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Dimensioni del soggetto nella Fenomenologia dello spirito di Hegel

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Dimensioni del soggetto nella Fenomenologia dello spirito di Hegel

About this book

Nella nostra epoca ormai priva delle certezze metafisiche tradizionali, lo studio della dimensione morale della soggettività nella Fenomenologia dello spirito di Hegel significa porsi come oggetto di indagine uno tra i temi di maggiore interesse filosofico, proprio per la sua stretta attualità. Hegel affronta la questione morale in modo particolarmente profondo, consapevole sia degli aspetti contraddittori e drammatici di tale esperienza, sia della centralità del motivo dell'«oltre». Sulla base di tale tesi interpretativa, le analisi del testo hegeliano condotte in questa ricerca sono dedicate a mettere a fuoco le esperienze di costituzione e legittimazione del soggetto assieme alle conseguenze inattese derivanti dal rapporto problematico che la coscienza instaura con l'immobilità autosufficiente della sostanza. Ne fuoriesce uno studio storiografico e teorico che si inserisce efficacemente nel dibattito contemporaneo sulla grande attualità del pensiero di Hegel. Riccardo Roni, dottore di ricerca in Filosofia, è docente a contratto di Didattica delle scienze naturali nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l'Università di Urbino "Carlo Bo". Studioso di Hegel e Nietzsche, si è formato nelle Università di Pisa e Firenze, specializzandosi presso la Scuola Internazionale di Alti Studi in Scienze della Cultura della «Fondazione San Carlo» di Modena. Tra le sue recenti pubblicazioni: La persistenza dell'istinto. Pulsioni vitali dell'esistenza, presentazione di R. Bodei (Pisa 2007); Della soggettività morale. Tra Hegel e Sartre (Perugia 2011); La costruzione dell'identità politica. Percorsi, figure, problemi (a cura di) (Pisa 2012).

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Capitolo 1
Soggetto e autocoscienza: aspetti normativi
1. L’inconsistenza che Hegel fin dal primo capitolo della Phänomenologie des Geistes dedicato alla discussione della «certezza sensibile»1, ci invita ad attribuire alla realtà che egli chiama «coscienza» non è casuale. Hegel osserva che una coscienza unicamente sensibile – cioè priva della capacità di astrazione e categorizzazione – non potrebbe conoscere i dati in modo integrale senza scoprirsi in contraddizione con se stessa, finendo per attribuire ai propri correlati empirici significati riconducibili a categorie astratte come essere, qui, ora. Questo limite della coscienza non può essere tuttavia considerato una prova di insussistenza giacché nell’illusione della certezza sensibile appare una verità morale alle spalle della coscienza, seppur in forma del tutto impropria: il soggetto si trova collocato nello spazio al di qua (Diesseits) della sostanza, cercando di appropriarsi delle sue condizioni improprie e che non le consentono ancora di svelarsi appieno. Vedremo perché la coscienza nel suo percorso fenomenologico cerca ad ogni costo di farle parlare a suo favore.
La dialettica obbliga la certezza sensibile a tematizzare naturalmente dati tanto poveri (questo, questi) da risultare continuamente oltrepassati; così, grazie ai concetti2 che consentono di unificare e interpretare una miriade di impressioni visive – le quali non offrono niente di più che un «questo» che è un «qui» e un «ora» – la coscienza va progressivamente scoprendo la verità del suo «al di là». Divenire coscienti in Hegel non può significare altro che farsi interpreti della «forza attiva» della coscienza, la quale si spinge nella vertigine del suo al di là, per far poi ritorno in se stessa, giacché essa non si abbandona mai, muovendosi come un’altalena, fra il suo «al di qua» sensibile e il suo «al di là», inizialmente senza potersi risolvere in una sintesi definitiva (sapere assoluto). Solo se si riconosce nel «questo-qui-ora» non uno stato puntuale ma una maniera di pensare riferibile ad un’infinità di stati diversi, si scopre che il «questo», il «qui» e l’«ora» si danno effettivamente come categorie, mediante un linguaggio che ha una sua logica ben definita e implica un modo di organizzare la presenza del soggetto nel mondo: il ‘lavoro della ragione’ è già in atto.
Con il passaggio dal «puro auto-riconoscersi» al reciproco riconoscimento Hegel cerca di compiere un importante passo in avanti verso l’unità dell’autocoscienza con l’«oltre» della coscienza3, senza dover ipotizzare che l’uomo sia di necessità una sostanza pensante che si rappresenta il mondo4, giacché nella dialettica del riconoscimento «Hegel svilupperà la sua concezione della natura sociale della conoscenza – ossia la sua idea che i principi di ciò che conta come ragione autoritativa dovrebbero essere visti come il risultato […] di un processo meglio inteso in termini storici e istituzionali – ossia in termini di partecipazione alle pratiche sociali, non affatto nei termini del suo essere ancorato in una qualche forma di relazione metafisica tra “soggetto” e “oggetto”»5. Dunque per Hegel «lo sviluppo storico della nostra intera predisposizione mentale non consiste nell’applicazione di uno standard di validità immutabile a differenti circostanze fattuali storiche, ma è lo sviluppo dell’insieme basilare stesso di relazioni che intercorrono fra norme e fatti»6. Da ciò consegue che «il sé singolo e quello universale non si possono riconoscere reciprocamente, se all’altro ogni volta essi non consentono di porre una distanza [Distanz] nei loro riguardi»7. Hegel ammette dunque una condizione nella quale e per la quale la coscienza viene a trovarsi aldilà del dato considerato, aldilà di ogni rapporto di ininterrotta continuità con esso, giacché il fondamento ontologico e gnoseologico da cui essa riparte non può più essere quello di una verità assoluta (come il cogito cartesiano), essendo bensì quello di un meinen 8, di un opinare e di un intendere sempre aperti a ogni verifica.
L’interpretazione che Hegel ci offre dell’autocoscienza e la spiegazione della sua genesi ci impedisce di pensarla quale semplice prolungamento del sapere fatto di sensazioni, percezioni e rappresentazioni matematizzanti9. Con la genesi dell’autocoscienza si assiste piuttosto ad un vero e proprio capovolgimento di prospettiva della coscienza ignara di sé e immersa nell’orizzonte del «dato»10, ovvero di oggetti che sono il «positivo», giacché la semplice opposizione con i propri dati vale certo a distinguere la coscienza ma non ancora a identificarla. Se essa si arrestasse all’esperienza di ciò che è come ciò che essa non è, si troverebbe istituire solo una prospettiva ancora simmetrica a quella delle sensazioni e delle percezioni. In questo quadro, l’autocoscienza si presenta quindi come il movimento nel quale l’opposizione viene tolta (superamento dialettico): l’oggetto della coscienza non si prospetta a questo punto come il negativo, in quanto esso è diventato occasione di una «vita» che esso assume in sé quale sua propria condizione11. Per poter comprendere l’attività sintetica della coscienza, fondamentale si rivela la relazione di reciproca dipendenza tra coscienze diverse, laddove esse si scoprono anzitutto come Begierde (desiderio)12, dimensione teoretico-pratica che ogni forma di coscienza «eccentrica» (cfr. Honneth) presuppone e sottintende, ma che a questo livello non resta, giacché nell’incontro intersoggettivo Ego e Alter Ego reagiscono contemporaneamente l’uno all’altro limitando i loro rispettivi bisogni egocentrici (cfr. Hyppolite).
Tema della sezione B del capitolo quarto («La verità della certezza di se stesso»), intitolata non a caso «Libertà dell’autocoscienza: stoicismo, scetticismo e la coscienza infelice», è proprio l’esperienza di superamento dell’opposizione tra libertà e ragione, affinché la coscienza possa pervenire ad una comprensione unitaria dell’evento che sottintende. La «coscienza stoica» si esperisce infatti come una libertà ignara della propria ragione e dunque disconoscendo o negando le più complesse fondamenta di ogni libertà nonché le infinite dipendenze che il soggetto non può comunque evitare di sottintendere; la «coscienza scettica» tenta piuttosto di sottrarsi all’esperienza meramente negativa realizzandola, mentre con la «coscienza infelice» viene alla luce la lotta successiva, per l’unità di servo e padrone nel soggetto autocosciente, un’unità che tanto la coscienza stoica tanto quella scettica erano incapaci di produrre. Sorge nel contempo una lotta più impegnativa, quella dell’autocoscienza con se stessa. Mediante il lavoro, la coscienza del servo riesce a portare a termine la riconquista dello al di qua sensibile, fin dentro la sostanza, un fenomeno non trascurabile, questo, giacché contribuisce a porre in evidenza l’originaria costituzione autoreferenziale di ogni nostro linguaggio: una volta compreso questo fondamento, gli oggetti del servo non sono più estranei, ma si identificano, in quanto concetti, con chi li produce. Il pensiero raggiunge la sostanza. Storicamente, questo fatto è stato compreso e il comprenderlo (begreifen) ha consentito al soggetto umano di prendersi la libertà di realizzare la trascendenza nell’immanenza. Ma è proprio questa libertà che, malgrado i reiterati tentativi di conciliazione, può riproporsi come un serio problema, per un duplice aspetto: il pensiero stoico non ha saputo muovere nulla, è restato un’essenza pensante senza braccia mentre quello scettico ha messo in discussione tutto senza sapersi spingere oltre.
L’autocoscienza che emerge attraverso il lavoro non tollera più la libertà astratta, ma ricerca una libertà sostanziale, ricca di contenuto; resta altresì importante sottolineare che se, da solo, il puro pensare certamente non può portare a compimento l’unità dell’autocoscienza, per quanto libertà astratta, sebbene sia libero dai limiti dell’oggettività, prendendo così parte attiva alla «trascendenza»13. In Hegel il dubbio è diventato strumento della dialettica, ossia il metodo della negazione: giacché l’uomo non può conquistarsi lo spazio dell’oltre solo attraverso il pensare, l’autocoscienza deve corrispondere ad un’azione che trasformi la realtà negando l’esistente.
È pertanto grazie al «concetto astratto di libertà» che per definizione appartiene all’al di là della possibilità, allo spazio di ogni trascendenza del limite, che la coscienza può riflettere sulla propria infelicità, sul proprio dissidio. Eppure, malgrado i tentativi di controllo, essa rischia sempre una deriva soggettivistica, perdendo così il senso del limite: di qui la perdita di senso della sua storia legata all’impossibilità di assumere una forma assolutament...

Table of contents

  1. Introduzione
  2. Capitolo 1
  3. Capitolo 2
  4. Capitolo 3
  5. Capitolo 4
  6. Bibliografia