Sulla soglia dell’emancipazione: le letterate
di Jolanda dalle Tre Marie alla Perla * – Ombretta Frau
«Io sono una donna che scrive! e che legge anche! e, quel che è peggio, che medita su quello che ha letto»
In uno studio sulla biblioteca di uno dei personaggi più affascinanti di Antonio Fogazzaro – la controversa Marina di Malombra – Franco Fido rileva:
Come quella di Emma Bovary […], questa [biblioteca] di Marina è una specie di istantanea dei gusti correnti, bloccata sul presente: vi domina la Moda, e se pensiamo alla sorte di Marina e di Emma alla fine delle loro storie siamo tentati di ricordare l’accoppiamento leopardiano di Moda e Morte. I libri della contessina di Malombra sono “un fascio di ogni erba, molto più di velenose che di salubri”.
In maniera non dissimile, nelle novelle e nei romanzi di Jolanda, fervente ammiratrice dell’opera del maestro del Decadentismo, l’onnipresente figura della donna intellettuale viene definita non solo attraverso ciò che essa legge (e, in alcuni casi, scrive), ma anche (e soprattutto) attraverso ciò che ‘non’ dovrebbe leggere.
Nelle sue opere, nella saggistica come nella narrativa, nella graduatoria delle letture da evitare troviamo libri scabrosi (specialmente romanzi francesi) e, tra gli autori italiani, Carolina Invernizio, la prolifica autrice stella di punta dell’editore Salani. A riprova di ciò possiamo leggere la pagina di un romanzo del 1906, Dopo il sogno, in cui la famiglia Albegna, dopo aver fatto la conoscenza della celebre Viola D’Alba, la solitaria scrittrice che vive appartata in una villa poco distante, discute di scrittura femminile contemporanea:
– Ma se quella signora scrive dei libri, il suo daffare lo avrà certo – fece Enzo nella segreta intenzione di far piacere alla sorella […]. – Che sia più brava di Carolina Invernizio? domandò la signora Albegna. Dicono che è molto brava Carolina Invernizio.
Nessuno in casa Albegna aveva letto libri di Carolina Invernizio e la questione posta dalla ottima madre di famiglia non potè essere risolta.
Con questa sferzata, inusuale per un’autrice abitualmente misurata, Jolanda si riserva il diritto di attaccare la collega mettendo, allo stesso tempo, al centro della narrazione la questione delle scelte di lettura adeguate per le classi medio-alte della società italiana del tempo. In un periodo, quello fra i due secoli, che vede le (giovani) donne in cima alle classifiche dei lettori più entusiasti, tanto da far parlare di «progressiva femminilizzazione della lettura», non sorprende che nelle pubblicazioni di carattere femminile si affronti il problema delle letture più adatte alle fanciulle insieme a quello (più spinoso) della letterata di professione:
Nel “romanzo rosa” ricevono concreta risposta attese, aspettative, semplici domande che le lettrici non riescono a formulare e, per cui, comunque, raramente hanno potuto individuare destinatari o interlocutori. […] Già all’origine il romanzo rosa non si pone mai unicamente come veicolo di fuga o di consolazione, le autrici consigliano schemi di comportamento, tattiche, strategie, pur con l’aria di fornire solo svaghi spensierati e fuggevoli.
«Il genere letterario peccaminoso per eccellenza» – afferma Lucia Cusmano – era infatti il romanzo, e un certo tipo di romanzo in particolare, sensuale, eccessivamente sentimentale e privo di quegli elementi essenziali per la dottrina borghese ottocentesca – famiglia, educazione, lavoro, sacrificio –. Ecco perché, insieme al cibo e agli abiti, le abitudini letterarie delle giovinette venivano accuratamente monitorate:
[…] la lettura delle donne è oggetto di severo controllo da parte dell’autorità religiosa, se non addirittura proibita: è il caso del romanzo […]. Diseducativo e comunque superfluo, esso può traviare l’animo della fanciulla, facile preda dei cattivi modelli, può distoglierla dai doveri religiosi, renderla disubbidiente, sognatrice, capricciosa.
In Italia emblema di questo modello negativo era la popolarissima Invernizio. Ciò spiega l’atteggiamento polemico di Jolanda in Dopo il sogno e, al tempo stesso, alla luce di quanto appena osservato, la schietta ingenuità della signora Albegna – una «rispettabile ma ignorante donna» – ancora non assuefatta alla nuova condizione di benessere della famiglia.
Jolanda si spense nel 1917. Un censimento completo delle sue pubblicazioni – fu anche conferenziera, nonché direttrice di più d’un periodico, fra cui «Cordelia» – sarebbe impresa ardua. Sebbene, nel complesso, la sua produzione si collochi perfettamente a cavallo fra l’Otto e il Novecento e abbia probabilmente pubblicato più nel ventesimo secolo che nel precedente, è innegabile che – per le tematiche trattate e, soprattutto, per lo stile – Jolanda sia una delle autrici-simbolo dell’Ottocento letterario. Si potrebbe addirittura affermare che appartenga a quel lungo Ottocento di cui ha parlato Eric Hobsbawm, un’anomalia che caratterizza un po’ tutta la produzione letteraria femminile italiana, cospicua e stimolante ma dai tratti non sempre innovativi. Vengono in mente le parole di Claudio Marabini che ha giustamente rilevato:
[…] l’incapacità della nostra letteratura in genere e quindi anche di quella femminile, ad autoproporsi, a dichiararsi in piena luce, a definirsi nei motivi profondi, e allo stesso tempo a guardarsi allo specchio e a dire ‘io’ nel bene come nel male.
Da tempo una frangia dei Women’s Studies esamina il fenomeno della letterata nella scrittura (femminile) fra i due secoli, basterà qui fare riferimento a un saggio di Graziella Pagliano in cui si ricorda come, in alcuni fra i maggiori autori di fine Ottocento solitamente «le donne colte non esercitano alcun mestiere». Si pensi alle tante eroine delicatamente dotte del D’Annunzio, del già citato Fogazzaro, di Verga o dello stesso Pirandello il quale, forse più di altri, ha dato spazio – con la felice creazione di Silvia Roncella in particolare – all’erudizione al femminile.
L’obiettivo di questo capitolo è un’analisi delle opere di Jolanda che mettono al centro la figura della letterata. Nelle prossime pagine seguiremo un filo che, senza mai spezzarsi, ci porterà dal primo romanzo Le tre Marie (1894) all’ultima fatica, terminata poco prima della morte, La perla (1916), attraverso alcuni altri lavori, Le spose mistiche (1898), La maggiorana (1903), Dopo il sogno (1906). Nel primo e nell’ultimo romanzo, sullo sfondo di due città a lei care, Bologna e Ferrara, operano diverse figure di donne segnate da sacrificio, grandi passioni e, nel caso di Perla Bianco (protagonista de La perla), tragedia: sono loro stesse scrittrici e «si muovono all’interno di una trama ben delineata, in luoghi minuziosamente descritti, in una cornice temporale inequivocabile», retaggio di un modo di fare letteratura più ottocentesco che novecentesco.
Jolanda, sarà il caso di ribadirlo, è fermamente convinta della forza del valore educativo (o diseducativo) della lettura. Si tratta di una delle ragioni (le altre vanno ricercate nell’ambito delle riforme sociali legate alla questione dell’istruzione obbligatoria nell’Italia postunitaria) per cui sovente la scrittrice delinea il carattere dei suoi personaggi attraverso le loro preferenze letterarie. E lo fa a partire dal primo romanzo di successo, Le tre Marie, opera in cui si segue la vita di tre giovani donne bolognesi accomunate dallo stesso nome ma separate da origini e aspirazioni diverse.
Delle ‘tre Marie’ del titolo, quella che merita la nostra attenzione è Maria Carletti, vero e proprio alter ego dell’autrice, con cui condivide – a parte il nome – il talento per la scrittura e la personalità, ma dalla quale è separata dal vasto varco della differenza di classe. Allieva prediletta del Carducci e profondamente rispettata nel mondo delle lettere bolognesi, Maria Carletti incarna l’ideale femminile di Jolanda: colta, altruista, non bella e non frivola ma dotata della sensibilità di un esteta, forse anche perché (Jolanda tiene a precisarlo) nelle sue vene scorre del sangue aristocratico. Il fatto che una ragazza di origini modeste come Maria Carletti sia istruita è di per se importante, in quanto espressione del pensiero di Jolanda riguardo all’educazione delle donne, secondo i precetti del selfhelpismo:
Quindi la necessità di una solida istruzione di base che fortifichi la volontà, dirigendola verso obiettivi razionali e socialmente utili. L’esortazione a coltivare i beni dell’intelletto, anziché risolversi in un generico appello ad apprendere i rudimenti del leggere e dello scrivere, si arroga il compito di confutare assurdi e radicati pregiudizi […]. La sequenzialità degli argomenti lascia intendere che le “avide menti”, saziata l’atavica fame, si rivolgeranno, ritemprate e fortificate, alla realizzazione del motto che predica una sincronica identità tra “volere” e “potere”. Il declamato progetto di riscatto morale ed intellettuale viene esteso anche alla donna, in quanto si riconosce che “Non è la lettura, non è il lavoro, non è l’esercizio dell’intelletto che guasta la donna, ma l’inerzia, l’ozio, la vanità della mente”.
Le riflessioni di Adriana Chemello in merito all’opera del Lessona sono facilmente conciliabili con la narrativa di stampo pedagogico di Jolanda, c...