III PARTE – Il controverso evolversi di Africa ed America Latina
7. Africa: ricchezza e povertà
L’occasione perduta
Quando si pensa all’Africa, gran parte dell’immaginario collettivo non la identifica di certo con i processi di globalizzazione che hanno, invece, caratterizzato, per tutti gli anni ’90, la transizione economica di altre ampie aeree geografiche o interi continenti, passate dal sottosviluppo allo sviluppo o dall’economia pianificata a quella di libero mercato. La restante parte sempre dell’immaginario collettivo, al contrario, intravede nell’Africa l’espressione più scioccante delle contraddizioni proprie del processo globale che ha creato la questione del debito negli anni ’80, per poi proseguire con gli interventi degli organismi sovranazionali e le loro politiche di aggiustamento strutturale. Il perdurare e l’ampliarsi di povertà e malattie, accanto al fermento economico e commerciale di alcune regioni di quel continente – si pensi all’Africa subsahariana – sosterrebbero entrambe queste posizioni, peraltro non incongrue perché, di fatto, l’Africa è quanto di più complesso e contraddittorio come realtà politica, economica e sociale vi possa essere nello scenario internazionale a causa della “non informazione” che la caratterizza. Se non si è cultori della materia, ossia studiosi di cose africane od operatori umanitari o missionari, l’Africa è quanto di meno conosciuto vi sia presso gli analisti internazionali e i mezzi di comunicazione. Le eccessive semplificazioni mediatiche, che puntualmente banalizzano situazioni complicate con il pretesto giornalistico di divulgarle meglio presso l’opinione pubblica – com’ è accaduto per il terrorismo mediorientale dopo l’11 settembre, favorendo la disinformazione e creando panico rivelatosi poi, in taluni casi, del tutto infondato – e i pregiudizi che inevitabilmente ne nascono, hanno permesso che le questioni africane rimanessero confinate al generico giudizio di “irrisolvibile complessità” soprattutto di fronte alle ricorrenti catastrofi umanitarie, per via di guerre civili e disastri ambientali, come la siccità, o al veloce diffondersi di epidemie. Di certo, parlando di globalizzazione nel continente africano non si può non ammettere che la situazione sia “vasta e articolata”, perché lo è la stessa Africa, persino più dell’Asia o dell’America Latina, non riconducibile a uno schema analitico di tipo eurocentrico che ancora domina presso studiosi, ricercatori e politici e, di conseguenza, anche presso la maggior parte dei mass media. Una giustificazione che, al limite, può essere valida per analisti di altri continenti, ma non è ammissibile per quelli europei, anche solo per la vicinanza geografica o l’evidente legame attraverso le antiche vicende coloniali.
Eppure l’Europa si sta dimostrando, nei confronti della vicina Africa, la più ignorante e opportunistica fra i paesi o le comunità di nazioni che da alcuni anni si stanno proponendo a quel continente come partner economici, venendone così scalzata a favore di modelli commerciali e di sviluppo non privi di contraddizioni, e che potrebbero ritorcergli contro. Quanto avvenne a Lisbona, nel dicembre 2007, durante il vertice fra Unione Europea e Africa fu sintomatico di quanto il Nord si ostinasse nella direzione sbagliata, e non solo nei confronti del continente africano, ma anche dei paesi dei Caraibi e del Pacifico, con i quali intrattiene il medesimo tipo di accordi. Si trattava degli Accordi di partenariato economico (Ape) che, sebbene nati con l’intento dichiarato di fondare su rapporti paritari e di reciprocità i futuri scambi commerciali fra l’Europa e l’Africa, in realtà nascondevano la pretesa di Bruxelles affinché i paesi africani firmatari lasciassero entrare sui loro mercati prodotti d’esportazione senza imporre diritti doganali. L’opposizione di Senegal, Namibia e persino Sudafrica, nel dicembre 2007 – anche forti di una campagna di supporto avviata in molti paesi europei da organizzazioni e movimenti a favore del commercio equo e solidale – fece slittare la loro firma, ma soprattutto suscitò una forte opposizione e mobilitazione popolare in tutti i paesi dell’area subsahariana, tanto da far stringere accordi più equi con altri partner, in particolare, la Cina.
Il Beijing Consensus, infatti, sta facendo breccia in molte regioni africane, in uno scambio di “servizi” non certo privo di contraddizioni, ma sicuramente, sino a ora, il più redditizio per l’Africa. La formula del successo cinese in Africa è semplice, e Pechino non ne fa mistero, dato che l’ha dichiarata apertamente nel suo programma China’s African Policy, già nel 2006. Dalla lettura di quel documento si deduce, infatti, che la Cina ha, nei confronti del continente africano, un approccio paritario che parte da lontano, dalla loro reciproca lotta contro l’assoggettamento alle potenze straniere e giunge sino all’obiettivo comune di “ricerca della pace, stabilità e sviluppo attraverso sforzi comuni”, passando attraverso i cinque principi enunciati nel 1996, durante un viaggio in sei paesi africani dall’allora presidente Jiang Zemin. Egli parlò, infatti, di relazioni sino-africane basate su presupposti di sincerità, eguaglianza, sviluppo comune, mutuo vantaggio e cooperazione internazionale, per un obiettivo piuttosto ambizioso, soprattutto nella traduzione inglese “to look into the future and create a more splendid world”. I vertici politici cinesi ipotizzavano già allora un diritto all’autodeterminazione “allo sviluppo” che non avesse quella connotazione prettamente politica dell’approccio occidentale, sino ad allora utilizzato, a cui si sarebbe aggiunta, dopo l’11 settembre, anche la guerra contro il terrorismo e per la difesa della democrazia. Già nel 1996, quindi, Pechino sottolineava la totale indipendenza dell’Africa nella scelta della strada da seguire verso la piena realizzazione del suo potenziale economico e commerciale, a cui garantiva il sostegno senza “vincoli politici”. Da allora si sarebbero poste nuove basi per i rapporti reciproci, come la creazione, nel 2000, del Forum per la cooperazione sino-africana (Focac) nell’intento comune di promuovere lo sviluppo e la pace globali, in un’ottica di cooperazione Sud-Sud, fra “il più grande Paese in via di sviluppo ” (Cina) e il “più grande continente con più Paesi in via di sviluppo”, e nel rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione dell’Unità africana. Si trattò, per l’Africa, di una svolta epocale, dando, così, per superati quei rapporti nati immediatamente dopo l’indipendenza di molti Stati africani e legati alla Cina per affinità ideologiche comuniste o socialiste − il c.d. “socialismo africano” di alcuni leader − od opportunistiche, come dimostrò Nasser, nel 1956, che riconobbe ufficialmente per primo la Cina comunista e aprì relazioni diplomatiche ma, si scoprì in seguito, al solo fine di ottenere finanziamenti per la diga di Assuan, negati dagli occidentali per via della questione di Suez, e poi elargiti, comunque, da Mosca.
I vantaggi accordati dalla Cina all’Africa con il Focac prevedono finanziamenti a tasso agevolato e grandi investimenti in infrastrutture (reti idriche, oleodotti, telecomunicazioni etc.), il sostegno all’agricoltura, l’istituzione di un fondo di 5 miliardi di dollari al fine di incentivare gli investimenti esteri diretti in Africa da parte di imprese e, soprattutto, l’eliminazione di dazi su prodotti africani esportati in Cina. In cambio, la Cina ha ottenuto l’accesso preferenziale a risorse minerarie e ai mercati africani. L’aspetto innovativo è dato dalla dichiarazione, sottoscritta dalle parti, di “non ingerenza” nelle rispettive questioni di politica interna: è una chiara rottura con quanto imposto dagli altri partner commerciali, soprattutto europei e statunitensi, attraverso gli organismi sovranazionali o statali e fondazioni private, per elargire assistenza e contributi allo sviluppo o per aprire nuove relazioni commerciali.
La Cina, quindi, non vincola i suoi partner economici africani all’accettazione di interventi di “aggiustamento strutturale” e neppure si pone oneri morali di fronte all’esistenza o meno di strutture democratiche: è la pura e semplice applicazione delle leggi del mercato libero, concorrenziale, totalmente affrancato da “political strings”, tanto da etichettare la Cina come principale supporter dei regimi dittatoriali africani, a qualsiasi credo politico appartengano. Questa critica, tipicamente occidentale, si sta dimostrando, però, solo un ulteriore disperato tentativo di giustificare l’ampliamento dell’influenza cinese nel continente africano, senza illustrare, invece, quanto sia diffusa e profonda l’opposizione africana a quello che è stato l’approccio postcoloniale di alcune nazioni, come la Francia, o quello economico di organismi come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale che, per decenni, sono intervenuti con progetti per lo sviluppo imponendo però condizioni che alla fine si sono rivelate penalizzanti per la loro crescita. L’ultima occasione per dimostrare l’insofferenza verso l’esterno è stata mostrata esplicitamente con il dissenso da parte di numerosi Stati africani verso gli Stati Uniti di George W. Bush che, a loro parere, avrebbero...