L'aria di casa
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L'aria di casa

About this book

Una traversata del Novecento tutta al femminile, articolata in quattro episodi
ambientati tra il 1906 e il 1959. Tessera dopo tessera, come in un gioco ad incastro i cui pezzi vanno a posto soltanto alla fine, le voci delle narratrici si alternano raccontando il cuore profondo di un Veneto bigotto, classista e feroce. Raccontano storie di sopraffazione e di follia, raccontano di crimini compiuti nell'impunità delle mura domestiche. Raccontano di chi sopravvive, e di chi non può farcela. Da un episodio all'altro, i personaggi ricompaiono in età e in ruoli diversi, in un continuo spostamento dei punti di vista.
Un viaggio alla ricerca delle origini, e un ritratto di famiglia nell'aria soffocante della provincia italiana, prima che la finestra del '68 si spalanchi.

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Information

1 agosto 1959

Il giorno successivo alla notte in cui papà si è ficcato una pallottola in testa è un sabato di sole radioso. Non c'è un filo di vento. Il caldo è insopportabile. Per strada i passanti sono rari, molta gente è già andata in vacanza. Nonostante la calura, nella cucina in penombra della nonna gli oggetti brillano quietamente in una luce da interno olandese, le casseruole sui fornelli, il vassoio d'argento con le tazzine semivuote, i bicchieri di cristallo sulla credenza. È quasi mezzogiorno. L'Angela è seduta al tavolo al centro della stanza; sta strofinando una grande pentola di rame che abitualmente è appesa alla cappa del camino. Addosso ha un grembiule nero lungo fino ai piedi, e sopra una traversina di pizzo legata strettamente in vita. L'Angela è molto vecchia, praticamente decrepita, anche se sarebbe arduo darle un'età precisa. Strofina la pentola con grandissima cura. Ogni tanto si ferma come per ascoltare, ma in cucina non arrivano rumori, gli unici suoni sono l'occasionale tubare dei piccioni sul davanzale di fronte e il borbottio delle pentole sul fuoco, perché cascasse il mondo all'una si va in tavola. Mentre strofina, l'Angela mormora fra sè degli spezzoni di frasi, snocciolandoli come grani di rosario, un'indistinta giaculatoria in cui ricorre il termine “poareti”, e “maria santa”, a cui si aggiunge a tratti “la povera putea”. Perché proprio questa mattina abbia deciso di lucidare i rami, senza che nessuno si sia sognato di chiederglielo, non lo saprebbe dire neanche lei. Strofina con movimenti automatici ma esatti, sempre uguali, come in cadenza. Non sta veramente pensando. O piuttosto, sta pensando da ore un unico pensiero circolare.
La cucina, cosa non infrequente nella struttura irrazionale delle case antiche, si trova in fondo alla casa, alla fine di un corridoio semibuio che dall'altro lato affaccia sulla terrazza coperta. Oltre la cucina c'è solo la stanza dell'Angela, dove nessuno a parte lei mette mai piede, e poi una stanzetta oscura adibita a un uso imprecisato, in cui si accatastano vestiti vecchi, collane veneziane di corallo che per qualche motivo non vengono indossate, cappelli fuori uso. In queste viscere estreme della casa regna il silenzio, e una semioscurità quasi claustrale. Nessun visitatore maschio si avventura fino a questi recessi. Solo l'Angela e qualche sguattera avventizia, da lei trattata con disdegno. Qualche volta la sarta, quand'è chiamata per fare dei restauri. Raramente la nonna, il cui regno è piuttosto la zona dei salotti.
Dalle remote lontananze dell'ingresso arriva il suono del campanello, ma l'Angela non lo sente, negli ultimi anni il suo udito è peggiorato parecchio. Continua a strofinare. La scampanellata si ripete, più violenta. Stavolta l'Angela la sente, e faticosamente comincia ad alzarsi. Posa la pentola sul piano di marmo del tavolo, si appoggia allo schienale della sedia con la mano nocchiuta dalle vene in rilevo, e zoppicando e strascicando i piedi lentamente si avvia attraverso il corridoio, passando per le porte a vetri colorati del tinello, oltre il salotto dai pavimenti di marmo bianco e nero, fino allo scuro, trionfale e gigantesco salone d'ingresso. Nel corso del suo lento tragitto il campanello squilla di nuovo. Lei borbotta fra sè: “quanta furia! so drio rivar”, e finalmente, con flemma esasperante, continuando a borbottare a intervalli, arriva al portone e lo apre. Si sente fuori campo una voce di donna, con un'intonazione interrogativa. L'Angela risponde “I xe tuti al piano de sora”. L'invisibile interlocutrice pronuncia qualche altra parola, l'Angela dice “sì, siora”, poi richiude la porta, e si appresta sospirando a rifare in senso inverso la sua traversata. In quell'istante, le campane del duomo cominciano a suonare mezzogiorno.
“La prima cosa da fare in un momento come questo” dice la nonna “la prima cosa da fare, Luisa, in un momento come questo...” ma non riesce a finire la frase. In effetti, di quale sia la prima cosa da fare in un momento come quello la nonna non ha la benché minima idea. Perlappunto il verificarsi di un momento come quello, nella sua vita finora abbastanza ordinata e priva di sorprese, costituisce un evento inconcepibile, che semplicemente non dovrebbe rientrare nell'orizzonte delle possibilità. Nel dire quella frase, ha soltanto obbedito al suo istinto radicato di madre e di padrona di casa, che le impone di mettere ordine in qualunque angolo minacciato dal caos. Questa mattina però ha la sgradevole impressione che le oscure acque del caos abbiano circondato la sua vita da tutti i lati, svelandone all'improvviso il fragile perimetro. Quello che lei credeva un territorio esteso e ben protetto si è rivelato un'isoletta minuscola, poco più di uno scoglio assediato dai flutti.
La mamma non dice nulla. È seduta sul divano, nel salotto di quella che fino a stamattina era la sua casa coniugale. Qui la luce del sole estivo penetra senza pietà, siamo al piano superiore, e a nessuno è venuto in mente di chiudere le persiane. La mamma è ancora in vestaglia, una vestaglietta di cotone a fiori, che adesso è macchiata di caffé perché quando ha trovato papà aveva in mano il vassoio della colazione. Siede su quel divano da parecchio tempo. Ha gli occhi aperti, ma sono aperti su una scena che non ha niente a che vedere con quello che ha di fronte.
“Hai preso i tranquillanti che ti ha dato il dottor Valli?” chiede la nonna.
“Sì” dice la mamma. Per un attimo sembra che si riscuota.
“Dov'è la bambina?” dice.
Io sono nella mia stanza, occupata a giocare con un cane nero di peluche che all'aspetto lungo e schiacciato si direbbe un bassotto. Ho due anni e mezzo. Non è un'età in cui si possa essere di grande aiuto, in un momento come quello. In camera con me – no, non mi hanno lasciata sola – c'è la Francesca, seduta sul letto, che si fuma una sigaretta in santa pace. La Francesca è la babysitter, anche se questo termine ancora non si usa. Ha lunghi capelli lisci color miele – tinti, si distingue chiaramente la ricrescita scura alla base – che le piovono sul viso lasciandole scoperta la bocca imbronciata. La Francesca è di pessimo umore. Fuori è una giornata stupenda, e lei aveva in programma di andare a Sottomarina con un suo fidanzato. La Francesca ha parecchi fidanzati. Viene da una famiglia contadina poverissima, ultima di molti fratelli. Sua madre è molto anziana. Lei non vuole fare la stessa vita di sua madre, per questo è venuta in città. Tra un paio d'anni, infatti, avrà una figlia da un aviatore americano di stanza a Vicenza, che la abbandonerà senza pensarci un secondo. Tutto questo al momento non possiamo saperlo, né io né lei. Io mi limito a giocare col cane di peluche, e lei ad essere di pessimo umore. Non che sia del tutto insensibile. Quel che è accaduto le provoca un misto di eccitazione e di spavento, e un po' le dispiace per mia madre, che ha solo pochi anni più di lei ed è già vedova. Non riesce proprio a figurarselo, cosa si provi ad esser vedova. Scrolla la cenere fuori dalla finestra, e si scosta dagli occhi l'onda dei capelli. Certo fa caldo. Speriamo che non le tocchi restar qui fino a stasera. Le campane hanno cominciato a suonare, dev'essere già mezzogiorno.
Il nonno fa una timida comparsa in salotto.
“Clara?” dice.
“Sì?” dice la nonna, senza distogliere lo sguardo da sua figlia.
“Io quasi quasi andrei di sotto” dice il nonno “se non avete bisogno di me”.
“Sì, caro” dice la nonna “tu vai, che tra poco scendiamo anche noi”.
Il nonno sollevato si avvia verso l'uscita.
In quel momento suonano alla porta.
“Lascia stare, Francesca” dice la nonna ad alta voce “apro io”, e si dirige velocemente all'ingresso, sorpassando il nonno che sosta irresoluto non sapendo se può svignarsela o meno.
La nonna apre la porta, e la signora Tancredi si precipita fra le sue braccia come un bolide, stringendola furiosamente al petto.
“Povera Clara” dice, scoppiando in singhiozzi.
“Cara Elda” dice la nonna, che finora era riuscita a non piangere, e tutt'a un tratto le si spezza la voce.
Madonna mia, pensa la signora Tancredi, correndo, per quel che la sua mole le consente, o meglio arrancando nella gran calura, madonna mia. Il sudore le scorre a rivoli giù per la faccia imbellettata, e lei ogni tanto si ferma per tamponarsi la fronte con un fazzoletto, che poi adopera per sventolarsi, del tutto vanamente. Il vasto petto della signora Tancredi si alza e si abbassa nell'affanno. Che disgrazia, pensa la signora Tancredi. Non si era mai sentita una disgrazia così. Non sono cose che succedono, queste, alle persone perbene. Per un attimo cerca di immaginarsi al posto della povera Clara – ormai definitivamente la povera Clara, per tutti gli anni a venire: se il marito della sua Paola, ad esempio... No, non si riesce nemmeno a pensarlo. Il marito della Paola, una cosa così non la farebbe mai. Certo, lui non è mica un intellettuale. Non è nemmeno laureato, se è per questo. Ma il marito della Paola non ne ha bisogno, della laurea, ha la fabbrica di biscotti del padre, lui. Che è molto meglio della laurea. Adesso, con questa smania di mandare le figlie all'università, guarda un po' qua che bei risultati. Le figlie della signora Tancredi non ci son mica andate, all'università. Già tanto che han finito la scuola. Invece la Luisa a scuola andava bene, la Clara ne era tanto orgogliosa, e tàcchete l'hanno mandata all'università, e adesso guarda un po' che razza di risultati. Alla fine era meglio se era asina. Così si trovava un marito come quello della Paola, uno che viene da una famiglia che si conosce, gente come si deve, solida, senza grilli per la testa, e che non riserva delle brutte sorprese. Non che questa sia proprio una sorpresa. Gliel'avevano detto tutti, alla Clara. E lei ci aveva provato, a far ragionare la Luisa. Ma la Luisa figurarsi, diceva che erano tutte sciocchezze. Pregiudizi. Roba da ignoranti. La Luisa è una che vuol far di testa sua. Non c'era verso che ascoltasse nessuno. Anzi, più cercavano di convincerla, più lei s'intestardiva. E adesso guarda che razza...
Arrivata finalmente in vista del duomo, la signora Tancredi si ferma ansimando sotto i portici. Manca poco, per fortuna. Che afa. Si deterge ampiamente il viso e la scollatura, emettendo un: “ah, povera me”, mentre alle sue spalle, dall'oreficeria all'angolo, esce grasso e scarmigliato il padrone. “Gala savesto?” proferisce con cautela. “Ho saputo” risponde solenne la signora Tancredi, ostentando l'uso dell'italiano, che in una simile circostanza le pare più indicato, e comunque non le va di dar confidenza all'orefice, un mezzo artista, un fanfarone, anche lui un intellettuale, con tutta probabilità. “Sto andando là proprio adesso”.
“Gera un mio amigo” proclama l'orefice, in segno di preventiva polemica contro chiunque si sognasse di fare dei commenti malevoli. “Poareto” aggiunge, e gli scende una lacrima. “Un omo bon, se ghe ne gera uno”.
“Ah, per buono era buono, poveretto” dice la signora Tancredi, e si fa il segno della croce. “Adesso devo andare” aggiunge, e prosegue maestosa la sua traversata, un po' rinfrancata dalla sosta, seminando una scia di forcine che le spuntano dalla crocchia biondo platino, da cui fuo...

Table of contents

  1. L'aria Di Casa
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. 14 agosto 1906
  6. 21 giugno 1925
  7. Aprile 1938
  8. 1 agosto 1959