1. Una distorsione del regime democratico
1.1
Da troppo tempo ormai gli ambienti politici italiani sono dominati da una preoccupazione che soverchia ogni altra, quella della governabilità. Della democrazia per la verità nessuno vuol dubitare, ma la certezza d’un governo forte, che duri nel tempo con saldo potere dall’inizio alla fine della legislatura, è un obiettivo accanitamente perseguito dalle maggiori forze politiche, non essendo esso ritenuto di alcun pregiudizio per la qualità democratica del sistema. L’atteggiamento che assumono di solito i mercati di fronte ai paesi che mancano di un governo forte e saldo, ha intensificato una preoccupazione di questo tenore dell’attuale mondo politico fin a farla diventare un assillo quasi patologico, di cui occorre attentamente valutare la compatibilità col corretto concetto di una prassi democratica.
L’espediente cui si fa per lo più ricorso per raggiungere siffatto obiettivo, è – come ben noto – il premio di maggioranza, di cui oggi circolano le più strane e complicate formulazioni. Tutta l’ingegneria costituzionale per la verità si è spesa al massimo per rimediare ai pericoli d’ingovernabilità fino a debordare in veri e propri sovvertimenti della Costituzione della Repubblica mentre il meno impegnativo espediente del premio di maggioranza usato per trasformare una maggioranza relativa in una assoluta rimane quello più praticato e di fatto quello che meno ripugna anche all’opinione pubblica. Qui si vuole ciò nonostante mostrare che, anche ammettendo l’esistenza di un problema di governabilità, quell’espediente in realtà ha ben altra finalità e già per se stesso confligge profondamente con i principi della Costituzione italiana e non dovrebbe perciò trovar luogo nel nostro paese, il cui ordinamento fu tracciato a suo tempo dalle forze politiche avversarie del fascismo con ben altri e più seri intendimenti.
1.2
Il primo inciampo è quello con il principio di eguaglianza. Se infatti tutti debbono concorrere alla politica nazionale e questa deve essere conforme agli umori del paese, non si configura come un indebito vantaggio numerico quello assegnato alla forza politica più votata, un vantaggio che per concretizzarsi implica uno svantaggio per tutte le altre forze concorrenti? In questa fase infatti dobbiamo badare all’assoluto rispetto dell’obiettivo primario della rappresentanza democratica all’interno del consesso parlamentare, ossia alla sua aderenza alla configurazione politica dell’intero paese, che non può essere disgiunta dalla volontà popolare così come essa è espressa nella consultazione elettorale: se alteri quella con un qualsiasi premio di maggioranza, violi anche la volontà popolare, ossia la condizione prima di qualsiasi democrazia (come vedremo meglio avanti).
Del tutto diverso è il caso del conferimento di un incarico determinato com’è quello del governo d’un paese, per il quale al contrario il soggetto incaricato deve essere unico in quanto portatore non di una funzione di rappresentanza politica di diverse componenti ideologiche, ma di un mandato ad agire in forme già predefinite dall’organo legislativo, ossia di una funzione che giustamente presuppone per il suo miglior esito omogeneità o unicità nel soggetto incaricato della sua esecuzione.
Chi non riesce a tener ben distinte le due funzioni, quella di definizione delle linee di azione del governo e quella della sua esecuzione, potrebbe ancora esser guidato verso una posizione più corretta e meditata se invitato a rispondere alla seguente domanda: poiché si ha tanta cura soprattutto della possibilità di formare un governo efficiente, perché non si propone al voto popolare l’elezione di tale governo saltando a piè pari quella di un parlamento? Se si identifica la democrazia con la prassi del voto popolare a scadenza prefissata, sarebbe del tutto compatibile con tale presupposto – e molto più semplice – la sola elezione diretta del governo ed essa darebbe la garanzia massima di un governo del tutto esente da pericolo di ribaltoni, voti di sfiducia, bracci di ferro con il parlamento, insomma da qualunque pericolo di una fine prematura o anche solo di menomazione di un suo forte ruolo di guida del paese.
La replica scontata è quella del repertorio classico: il parlamento è necessario al controllo sull’operato del governo. Occorre però aggiungere allora per coerenza di argomentazione che perché tale controllo sia effettivo e non di facciata, v’è necessità che i controllori siano in una posizione altra rispetto al governo. E quale garanzia di tal genere potrà mai essere fornita da un gruppo politico già saldamente organizzato attorno a un candidato premier e – per ripetere l’orribile gergo calcistico oggi usato – attorno alla sua squadra – o, nella migliore delle ipotesi, da una coalizione che sia stata beneficiata con l’attribuzione di una maggioranza assoluta, ossia con un potere più saldo di quello meritato con l’effettiva pronuncia elettorale e che sia perciò oltre modo sollecita, per la conservazione del maggior potere così conseguito, della massima coesione possibile col governo proposto all’elettorato piuttosto che della correttezza dell’operato di esso? Sfugge qui la percezione del fatto reale che si verifica in tal caso, ossia che con una coalizione la cui sopravvivenza sia legata alla sussistenza del governo inizialmente proposto, il parlamento configurato secondo un premio di maggioranza non mantiene più una funzione di controllo, ma assume quella di una corte del principe assolutamente solidale, per quanto riguarda la sua frazione maggioritaria, con la volontà del suo leader e pronta a soddisfare ogni sua per quanto arbitraria decisione; ben altro che quella funzione di controllo e di censura che si vorrebbe propria di un parlamento vigile e critico! Sotto questo riguardo darebbe una garanzia assai maggiore un sistema come quello statunitense, nel quale l’elezione del presidente è distinta da quella delle due camere e non permette perciò il formarsi automatico di una cordata solidale tra lui e la maggioranza presente nel Congresso.
1.3
Di quanto qui si intende affermare, abbiamo un riscontro offerto dalla nostra storia recente, un riscontro comico per i compilatori delle cronache nazionali, tragico per chi ha a cuore le sorti di questo paese: si tratta dell’approvazione da parte della maggioranza del parlamento nel 2011 della ridicola tesi della presunta nipote di Mubarak sostenuta dall’allora presidente del consiglio per cavarsi fuori da una assai ridicola e compromettente storia personale, una tesi che ha esposto la nostra repubblica allo scherno internazionale.
Nessuna migliore conferma del fatto che in un sistema politico congegnato secondo il premio di maggioranza conferito a uno schieramento solidale con un leader come garanzia di guida salda e capace il parlamento – o meglio la maggioranza artificiale di esso – diventa necessariamente una corte del principe e non un organo distinto capace di un controllo effettivo dell’esecutivo. La comune sorte che lega l’uno all’altro – se cade l’uno, cade anche l’altro e giustamente dato che ambedue sono scaturiti da un’unica consultazione elettorale – induce un comune interesse a sostenersi a vicenda e non un atteggiamento di vigilanza dell’uno nei riguardi dell’altro. È vero che un sistema maggioritario non prevede necessariamente il collegamento di uno schieramento di partito o di coalizione con un candidato premier; così è oggi per la nostra costituzione, che però fu organizzata secondo un impianto ben diverso ed è oggi sforzata in una direzione alternativa da apprendisti stregoni che non si sono nemmeno curati di chiarirsi bene quale fosse quell’impianto. Il collegamento tra schieramento e premier però viene a stabilirsi spontaneamente e inevitabilmente perché risponde alla ratio propria di un sistema elettorale maggioritario.
Quando si abbandona lo schema disegnato dalla vigente carta costituzionale, ovvero quello imperniato sulla rappresentanza proporzionale delle concezioni politiche e si privilegia in qualunque modo l’esercizio del potere con la forzatura artificiale dei rapporti tra le forze in campo, è inevitabile lo svilupparsi della tendenza a massimizzare la scelta operata e un espediente dei più efficaci al fine di ottenere il massimo consenso per il potere indipendentemente dalle idee professate è quello di ammaliare le masse con le qualità estetiche di un candidato attraente. Di qui l’attuale costume, privo a oggi di una corrispondente norma presente nella carta costituzionale, di legare la presentazione delle liste all’indicazione di un capo del governo, la cui sorte sarà perciò tutt’uno con quella della lista collegata. E poiché a far cassetta di voti tutto torna utile, si arriva a proporre come candidato premier personaggi dalle qualità più varie e irrilevanti – quando non di dubbia compatibilità con una buona politica – come l’essere stato un famoso sportivo, un imprenditore di successo, un attore di grande notorietà.
Ciò che importa infatti per raccogliere voti è il peso mediatico del personaggio, qualunque sia il modo con cui è stato conseguito, non il pregio politico della sua collocazione ideologica. Ciò che importa per chi è approdato a tale aberrante concezione della politica è infatti l’imperium, la capacità di un comando saldo, per il quale ogni mezzo è buono, a scapito della buona qualità del potere, che solo una ben organizzata consultatio, ossia una preliminare discussione che richiede doti intellettuali e attitudine alla riflessione, consente di ottenere.
Ciò che consegue a tale preminenza teorica e pratica dell’imperium è lo scadimento del ruolo del parlamento come espressione degli umori del paese e conseguente luogo di dibattito. Quale efficace dibattito può esserci tra una maggioranza blindata e già provvista di un governo saldo e sicuro per tutta la legislatura e una minoranza penalizzata per la riduzione della sua reale incidenza a seguito del meccanismo maggioritario e quindi impotente di fatto? Tutto è deciso al momento del voto e il resto scade a puro rito mantenuto per uno svogliato e di fatto inutile rispetto della tradizione istituzionale, che ancora non si ha il coraggio di alterare formalmente in un punto così fondamentale.
La nostra storia politica recente testimonia la deriva naturale del sistema maggioritario in un sistema a premierato fisso in cui l’unica nota da spendere come residuo vestigio democratico è l’evento delle elezioni, che però non integra un sistema compiutamente democratico e di sicuro non integra il sistema disegnato dalla nostra carta costituzionale, come avremo modo di vedere alla fine di questo scritto.
Questa lenta trasmutazione di un sistema sostanzialmente democratico in un’autarchia certamente a tempo – e tuttavia pur sempre autarchia – iniziata con la cosiddetta seconda repubblica e proseguita fin a oggi grazie anche alla dabbenaggine di una sedicente sinistra improvvida e incompetente, è stata resa possibile perché presentata addirittura – con una studiata manipolazione del consenso – come autentico compimento dell’ideale democratico! In realtà affermatasi invece solo grazie all’oscuramento totale della imprescindibile distinzione, presente chiaramente nel nostro dettato costituzionale, tra rappresentanza politica democratica del paese e governo dello stesso. Quando questi due concetti finiscono per sovrapporsi e confondersi, l’idea democratica del potere tende a scomparire poiché si affievolisce il meccanismo essenziale della democrazia, quello che consiste nel garantire alla qualità dell’azione del potere almeno pari importanza quale è quella attribuita alla sua efficienza (ma di ciò più avanti).
1.4
Si potrebbe obiettare che il pericolo qui intravisto nel premio di maggioranza, ossia la riduzione della maggioranza parlamentare a un seguito acritico e prono ai voleri del capo del governo, esiste anche e a maggior ragione nel caso di una maggioranza assoluta che esca già tale come responso dalle urne. Non è un’obiezione ben posta. Perché si presenti il pericolo, occorre oltre che una maggioranza bulgara anche un collegamento inscindibile tra la maggioranza e il capo dell’esecutivo. Ed è anche corretto replicare che, di tutta evidenza, la possibilità di una degenerazione del sistema democratico insita in un caso particolare, quello della maggioranza assoluta di una componente politica, non deve, proprio perché tale, esser allargata con un espediente che la estenda alla generalità dei casi, ma la si deve contrastare con appositi correttivi da applicare nei casi particolari in cui ha modo di prodursi. Con quell’obiezione il premio di maggioranza non solo non riacquista un qualche senso positivo, ma rivela quello suo profondo, un senso perverso dal momento che esso non fa che estendere alla generalità dei casi un effetto negativo che si verificherebbe solo in condizioni particolari.
In altre parole esso permetterebbe in ogni caso un’alterazione del sistema, ossia quel dominio della maggioranza sottratto a qualsiasi azione critica e di controllo efficace, rimanendo l’unica azione di tal genere quella esercitata dagli elettori alla fine del mandato, che però configura l’ipotesi sopra prospettata come assurda, ossia lo scadimento del parlamento a semplice impaccio all’azione più efficace del governo (che è, per esplicita ammissione, il concetto che di tale organo ha avuto il soggetto responsabile dell’involuzione autocratica degli ultimi venti anni della vita democratica di questo paese). C’è infine da dire che l’eventualità di una maggioranza assoluta ottenuta da una sola forza politica all’interno di un consesso parlamentare è cosa assai difficile a verificarsi in un sistema rigorosamente proporzionale e ciò è tanto vero che questo sistema è stato sostituito proprio per evitare un frazionamento dell’arco parlamentare non atto a garantire la possibilità di sicure e stabili maggioranze.
1.5
L’obiezione sopra immaginata scopre tuttavia un altro lato notevole della questione, nemmeno questo in verità idoneo a riguadagnare un qualche senso positivo al meccanismo del premio di maggioranza; tutt’al più ne riduce di poco l’effetto perverso scoprendo un altro espediente che con esso concorre all’esito negativo qui denunciato.
Perché infatti si produca in una maggioranza assoluta che è tale già fin dal responso delle urne, quel forte legame col capo del governo capace di render il parlamento il suo sgabello anziché il suo supervisore, perché insomma si verifichi l’effetto Mubarak, occorre anche un sistema politico bipolare o, ancor meglio, bipartitico. È questo infatti il modello istituzionale che, riducendo a due gli schieramenti politici del consesso parlamentare e del paese, permette sì una semplificazione massima del giuoco democratico, ma con un effetto che a sua volta lede per più versi la democraticità del sistema e – contrariamente a quanto è stato da sempre sostenuto – la sua stessa efficienza. Di tale effetto perverso però il mondo politico italiano non riesce a percepire la pericolosità essendo fortemente ammaliato dal prestigio del sistema anglosassone, che appunto è conformato per lo più secondo il modello bipolare e che, non essendo stato mai affetto da esperi...