attuale appare sempre più vulnerabile, incerta, complessa e ambigua ed in questo contesto aumenta la necessità di creare efficienti ed efficaci ecosistemi per la promozione locale della qualità della vita e dell'innovazione sociale. Il volume propone un excursus delle principali pratiche e politiche innovative che stanno accompagnando lo sviluppo urbano. Ogni saggio approfondisce un ambito di interesse – qualità della vita, innovazione sociale e sharing economy, smart city, mobilità urbana, nuovi luoghi del lavoro, abitare condiviso, eHealth, sicurezza urbana, giovani e turismo, food policy, innovazione didattica e amministrazione condivisa – offrendo una panoramica di riferimento per lo studio, la progettazione e l'implementazione di nuove strategie di intervento e politiche pubbliche. Il testo è rivolto a studenti, docenti, operatori che lavorano a vario livello in settori del sociale. Giampaolo Nuvolati è professore ordinario di Sociologia urbana presso l'Università di Milano Bicocca dove ricopre la carica di direttore del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale. Tra i suoi temi specifici di interesse troviamo la qualità della vita urbana, i conflitti tra le popolazioni residenti e non residenti, il rapporto tra interstizi urbani, ricerca sociologica e flânerie. Tra le sue pubblicazioni recenti si ricordano: L'interpretazione dei luoghi. Flânerie come esperienza di vita, (Firenze University Press, 2013); Qualità della vita urbana (in S. Vicari Haddock, a cura di, Questioni urbane, il Mulino 2013); Resident and Non-resident Populations: Types of Conflicts (in P. Pucciand e M. Colleoni, a cura di, Understanding Mobilities for Designing Contemporary Cities, Springer 2016).

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Qualità della vita e sharing economy:
uno stretto legame
Giampaolo Nuvolati
1. Nascita e sviluppo della ricerca internazionale sulla qualità della vita
Il concetto di qualità della vita ha visto negli ultimi decenni una attenzione crescente. Non esiste agenda o programma politico che non contempli questo termine. Non si contano i beni di consumo che nelle pubblicità vengono definiti in grado di migliorare la qualità della vita dei consumatori. In ambito accademico gli studi sulla qualità della vita vantano una tradizione più che cinquantennale allorché negli Stati Uniti, a partire dagli anni ’60, prese corpo quello che è conosciuto come il Movimento degli Indicatori Sociali: un insieme di ricerche finalizzate a misurare il benessere sociale, culturale, e non solo economico, delle comunità attraverso la raccolta di dati statistici. La ricerca si è successivamente spostata in Europa e per la precisione nei paesi scandinavi, per poi approdare in Germania e in tutto il mondo. Da allora, la produzione di ricerche, studi, archivi dati, riviste specializzate afferenti al tema della qualità della vita si è moltiplicata interessando ora realtà locali, ora studi comparativi a livello nazionale o internazionale. È del 1974 la nascita della rivista scientifica di riferimento per gli studiosi della qualità della vita: «Social Indicators Research. An International and Interdisciplinary Journal for Quality-of-Life Measurement», alla quale ne seguiranno altre, tra cui «Applied Research in Quality of Life», la rivista ufficiale dell’ISQOLS (International Society for Quality-of-Life Studies). Una tappa importante è costituita negli anni Novanta proprio dalla costituzione di questa associazione che, di fatto, ha ereditato la tradizione del Movimento sopra citato e che ha organizzato una serie di importanti conferenze in tema di qualità della vita, alcune delle quali in Italia: Firenze 2009 e Venezia 2011. Oggi molte organizzazioni mondiali stanno prestando attenzione al tema della qualità della vita. Esempi recenti e rilevanti sono il report della Commissione Europea: GDP and Beyond: Measuring Progress in a Changing World e il lavoro svolto dalla CMEPSP (Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress) promosso dal governo francese e presieduta da Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi (2009); entrambe le iniziative sono tese a porre l’enfasi soprattutto sugli aspetti non economici del benessere (Annoni e Weziak-Bialowolska 2012).
2. La tradizione italiana
Nel nostro paese, accanto alla pubblicazione di articoli volti a fornire un quadro teorico sul concetto di qualità della vita (Gadotti 1986; Schifini D’Andrea 1988; Spanò 1989; Vergati 1989; Nuvolati 1998), sono stati realizzati diversi studi empirici sulla qualità della vita, soprattutto a livello locale. Tra le esperienze pioneristiche vanno soprattutto ricordati i cosiddetti BSA (Bilanci Sociali d’Area) che hanno trovato realizzazione negli anni Settanta e Ottanta a Milano, nelle venti Zone di decentramento del Comune (Bona et al. 1979). L’obiettivo dei BSA, in particolare, era quello di stimare il fabbisogno della popolazione in merito a una serie di servizi pubblici: dalle scuole ai centri civici, dagli impianti sportivi ai consultori. Il modello, utilizzato a fini di programmazione oltre che di descrizione della realtà, comparava la distanza delle venti Zone per una serie di indicatori rispetto ad un valore ideale o standard di legge (Martinotti 1988). Accanto a dati di tipo ecologico, i BSA prevedevano anche una serie di rilevazioni tramite survey per stimare gli stili di vita dei milanesi. La survey più significativa che si vuole qui ricordare è rappresentata dalla ricerca sulla qualità della vita a Milano condotta dall’Istituto Superiore di Sociologia nel 1986. Essa costituiva una rilevazione analoga a quella del 1981 sempre nell’ambito dei BSA. Questa indagine, per la ricchezza di informazioni raccolte e la periodicità delle rilevazioni, presentava peraltro alcune affinità con le General Social Survey e le Continuous National Surveys statunitensi. L’indagine, sarebbe inoltre stata di esempio per una serie di altre rilevazioni multitematiche effettuate nel nostro paese a partire dalla Indagine Sociale Lombarda, a livello regionale, pensata e realizzata nella seconda metà degli anni Ottanta, fino ad arrivare alle Indagini Multiscopo sulle famiglie realizzate dall’Istat, a livello nazionale.
Dopo la nascita delle prime esperienze pioneristiche e nello stesso tempo già avanzate come i BSA, si è verificata una fase di rallentamento della ricerca ed una successiva ripresa solo a metà degli anni Novanta. Fanno eccezione alcune esperienze che hanno mantenuto una certa continuità nel tempo. Tra le social surveys da ricordare sono le tre promosse nella Regione Lombardia nel 1987, 1994 e 2000 (IReR 1991, 1997, 2001). Per il caso milanese è necessario segnalare anche il lavoro svolto dall’associazione MeglioMilano che dal 1989 ad oggi raccoglie ed elabora ogni anno circa 70 indicatori sociali oggettivi sulle condizioni di vita degli abitanti della città (Nuvolati 2010). In generale, l’attuale risveglio sul tema della qualità della vita è soprattutto addebitabile alla crescita preoccupante di nuovi fenomeni che riguardano le comunità nel loro complesso e non solo i segmenti più deboli. Si fa riferimento ai problemi dell’inquinamento, dei conflitti etnici, delle carenze e disfunzioni dei servizi: problemi che reclamano forme più continue di monitoraggio della qualità della vita tanto nelle sue componenti più oggettive che in quelle soggettive. In quest’ultima ottica si pongono alcuni studi comparativi italiani quale quello dell’Istat – Indagine multiscopo sulle famiglie, La vita quotidiana nelle grandi città, che ha riguardato per il 1998 l’analisi della qualità della vita nelle 13 maggiori città italiane.
In questi ultimi vent’anni molte amministrazioni locali hanno provveduto a raccogliere dati e informazioni statistiche di vario tipo che documentassero il livello di vivibilità delle città. Le esperienze più interessanti hanno determinato lo sviluppo dei cosiddetti ‘Osservatori sulla qualità della vita’. La filosofia che sta alla base degli osservatori è il monitoraggio continuo della qualità della vita della popolazione (nei suoi vari segmenti: giovani, anziani, donne, famiglie) non solo dal punto di vista della condizione economica, ma anche di quella sociale, ambientale, relazione, civile al fine di poter procedere ad una progettazione più mirata. L’idea di fondo è stata la stessa promossa dal DFP – Dipartimento della Funzione Pubblica, nell’ambito del disegno complessivo di riforma della Pubblica Amministrazione, fondato sul valore della sperimentazione e della diffusione di casi esemplari. A questo scopo l’Istat, nel 1996, avviava su incarico dello stesso Dipartimento, un progetto pilota per la creazione del Catalogo dell’innovazione nella Pubblica Amministrazione, avente il compito di raccogliere e diffondere le soluzioni innovative ed efficaci promosse dalle PA. Uno dei primi passi mossi in merito risale al 1997: grazie alla collaborazione tra diversi Comuni aderenti alla USCI (Unione Statistica dei Comuni Italiani), in quell’anno nasceva infatti un gruppo di lavoro, composto dai responsabili degli Uffici di statistica dei Comuni di Como, Imola, Lodi, Monza, Nichelino (TO) e Pistoia, con lo scopo di definire un modello sperimentale di rilevazione, da applicarsi alle rispettive realtà comunali e che consentisse di registrare annualmente le variazioni nel livello di vivibilità urbana. Va peraltro ricordato che già a partire dal 1990, l’Ufficio statistica del Comune di Como realizzava, con cadenza annuale, una rilevazione della qualità della vita cittadina. Le esperienze del gruppo dei sei Comuni, insieme a quella di Milano, rappresentano forse i casi in cui la realizzazione di un Osservatorio sulla qualità della vita è stata meglio realizzata e sono quindi in grado di porsi come guida per altre realtà, sebbene nel tempo abbiano perso parte del loro vigore. Sempre più realtà locali comunque si stanno accostando alla creazione e utilizzo di un simile strumento di lettura della qualità della vita. Si vedano ad esempio la Provincia di Bologna, la Provincia di Verbania, il Comune di Napoli, il Comune di Bolzano, solo per fare alcuni esempi di Pubbliche Amministrazioni che, a inizio millennio, si sono confrontate con questi temi pur con tutte le difficoltà legate allo sviluppo degli strumenti e dei dati disponibili.
Sul tema della qualità della vita sono poi da ricordare per il caso italiano anche le ricerche condotte da alcuni quotidiani quali «Il Sole 24 Ore» che dal 1988 raccoglie una serie di indicatori sul benessere socio-economico nelle provincie italiane, cui si è aggiunta, a partire dal 1999, la rilevazione promossa da «Italia Oggi». Sebbene questi studi siano stati oggetto di numerose critiche per il metodo adottato hanno comunque costituito e continuano a rappresentare un punto di riferimento importante per la riflessione e lo studio del benessere nel nostro paese.
Nel 2010 si è infine costituita in Italia l’Associazione italiana di studi sulla qualità della vita (AIQUAV) che ha lo scopo di raccogliere le esperienze locali di ricerca e riflessione in tema di qualità della vita e di fare da collegamento con le organizzazioni internazionali: la già citata ISQOLS, in particolare. AIQUAV ha come ulteriore obiettivo la ricostruzione della storia degli studi sulla qualità della vita e intende costituire un punto di riferimento per tutti coloro che a vario livello, studiosi, giornalisti, pubblici amministratori, si interfacciano su questo tema. Inoltre AIQUAV, che ha già dato vita a diversi convegni nazionali, fa parte delle associazioni che collaborano con l’ISTAT e il CNEL nella definizione e costruzione di un indice denominato BES (e di cui esiste una versione specifica legata alle questioni urbane e denominata URBES) per la misurazione di un Benessere Equo e Sostenibile attraverso una prospettiva multidimensionale che consenta di cogliere gli squilibri sociali, economici e culturali tra le varie regioni del nostro Paese. In questo quadro oggi l’AIQUAV intende inoltre promuove workshop e attività formative rivolte a studenti di vario livello e ad operatori di vari settori interessati a sviluppare progetti e studi sulla qualità della vita.
3. Le principali coordinate teoriche per la definizione del concetto di qualità della vita
Per diverso tempo la discussione sulla qualità della vita si è semplicemente focalizzata sulla distinzione tra bisogni primari e secondari, tra aspetti materiali e immateriali del benessere: una discussione sostanzialmente tesa a sottolineare come il benessere stesso di un individuo o della collettività di appartenenza non fosse solo riconducibile allo sviluppo economico ma anche agli aspetti sociali, culturali ed esistenziali. Più recentemente il dibattito si è spostato sul tema delle disuguaglianze. In particolare, sulla falsariga della critica che Amartya Sen (1993) muove sia all’utilitarismo ‘benthamiano’ che al neo-contrattualismo ‘rawlsiano’, si è giunti alla conclusione che il benessere non è più semplicemente deducibile dalla soddisfazione espressa dai singoli relativamente alle proprie condizioni di vita, né tantomeno dalla semplice disponibilità di beni e risorse. In altri termini non è ciò che abbiamo, ma ciò che siamo in grado di fare (functionings) scegliendo tra possibili alternative (capabilities) a rendere la nostra vita degna di essere vissuta. Eric Allardt (1976) avrebbe detto che la qualità della vita non si esaurisce nell’having ma piuttosto rimanda alle condizioni di being e loving. Questo spostamento di fuoco dalle risorse alle azioni e alle attività che l’individuo è in grado di svolgere (doing) nel rispetto degli altri individui e di un orizzonte valoriale di riferimento, pone al centro della riflessione l’analisi delle circostanze e degli elementi che ostacolano la trasformazione dei beni, servizi o risorse disponibili in un reale e accresciuto funzionamento dell’individuo stesso, creando appunto forme di disequilibrio. Un esempio molto semplice. Noi tutti disponiamo del bene automobile, delle reti stradali, e delle infrastrutture di trasporto pubblico; eppure la functioning della mobilità – intesa in termini di tempo necessario per muoversi da un punto A ad un punto B – è ancora estremamente ridotta a causa del traffico. La incontrollata crescita di risorse non determina, in altri termini, una facile accessibilità e usabilità delle stesse. Non sono solo le componenti economiche a creare percorsi di disuguaglianze nell’accesso alle risorse stesse; è il sistema delle informazioni, la congestione dei canali di mobilità, il digital divide a far sì che, pur in presenza di un discreto numero di risorse, solo alcuni soggetti siano in grado di praticare con successo le azioni di avvicinamento, accesso, fruizione e sfruttamento pieno dei beni e dei servizi. Non a caso dunque le politiche pubbliche oggi più innovative sono di natura software e riguardano non tanto o soltanto la trasformazione dello spazio urbano, e del territorio più in generale, in termini di incremento delle infrastrutture e delle risorse offerte (hardware), quanto l’oliatura di quei dispositivi che facilitano l’accesso all’insieme delle risorse già esistenti. Un buon piano del traffico che velocizza la viabilità, un piano regolatore degli orari che de-sincronizza l’apertura delle scuole, un sistema di prenotazione degli spettacoli teatrali online, la possibilità di consultazioni mediche via Internet, sono esempi di interventi che hanno a cuore la qualità della vita urbana in chiave di concreta trasformazione dei beni privati e pubblici (le scuole, il teatro, il servizio medico e via dicendo) in reali functionings (potersi spostare velocemente, assistere alle rappresentazioni di lirica o prosa, l’essere adeguatamente assistiti ecc.) degli individui.
Oltre al capitale economico e a quello sociale, particolare rilievo assume un capitale inteso come sommatoria di strumenti, competenze, mobilità dell’individuo rispetto alla localizzazione e fruibilità di risorse e servizi. Non è un capitale esclusivamente dato dal livello di istruzione o dalla dotazione personale di tecnologie avanzate, ma anche dalla familiarità, dalle esperienze acquisite nella gestione proficua della complessità quotidiana rispetto ad una specifica organizzazione degli spazi pubblici e privati. È peraltro in relazione a questa forma di capitale che tendono a strutturarsi nuove differenze e forme di disparità. La componente territoriale, nella sua caratterizzazione morfologica e urbanistica, acquista in questo quadro un ruolo importante e richiama soprattutto il confronto classico tra la metropoli e la città media. Teoricamente, le città medio-piccole sono contraddistinte da una dotazione inferiore di risorse, dunque da una gamma più ristretta di scelte possibili (capabilities) rispetto alla grande città, ma le risorse disponibili risultano comunque più accessibili, più facilmente trasformabili in functionings. La città media, in altri termini è più a misura d’uomo, più percorribile e fruibile nei sui spazi e nei suoi servizi, meno congestionata dalla presenza di utilizzatori di provenienza esterna. Per utilizzare una formula più semplice: offre meno ma ciò che offre è più a portata di mano. Questa affermazione ovviamente non invalida il fatto che la grande città presenti ancora livelli di functionings probabilmente più elevati rispetto a quelli delle città madia. Ma tali livelli risultano spesso conseguenti più alla straordinaria quantità delle risorse messe in gioco che non alle reali capacità di sfruttamento pieno delle risorse stesse, nella loro fruibilità, da parte dei cittadini.
4. Qualità della vita urbana, innovazione e sharing economy
La città è il luogo dove i problemi della vivibilità quotidiana ma anche la loro soluzione trovano la massima espressione. L’anonimato, la povertà, l’inquinamento, il traffico, la criminalità, ma anche i servizi, le opportunità di lavoro, di cura assumono connotati reali o percepiti più espliciti proprio nei contesti urbani. Questo aspetto ha portato spesso gli studiosi a chiedersi se esiste una numerosità ottimale della popolazione; una soglia oltre la quale i problemi sono maggiori dei vantaggi. La cosiddetta teoria dell’optimal urban size (Elgin et al. 1974, Cicerchia 1996 e 1999; Cramer et al. 2004; Royuela e Suriñac 2005) vede in linea di principio nelle città medie verificarsi le situazioni più positive in termini di numero sufficiente di benefici (amenities, presenza di servizi, controllo sociale ecc.) e, contemporaneamente, di più ridotti costi sociali (inquinamento, costo della vita, delinquenza ecc.), grazie alla scarsa concentrazione di popolazione. Come noto, tale equilibrio è difficile da mantenere perché proprio la qualità della vita raggiunta dai comuni di dimensione media determina una attrattività e situazioni di potenziale overloading soprattutto laddove la mobilità degli individui è elevata. Il nodo di questo discorso sta nel ribadire la centralità del concetto di accessibilità nel quadro più complessivo della qualità della vita. Accessibilità intesa non solo come offerta di servizi ma anche come capacità dei singoli di sfruttarne l’esistenza. È peraltro rispetto alle forme della accessibilità che tendono oggi a strutturarsi nuove differenze e forme di disparità legate ad altrettanti stili di vita.
La metropoli è, in sintesi, il luogo della sperimentazione di modelli di vita urbani capaci di sciogliere o quantomeno affrontare i nodi della complessità. Tale processo vede in primo piano la necessità di innovazione sia a livello micro (strategie individuali o di gruppo) che a livello macro (istituzionale). Come precedentemente osservato il tema della qualità della vita presenta una tradizione consolidata dal punto di vista dei riferimenti teorici e studi empirici. Ma è forse venuto il tempo di declinare questo tema in maniera più articolata, trovando agganci con questioni più specifiche inerenti la vivibilità urbana. In particolare, i connotati spaziali e temporali delle pratiche quotidiane dell’individuo – ad esempio rispetto all’organizzazione familiare e occupazionale, alla localizzazione dei servizi e alla articolazione delle reti sociali – risultano cruciali nella determinazione del suo stile e dunque della sua qualità di vita.
Al di là della configurazione socio-economica dei quartieri data dalle caratteristiche dei residenti e delle attività insediate, oggi sembra concretizzarsi un percorso interpretativo che fa delle pratiche e opportunità di spostamento quotidiano sul territorio una dimensione analitica altrettanto importante per studiare le città. La città moderna cambia continuamente anche in funzione dei flussi e dei cicli temporali corrispondenti che vedono di volta in volta popolazioni esterne confluire a vario titolo – lavoro, acquisti, turismo ecc. – nel core delle aree metropolitane sconvolgendone gli equilibri interni e determinando l’urgenza di politiche innovative. Da qui l’esigenza di concentrare l’attenzione anche sulle popolazioni di passaggio oltre che su quella degli abitanti e, più in partico...

Table of contents

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