La storia e la lingua: un’osmosi perfetta
Dante è il simbolo incarnato dell’ingiustizia sociale e chi, dunque, meglio di lui poteva denunciare “un caso” di profonda ingiustizia come quella in cui era incorso Pier delle Vigne? Ma come rendergli giustizia se non attraverso la poesia di Virgilio che è sempre presente nel poema? Sarà proprio Virgilio, attraverso l’episodio di Polidoro, a indicargli il modo con cui avrebbe potuto riscattarne la memoria. Tramite, così, la riesumazione dell’episodio virgiliano di Polidoro si creeranno due equazioni: Polidoro starà a Pier delle Vigne come Enea starà a Dante. Enea, infatti, rese giustizia al povero Polidoro, figlio di Priamo, tradito e ucciso proprio per mano del suo ospite, il re della Frigia, Polimestore, e lasciato insepolto sulle rive del mare di Tracia, dandogli finalmente una degna tumulazione. Sì, finalmente, perché presso gli antichi era molto forte la credenza secondo cui, chi non fosse stato degnamente sepolto, avrebbe vagato per il regno degli Inferi senza mai trovare pace. Ugualmente la poesia di Dante dovrà riabilitare moralmente la figura di Pier delle Vigne, caduto in disgrazia del sovrano per l’invidia dei cortigiani. La tumulazione è, dunque, messa sullo stesso piano della poesia perché entrambe devono esplicare la stessa funzione di liberare l’anima del defunto da così profonde ingiustizie che gridano vendetta. La tomba e la poesia, prima in Dante, dunque, che nel Foscolo sembrano assumere il valore di dispensatrici di giustizia oltre quello, naturalmente implicito, di portatrici di eternità alle anime dei defunti.
E di nuovo il poeta si compara con Enea in una missione di cui entrambi sono portatori. Se, però, nel canto II dell’Inferno (cfr. vv. 31-32), il poeta si professava indegno di compiere il viaggio ultraterreno “Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede / Io non Enea, io non Paulo sono”, qui Dante non presenta nessuna remora e si allinea direttamente con Enea.
Il paesaggio, dunque, arido, privo di ordine, lontano da qualsiasi elemento che possa nascere dalla ragione umana, come un sentiero all’interno di esso “da neun sentiero era segnato”, connota fin dall’inizio l’atto del suicidio. Tanto la vita è ordine tanto la negazione della vita è disordine.
Il canto, difatti, non a caso, si apre con la negazione “non” ripetuta in anafora per ben tre terzine (cfr. vv. 1-9) perché questo è il canto della negazione più assoluta: il suicidio. E l’anafora è la figura che ben rende il senso dell’ossessione, l’ossessione in cui ormai è caduta la volontà del suicida. A suggellarne la centralità dell’atto − oggetto del canto − la terzina centrale nel suo interno a sua volta conterrà altre due anafore: la prima sempre contrassegnata dalla negazione “non”, la seconda dalla avversativa “ma”, che spezzerà per ben tre volte il verso in due emistichi. Una rottura, dunque, ben scandita dal suono deciso e perentorio della congiunzione avversativa nel secondo emistichio, che intende contrapporsi in antitesi a tutto ciò che di positivo presentava il primo emistichio. Cfr. vv. 4-6: “Non fronda verde, ma di color fosco / non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti / non pomi v’eran, ma stecchi con tosco”. Da una situazione vitale si passa, dunque, bruscamente a una situazione di non-vita, prodotta proprio da una degenerazione della vita stessa che, isterilitasi, mostra i segni della morte. Quanto ogni paesaggio, che il mondo reale ogni giorno ci presenta, è sempre colmo di vita, tanto questo paesaggio della selva dei suicidi è, invece, sterile, antitetico al concetto di vita stessa: “Non fronda verde… non pomi v’eran”. E quanto i termini linguistici indicanti la vita sono lineari e aperti, contrassegnati dalle vocali “a” ed “e”, “fronda verde”, “rami schietti” tanto risultano oscuri, duri e contorti i suoni dei termini della non-vita col prevalere di vocali chiuse come la “o”, “fosco”, “nodosi”, “involti”, “tòsco”. È da questo intreccio di suoni aspri e duri che prende corpo la descrizione del bosco confuso, intricato, oscuro, paragonato prontamente al paesaggio della Maremma, introdotto anch’esso da lemmi che, per la reiterazione del rotacismo della “r” e della labiale “p”, “aspri sterpi” suonano in modo altrettanto aspro.
Così, dopo l’introduzione paesaggistica della selva dei suicidi, − e sarà come sempre Virgilio a informare Dante su dove si trovino, cfr. vv. 16-17 − la presenza delle “brutte Arpie” è funzionale all’economia del canto: serve a richiamare fin dall’inizio il poema virgiliano e a preparare il lettore agli altri successivi riferimenti virgiliani. Le Arpie, descritte in modo quasi fedele al modello virgiliano, vengono, però, inserite in un paesaggio completamente diverso da quello dell’Eneide. Là il paesaggio delle isole Strofadi, immerse nei flutti, è ameno, solo la sozzezza e il conseguente fetore delle Arpie rompono l’armonia del luogo; qua, nell’Inferno dantesco, la selva è arida, priva di sentieri, orrida, strana. Le Arpie, anzi, contribuiscono a rendere, ancora di più, strano e fantastico il luogo finché Dante, spinto sempre da una sua naturale esigenza poetica a rapportare al reale i suoi parti fantastici, introduce un’efficace comparazione. Il bosco viene paragonato all’aspra e selvaggia Maremma, giungendo così subito ad acquisire, attraverso questo preciso riferimento, la sua naturale concretezza.
La dinamica, poi, del successivo sviluppo del canto è la medesima di quella dell’episodio dell’Eneide: Virgilio, dopo che Dante aveva sentito provenire dal bosco lamenti senza vedere nessuno, pensa che Dante creda che là ci sia gente che voglia nascondersi ai loro occhi.
Al verso 25 “Cred’io ch’ei credette ch’io credessi” troviamo il primo artificio retorico consistente nella ripetizione ossessiva dello stesso verbo “credere”, artificio che ritroveremo nel prosieguo del canto. Il tono deve restare elevato e il ricordo di Piero nelle Epistole è più che presente. Questo artificio, che potrebbe a prima vista sembrare un bisticcio linguistico, risponde in realtà anche all’esigenza, da parte di Dante, di rendere nel silenzio, stabilitosi fra i due poeti, l’intenso reciproco ascolto a livello psicologico del sentire dell’altro. La tensione è così alta e profonda che il poeta non può che rappresentarla con la reiterazione del verbo “credere”, volto proprio alla reciproca scoperta delle sensazioni dell’altro.
Nei versi successivi – cfr. vv. 26-29, le rime nelle terzine sono costituite da termini “difficili”, scelti in modo particolarmente accurato e poco usati nella Divina Commedia (“bronchi”, “tronchi”, “monchi”), che ben traducono l’idea della rottura violenta, della separazione da un’unità originaria. Sono termini che preannunciano la forza straripante del verbo “schiante” del successivo verso 33 che, posto alla fine, conclude con una pausa ben sottolineata la sequenza ascendente dell’atto della rottura. Sono tali gli effetti sonori raggiunti dal verbo che quest’ultimo sembra assumere, pur non avendolo, valore onomatopeico.
Virgilio, infatti, invita Dante a strappare un ramoscello. È la ragione, dunque, che si serve del suo strumento: Dante, appunto. Ed ecco lo straziante urlo di Piero “Perché mi schiante?” Da notare quanto, invece, grazie all’uso dei suffissi vezzeggiativi (“fraschetta”, ramicel”) risulti piena di soave grazia la natura, contrapposta all’agire violento dell’uomo (“schiante”), che ne scardina l’originaria amenità. Ed è, appunto, in questa forte valenza semantica del verbo che sembra racchiudersi tutta la straziante storia di Piero. Una storia che...