Riprendiamoci la scuola
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Diario di un maestro di campagna. Come sopravvivere alla scuola italiana e cambiarla

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Riprendiamoci la scuola

Diario di un maestro di campagna. Come sopravvivere alla scuola italiana e cambiarla

About this book

"Ragazzi, ora che la scuola è finita posso dirvi che spero di essere riuscito a fare lezione facendovi divertire. Vi chiedo scusa se ho sbagliato con qualcuno di voi, ma ogni persona è diversa dall'altra. Anche il maestro ha il suo carattere. Quando sarete grandi non ricorderete gli assiri e i babilonesi, ma non dimenticate mai
quattro regole. Uno. Rompete sempre le scatole. Due. Non state zitti di fronte alle ingiustizie. Tre. Non siate mai indifferenti. Se passate di fronte a un uomo che chiede la carità, chiedetevi perché è lì? Quattro. Viaggiate". Alex Corlazzoli, maestro precario di campagna chiude così il suo anno scolastico. E mentre attende -come ogni anno- una nuova cattedra, racconta, con sconfinata passione didattica, come resistere al degrado quotidiano e riappropriarci della "nostra" scuola. Questo è un grande libro. Alex Corlazzoli è il maestro che tutti vorremmo per i nostri figli e uno straordinario "scrittore di fatti".
(Maria Luisa Busi)

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Information

Secondo quadrimestre

5. Il tempo dei precari
“Sono nata in Sicilia. Dopo il diploma mi sono trasferita al Nord e ho iniziato la mia odissea nel mondo della scuola, la chiamo così perché a distanza di nove anni posso dire di aver acquisito adesso un po’ di conoscenza. Ora so che per la nomina devo recarmi all’ufficio scolastico, che quando cerco informazioni tramite PC devo destreggiarmi fra gli innumerevoli cambiamenti del nome: Provveditorato, Csa, Usp. Adesso so che nella mia condizione di precaria posso ritenermi fortunata perché riesco a prendere una nomina fino al 31 agosto. Non è facile tutto questo perché la sera torno a casa da mio marito e mio figlio demoralizzata. So che con il mio stipendio devo pagare la rata del mutuo della mia (forse fra 20 anni) casa e quindi non posso permettermi il lusso di rischiare a trovare un altro lavoro.
E così tutte le mattine vado a lavorare, con la consapevolezza che nel bene e nel male ad agosto finisce il mio contratto e a settembre ne inizia un altro. Per i primi 7 anni sono riuscita a “prendere” lo stesso posto, e diciamo che mi sembrava quasi normale dover fare l’aggiornamento del punteggio ad aprile, presentarmi ad agosto a firmare, e lavorare a settembre nella mia scuola. Poi il mio posto a causa dei tagli non c’è stato più. E in un attimo ti destabilizzi, le tue certezze svaniscono e in pochi minuti butti via sette anni di lavoro. Vai in una nuova scuola, con nuovi colleghi, con nuovi dirigenti. Non fraintendermi, il tuo lavoro lo fai e anche bene però sono realtà nuove e devi riabituarti. Tu sei l’ultima ruota del carro a prescindere dai ruoli, avrai sempre l’armadietto più brutto, farai sempre gli orari più assurdi, passerai l’intero anno scolastico a cercare di farti apprezzare, a lavorare magari più degli altri e poi quando finalmente gli altri cominciano a capire che ci sei anche tu, con le tue idee, con la tua presenza costante, perché naturalmente vai a lavorare sempre, il tuo contratto è già scaduto e inizi di nuovo.
Non faccio progetti a lunga scadenza, non esprimo molti giudizi, non faccio tante domande. In questo modo, conduco la mia esistenza: senza certezze, senza ambizioni. Di solito quando una persona nuova mi domanda ‘Cosa fai nella vita?, rispondo ‘Sono un’insegnante, ma subito aggiungo... precaria, quasi che questo aggettivo dovesse spiegare all’altro la mia situazione di indefinitezza sociale, di non occupare un posto sicuro nel mondo. Io sono precaria...’”.

Come Laura in Italia, tra docenti con contratto annuale (1 settembre-31 agosto) o fino al termine delle attività (1 settembre-30 giugno) nel 2010/2011, c’erano altre 116.973 persone. Anch’io sono uno di loro.

Quando ho iniziato a fare il maestro il primo anno ero il 129esimo della graduatoria, la classifica dei docenti da cui il Miur attinge il personale. Nel breve tempo mi trovai a fare i conti con una nuova terminologia: prima fascia, seconda fascia, contratto al 30 giugno o al 30 agosto, graduatorie. Mi andò bene. Scelsi una cattedra con un contratto a tempo determinato fino al 30 giugno, a pochi chilometri da casa. Ma cosa significa vivere da precario, i genitori dei nostri ragazzi non lo sanno. Loro giustamente pretendono la continuità, l’insegnante preparato, capace. La vita del precario l’ho spiegata in una lettera, inviata al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e pubblicata sul “Corriere della Sera”:
“Le scrivo per raccontarLe pubblicamente ciò che forse non conosce: il supplizio dei precari della scuola in questi giorni. Immagino che lei non sia mai andato ad un Ufficio scolastico provinciale a fine agosto. Lunedì, per la quarta volta nella mia vita (per 12 anni ho fatto il giornalista precario), a 36 anni mi sono recato ad elemosinare il posto di lavoro. Come ogni anno ci siamo ritrovati in centinaia solo il giorno precedente alla firma del contratto. Ognuno con il suo numero. Io il 120. E quest’anno la fame si sentiva, caro Presidente. Da Palermo, da Reggio Calabria, da Napoli, sono arrivate a Cremona intere famiglie partite con i loro piccoli bambini alla ricerca disperata e per nulla certa di un posto di lavoro. Si sono presentati all’ufficio scolastico con la valigia e una cartina della provincia di Cremona per tentare di capire in quale paese sarebbero finiti, a quanti chilometri di distanza dal capoluogo. E non si tratta di giovani ma di uomini e donne che hanno raggiunto la maturità da tanto tempo e che vivono appesi al filo della speranza di questa benedetta convocazione. È questa forse, caro Presidente, l’applicazione dell’articolo 4 della nostra Costituzione? È questo il modo in cui la nostra Repubblica garantisce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto? Perché lasciare giovani e non con il cappio al collo per mesi quando sarebbe possibile definire a far tempo le cattedre e lasciare che ogni cittadino renda effettivo il diritto al lavoro? Non solo. Come ogni anno sono stato licenziato (scadendo il mio contratto annuale) il 30 giugno scorso: ho ‘campato’ per due mesi con 758,17 euro e al 30 agosto non ho ancora visto il mio trattamento di fine rapporto e vedrò il mio prossimo stipendio probabilmente il 23 di ottobre”.

In Italia, ormai, il precariato è una patologia. Se si confrontano i dati di organico di fatto del 2000-01 con quelli del 2009-10 (gli ultimi pubblicati dal Miur) si può rilevare che nel corso di un decennio il precariato docenti è rimasto sostanzialmente stabile. Tra docenti con contratto annuale o fino al termine delle attività erano 117.685 i precari nel 2000-01; dieci anni dopo sono risultati 116.973, con un calo soltanto di 712 unità (circa mezzo punto in percentuale in meno). Il dato più sorprendente è che il precariato è di casa nel Nord Italia: vi sono Regioni come la Toscana dove, a distanza di dieci anni, si sono registrati quasi 3mila precari in più, con un incremento pari al 51,7%, e l’Emilia-Romagna dove l’aumento ha superato complessivamente le 3.500 unità, con un incremento del 46,3%. Persino gli allievi si sono abituati a queste figure che arrivano e l’anno dopo se ne vanno. Non piace nemmeno a loro questo sistema: ogni anno i miei ragazzi a settembre mi chiedono: “Ma perché alla televisione fanno vedere quelli come te che protestano?”. Gaia, 9 anni, è arrivata persino al punto di formulare una critica intelligente: “Maestro i precari dovrebbero trovare un modo più efficace di protestare. Se uno si mette lì con un cartello e continua a urlare non serve”. Mi sono chiesto tante volte se la mia allieva forse non avesse ragione dal momento che le manifestazioni dei precari sono ogni volta a settembre-ottobre e poi finiscono in letargo fino all’anno successivo.
Per contro, nel Mezzogiorno il numero di docenti precari, dieci anni dopo, è risultato inferiore di oltre 13 mila unità, facendo segnare percentuali significative di decremento in Sardegna (-40,4%), in Basilicata (-43,1%), in Campania (-35,1%), in Sicilia (-33,7%).
Una spiegazione di questo fenomeno potrebbe essere legata alla migrazione che caratterizza queste regioni dove molti, giovani e non, sono costretti ad abbandonare la loro terra per cercare lavoro. È la nuova diaspora. Famiglie intere che lasciano la Sicilia, la Puglia alla ricerca di un lavoro. Arrivano in paesi dove non conoscono nessuno. Affittano stanze per 300 euro al mese. Arrivano a scuola in autobus perché non hanno neanche la macchina per risparmiare il più possibile.
Ne ho conosciute tante di queste storie. Una per tutte: quella della mia collega calabrese Silvana. Ogni anno lascia i suoi due figli e il marito per venire in Lombardia a fare la maestra. Lo fa per fare punteggio. Per arrivare ad entrare in ruolo e chiedere trasferimento. Anni passati sradicata dalla sua terra e dalla sua famiglia. Una mamma costretta ad abbandonare i propri figli in età scolare per insegnare ad “altri figli”.

L’analisi fatta da Tuttoscuola sul precariato è esaustiva per comprendere il fenomeno: nel 2000-01 vi erano in cattedra complessivamente 824.178 docenti, di cui, appunto, 117.685 con contratto a tempo determinato.
Il tasso medio nazionale di precarietà era, quindi, del 14,3%, equivalente ad un docente precario ogni sette. Dieci anni dopo i docenti in servizio erano scesi a 795.342 (circa 29mila in meno), ma il numero di quelli con contratto a tempo determinato, come si è visto, era stato quasi confermato, facendo registrare un tasso di precarietà pari mediamente al 14,7%, confermando il rapporto di un docente precario ogni 7. Non si tratta, quindi, di una quota fisiologica di precariato. E visto che resta confermata nel tempo, si tratta di una patologia strutturale del nostro sistema scolastico, il cui rimedio non può che essere di natura strutturale.
Il rapporto di Tuttoscuola prova ad analizzarne le cause: “In minima parte la ragione è la mancata assunzione, ma nella maggior parte dei casi tutto dipende dalla non coincidenza tra organico di diritto e organico di fatto. Il primo (il diritto) è quello ufficiale che individua chiaramente posti e classi con determinazione puntuale del personale da utilizzare; il secondo (il fatto) è la situazione vera e reale del fabbisogno di posti e classi con effettiva individuazione all’inizio dell’anno scolastico di tutto il personale che serve per garantire il servizio. E la differenza tra diritto e fatto è ogni anno sempre notevole. Ma, mentre sui posti di diritto, può andare soltanto il personale titolare (quasi tutto di ruolo), succede che sui posti di fatto istituiti in più vadano soltanto precari. Il costo che la scuola sostiene ogni anno è quello di fatto, non quello di diritto. Poiché tutti gli anni si ripete questa storia di un organico teorico soppiantato da quello reale, il tema di oggi è perché non infrangere questo tabù e stabilizzare tutto il personale (di ruolo e non) che assicura effettivamente il funzionamento della scuola? Tradotto in soldoni: perché non assumere tutto il personale che di fatto serve, visto che già, comunque, lo si paga?”.
Una risposta è arrivata a luglio 2011 con l’annuncio dell’assunzione di 67mila precari, 30.482 docenti e 36.488 amministrativi. Un primo passo per esaurire la lista dei docenti che sono iscritti alle graduatorie a esaurimento: 243.942 persone nel 2011. Un numero che va analizzato e scorporato con attenzione: 87.850 sono i precari in graduatoria al Nord; 50.652 quelli al Centro Italia; 105.440 nel Sud. Con l’ultimo aggiornamento della graduatoria, fatto nel 2011, in 16.393 hanno abbandonato le liste del Sud per trasferirsi nel settentrione. In particolare al Nord, dove si registra tra il 2007 e il 2011 un aumento di 14.809 precari in graduatoria. Questo significa che, per esempio, nella provincia di Torino ai primi 34 posti ci sono solo meridionali. Così nella provincia di Cremona dove i primi 15 posti sono di persone arrivate dalla Sicilia. Si tratta in ogni caso, come ha affermato Domenico Pantaleo, segretario della Flc Cgil (Federazione dei lavoratori della conoscenza) di “circa 67mila tra amministrativi e docenti. Ma noi vogliamo un piano pluriennale che copra tutti i posti vacanti e che regolarizzi i 130 mila che ancora galleggiano sulla precarietà. Non è ancora chiaro se saranno inseriti subito in ruolo o nel triennio”.
Se siamo di fronte all’ennesimo annuncio gridato al megafono o a un piano reale lo dirà il tempo: nonostante i comunicati stampa del Miur non si è ben compreso quando 67 mila verranno assunti, se subito o “spalmati” nel triennio 2011-2013.
Non sono solo gli insegnanti a essere precari.
Se una scuola che funziona si vede dai risultati, non si può tacere la triste realtà degli abbandoni nel nostro Paese. L’ultimo rapporto della Commissione Europea sugli abbandoni precoci dei 18-24enni che accontentandosi della sola licenza media, non frequentano alcuna attività scolastica o formativa, colloca l’Italia sotto la media Ue, con un tasso di abbandono che sfiora il 20%. Peggio del nostro Paese vi sono solo Islanda, Portogallo, Spagna, Malta e Turchia. Tra i Paesi più virtuosi Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca. Andando ad analizzare il dato scopriamo che il fenomeno non riguarda più solo le regioni meridionali (23%) dove persino il tasso di analfabetismo è ancora alto e si tramanda di generazione in generazione in alcuni quartieri, ma anche il Centro Nord (16,5%). Quote elevate di abbandoni si registrano in Valle d’Aosta, nella provincia autonoma di Bolzano, in Piemonte e Lombardia dove si arriva al 20%: la domanda di lavoro esercita un’attrazione nei più giovani.
Lo sanno bene i professori della scuole secondarie di secondo grado che hanno a che fare con una “mortalità scolastica” impressionante: uno studente su dieci interrompe la frequenza alla fine del primo anno.

Nell’anno scolastico 2007/2008 (dati Istat) alle superiori si rileva un tasso di uscita al primo anno del 12,3%, in leggero aumento rispetto ai quattro anni precedenti, nel corso dei quali si era registrata una sostanziale stabilità. Elevati valori di dispersione scolastica alle superiori si registrano non solo al Sud ma anche nel Nord Ovest dove il tasso raggiunge l’11,6%. La strategia di Lisbona ha posto tra i cinque obiettivi da raggiungere entro il 2010, nel campo dell’istruzione e della formazione, la riduzione al 10 per cento della quota di giovani che lasciano la scuola senza essere in possesso di un adeguato titolo di studio. L’obiettivo, non raggiunto, è ora riproposto nell’ambito della strategia di Europa 2020.
Forte è anche la relazione tra abbandono del sistema scolastico e ritardi. Nella scuola italiana, i ritardi scolastici si attestano a un livello fisiologico nelle scuole elementari (4%), crescono fino al 10% nelle scuole secondarie inferiori e balzano al 25% nei primi due anni di scuola secondaria superiore (Miur - La scuola in cifre, 2008).
Uno dei fattori fondamentali di questi ritardi è, secondo un’indagine svolta dalla Fondazione Giovanni Agnelli, l’arrivo in Italia in età scolare dei ragazzi migranti: i nuovi arrivati sono spesso inseriti in classi non corrispondenti all’età anagrafica, e inferiori ad essa, cumulando così un ritardo scolastico, rispetto ai coetanei di uno, due o più anni.

Ho avuto tra i miei alunni di quinta una ragazzina romena di 11 anni, iscritta alla quarta elementare e frequentante la quinta. È arrivata senza sapere una parola d’italiano e se non fosse stato per le ore di compresenza a lei dedicate da qualche collega sarebbe arrivata alla fine dell’anno senza saper leggere e scrivere. Inoltre uno studente di seconda generazione (nato in Italia da genitori stranieri) arriva alle scuole medie senza una condizione di ritardo statisticamente diversa da quella d’un italiano. Ma entro la terza media la sua probabilità di perdere uno o più anni per strada cresce fino a diventare di 3,5 volte superiore a quella di un suo pari italiano.

6. Dare i numeri
“Maestro, perché facciamo la prova degli invalidi?”
Marco, 2a elementare, non ha ben capito che sta per fare il test, “somministrato” (nel gergo degli addetti ai lavori) dall’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione). Le sue risposte, date seguendo pedissequamente i regolamenti, serviranno a misurare la preparazione degli studenti italiani in lingua e matematica, oltre che la qualità dell’offerta formativa. Per giorni i suoi maestri hanno annunciato questa prova: “Preparatevi perché ci sono gli Invalsi”. In un’ora si calcolerà quanto Marco ha appreso in tutto l’anno. A garantire la “qualità” del giudizio ci penserà la correzione, affidata ad insegnanti che non sono gli stessi di Marco.
Questo sulla carta. Nella realtà nelle scuole dove i docenti sono cinque o sei non va esattamente così: tutti si danno da fare per concludere prima, per fare al meglio il proprio lavoro. Nell’anno scolastico 2010/2011 oltre 2.000.000 (in totale) di studenti della scuola primaria (di seconda e quinta elementare), delle medie (prima) e per la prima volta delle scuole superiori (secondo anno di tutti gli istituti) sono stati sottoposti all’Invalsi. Nel 2012 è previsto il test anche per la maturità (italiano e matematica) che dovrebbe incidere sull’ingresso nella facoltà a numero chiuso. In 3a media, già nel 2011, l’Invalsi è stato somministrato nell’ambito della prova di Stato.

Com’è nata l’idea dei questionari di valutazione in Italia lo ha spiegato bene su La Stampa dell’11 maggio 2011 Flavia Amabile: “Tutto è iniziato con una mail inviata nell’autunno del 2008 ad associazioni, case editrici, riviste specializzate, esperti di didattica, per invitare i professori di tutt’Italia ad un grande convegno a Roma destinato a preparare la rivoluzione che sta turbando i sogni di molti colleghi, la valutazione di studenti, docenti e scuole sulla base di domande uguali e prove di qualsiasi soggettività. Risposero in 400 circa, si trovarono a Roma a fine 2008 e partì così una macchina capace di sfornare centinaia di test l’anno per studenti dai 6 ai 18 anni. Tutti mobilitati per inviare domande che l’Invalsi avrebbe esaminato, solo il 5% dei docenti invitati al convegno rinunciò. Gli altri andarono avanti in quello che sembrava soprattutto un passatempo: i responsabili dell’Istituto erano stati chiari sui compensi: circa 10 euro lordi a domanda accettata. E le domande accolte sono in media 1 su 4”.
Costo dell’operazione: 3 milioni di euro. Il 60% serve per gli osservatori. Il resto per la macchina operativa: 21 Tir di carta, 45 mila pacchi di domande imbustati e inviati a 115 mila classi da coprire (dati 2011). La sede dell’istituto Invalsi non è a Roma ma a Frascati, nella sontuosa villa Falconieri, la più antica delle ville tuscolane. Lì, sotto la direzione di Dino Cristanini, uomo del Miur da oltre 20 anni, lavorano 25 persone, di cui neanche la metà a contratto a tempo indeterminato.
Sull’utilità della prova in Italia si è aperto un vivace dibattito. Da una parte ReteScuole attraverso una campagna ha chiesto di boicottare i test “...perché esistono competenze e abilità che non si possono misurare. Per loro stessa natura i test tendono a sopravvalutare la nozione più del ragionamento, il dato più del processo. Non misurano la capacità di riflessione critica, la capacità di esporre il pensiero, il livello di partenza e quello di arrivo, la partecipazione. Misurando solo l’acquisizione di una serie di informazioni settoriali, stimolano una frammentazione della didattica, la sua banalizzazione. Esaltando la performance personale mortificano gli sforzi per arrivare alla conoscenza come conquista di gruppo, nata dalla cooperazione più che dalla competizione. Le prove Invalsi sono particolarmente negative nella scuola primaria. Queste prove sono uguali per tutti e tutte, ma nella pratica quotidiana dell’insegnamento invece si è a contatto con bambini reali e con le loro profonde diversità di ritmo e modo di apprendimento. Il linguaggio delle prove richiede una capacità di concentrazione e comprensione che supera quella che riconosciamo nei nostri alunni”.
Molti insegnanti ritengono che il tempo di somministrazione sia troppo limitato. Non solo.
Secondo chi tutti i giorni sta nella scuola “lo sforzo mentale che si richiede per passare da un campo cognitivo all’altro, da un concetto ad un altro, esige che una rete connettiva forte e motivante lo contenga e lo sostenga, rendendolo possibile. Il contesto di somministrazione, senza la presenza delle insegnanti di riferimento, comporta un’evidente interruzione dell’esperienza scolastica conosciuta, creando in alcuni casi stati d’ansia negli alunni più sensibili. Non potendo o volendo partire dalla conoscenza degli indiri...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Riprendiamoci la scuola
  3. Indice dei contenuti
  4. I precedenti
  5. Primo quadrimestre
  6. Secondo quadrimestre
  7. Scrutini e compiti delle vacanze
  8. L’arte del maestro
  9. Glossario. L’abc della scuola
  10. Bibliografia e siti web
  11. Chiosa
  12. Biografia dell'autore
  13. Ringraziamenti