Capitolo IV
La mediazione familiare nel diritto italiano: incertezze attuali e prospettive di riforma
SOMMARIO: 1. La scelta di “non decidere”: le conseguenze (negative) di un’astensione deliberata – 1.1 Le possibili vie da seguire in vista di un eventuale riconoscimento normativo – 1.1.a. La recezione della Direttiva 2008/52/CE in Italia: le questioni più dibattute – 1.1.b. La formazione del mediatore come garanzia primaria – 2. Le persistenti incertezze della realtà italiana: il panorama normativo – 2.1. Un quadro frammentato in attesa d’esser ricomposto – 2.1.a. Un’opzione possibile, fra silenzio e soluzioni carenti: le buone prassi cui ispirarsi – 2.1.b. Spunti per una comparazione fra modelli – 2.2. La mediazione e la lotta alla violenza in famiglia fra aspettative e contraddizioni – 2.3. Il vago richiamo alla mediazione nella nuova normativa in tema di affidamento condiviso dei figli: un’occasione mancata – 3. La professione di mediatore e la competenza a legiferare in materia: le precisazioni della Consulta – 3.1. Le norme vigenti quali possibili parametri di riferimento o verso una figura professionale autonoma di mediatore familiare? – 3.2. La scelta legislativa del 2010 al vaglio della Corte costituzionale e dei giudici di Lussemburgo: riflessioni generali – 3.3. Le possibili indicazioni desumibili dalla futura decisione della Consulta – 3.4. La tutela della “sostanza dei diritti” e della garanzia del giusto processo nella fase di recezione della Direttiva sulla mediazione civile e commerciale – 4. La normativa italiana al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione Europea – 5. Le indicazioni promananti dalla Risoluzione del Parlamento Europeo del 13 settembre 2011: una prima visione d’insieme – 5.1. La “particolare importanza” della mediazione nelle “questioni familiari che coinvolgono i bambini” alla luce della recente Risoluzione del Parlamento Europeo – 6. La nuova figura del Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza nel favorire la mediazione fra obblighi internazionali ed incertezze interne – 7. Analisi delle proposte di legge presentate nel corso della XVI legislatura – 8. Riflessioni conclusive
1. La scelta di “non decidere”: le conseguenze (negative) di un’astensione deliberata
A volte, la scelta di astenersi dal prendere una decisione può rivelare saggezza, ponderazione, consapevolezza dell’opportunità di lasciare che i cambiamenti accadano, senza imporre accelerazioni od opzioni ab externo. Si può considerare opportuno che ciò avvenga anche in campo legislativo, quando si preferisce accettare un assetto normativo incompleto, oppure anche del tutto assente, invece che emanare previsioni nette, univoche, adottate in modo da dar vita a un insieme di disposizioni, con cui si aspiri a realizzare un ordine sistematico. In fondo, questo, oltre ad esser difficile da raggiungere, potrebbe non garantire, di per sé, i diritti di cui si vuol attuare la tutela. Le ragioni sottese a un’opzione del genere, implicante un’astensione deliberata dal legiferare, possono essere, evidentemente, molteplici. Si può voler dar spazio alle dinamiche sociali, di cui si teme che il diritto non sappia cogliere l’essenza, se non a pena di stravolgerla. Così, il silenzio del legislatore potrebbe assumere un ruolo preciso, alla luce dell’intento di conferire alla giurisprudenza un compito primario, facendo sì che, ogni volta che sorga un contrasto e si adisca una corte, sia questa a definire la regola del caso concreto. Si può presentare altresì una situazione in cui, di fronte alla diversità e alla complessità delle singole vicende – come può dirsi per quelle familiari – si reputi inadeguato il ricorso alla legge, con le sue norme generali e astratte, seppur accompagnate spesso da previsioni analitiche, perché non in grado di abbracciare la pluralità delle circostanze che possono aver rilievo, in una valutazione che si ritiene possa esser svolta in modo più idoneo dai principi, cui uniformare le decisioni da prendere in ciascuna ipotesi, quasi per definizione “diversa” l’una dall’altra.
In fondo, nei principi si possono rinvenire parametri importanti, atti a guidare il giudice nella propria deliberazione, fino a ridisegnare il sistema1. Ove non si sia instaurata una controversia in ambito giudiziale, i principi spesso riescono a fornire punti di riferimento decisivi ai soggetti comunque responsabili di giungere a una definizione del conflitto: le stesse parti, ma anche i loro consulenti, professionisti di diversa formazione ed esperienza, nonché gli operatori dei servizi socio-sanitari tenuti, in determinate situazioni, a svolgere delicate funzioni preventive e/o di cura2. Fra i principi centrali che presiedono ad un’equa trattazione delle controversie in materia, riveste oggi un ruolo cardine quello relativo al diritto/dovere alla cogenitorialità (o bigenitorialità), cui si è più volte fatto riferimento3. Quindi, nelle situazioni di crisi dell’unione, si dovrà cercare di far sì che entrambi i genitori possano continuare ad esser costanti figure di riferimento per il figlio, grazie all’affidamento condiviso, salvo che ricorrano casi di condotte, tenute da uno di essi, che giustifichino un giudizio negativo, di inidoneità allo svolgimento del compito educativo e delle funzioni genitoriali, basato sulla pericolosità del comportamento, pregiudizievole verso il figlio, sul disinteresse mostrato nei suoi confronti, o sull’incapacità a far fronte alle sue esigenze, morali e materiali4. Pertanto, si possono comprendere agevolmente le motivazioni che inducono alcuni studiosi a vedere con un certo scetticismo le proposte intese a delimitare legislativamente i confini della mediazione familiare. Obiettivamente, possono esser addotte ottime argomentazioni, a favore della tesi contraria all’emanazione di una legge ad hoc, se però questa fosse tale da delimitare troppo intensamente un fenomeno – la mediazione – che può perfettamente restare del tutto all’esterno del processo. Effettivamente, potrebbe crearsi, legiferando, il rischio di ancorarla a un regime predefinito e rigido, antitetico rispetto alle sue stesse finalità. Infatti, la mediazione non è affatto correlata alla via giudiziale in modo inscindibile. La mediazione si configura quale metodo per risolvere i conflitti avente una natura che non è “alternativa” al procedimento giurisdizionale, quanto, semmai, maggiormente “adeguata” se posta a confronto con esso, dal quale è chiaramente distinta. Eppure, proprio perché esiste, e dev’esser rispettata, l’autonomia della mediazione – da non confondere con la conciliazione endo-processuale oppure svolta anteriormente al giudizio –, e poiché sussiste pure una concordanza di vedute circa la necessità di rispettarla, ci si può chiedere per quale motivo temere una sua regolamentazione, quasi che si volesse proteggerla da una sorta di “contaminazione giuridica”.
Dopotutto, se la mediazione dovesse rimane estranea al “circuito del diritto”, o meglio alle verifiche che l’ordinamento può imporre, a tutela dei diritti di tutti i soggetti interessati, si esporrebbe a facili censure: potrebbe non assicurare adeguatamente la necessaria protezione, specie in quelle situazioni in cui vengono in rilievo posizioni di obiettiva “fragilità”5. Pensiamo, in particolare, ai diritti dei figli minori6, che finalmente cominciano a ricevere la doverosa attenzione, da parte delle regole processuali, e che non possono esser certo disattesi, solo perché ci si colloca all’esterno del contesto giudiziale. Quindi, l’assenza di una disciplina legislativa, nel sistema giuridico italiano, pare disattendere, in realtà, l’opportunità di dar vita ad una riforma di grande spessore, che potrebbe rafforzare la tutela dei diritti, in ambito extra-giudiziale, da attuare non al fine di sottrarre al processo situazioni che solo questo può adeguatamente tutelare – ove persista il contrasto fra le parti –, ma per garantire i diritti di tutti coloro che sono coinvolti nelle vicende legate alla “disunione” della coppia, in modo flessibile ma al contempo equo, ossia considerando, nel loro complesso, le reciproche relazioni familiari, anche quelle di chi non sia “parte” della controversia, in senso tecnico-processuale.
Infatti, com’è noto, nel giudizio di separazione e divorzio, tale posizione non è riconosciuta ai figli dei coniugi7, ma non si nega affatto a costoro, come invece accadeva un tempo, lo status di titolari di diritti, tanto che la loro opinione va tenuta in considerazione, se capaci di “discernimento”8. Il che vale, peraltro, anche nei confronti dei figli di genitori non coniugati, indipendentemente dal fatto che, venuta meno l’unione fra questi ultimi, non si debba seguire necessariamente un percorso di tipo giurisdizionale, qual è quello davanti al Tribunale per i minorenni, contemplato in passato per situazioni reclamanti la protezione dei minori, ed oggi utilizzato molto spesso anche per le cosiddette “separazioni delle coppie non unite in matrimonio”9. Si tratta di diritti fondamentali, espressamente riconosciuti dalla CDFUE. Qui si legge, all’art. 24 I co., che i bambini “possono esprimere liberamente la propria opinione”, ma si precisa anche che “questa viene presa in considerazione sulle questioni che li riguardano in funzione della loro età e della loro maturità”. Quindi, mentre a un minore in tenera età dovrà esser garantito, nel modo adeguato, l’ascolto, ciò non implica che si debba tener conto delle sue esternazioni nella stessa maniera in cui è doveroso farlo quando si tratti di ragazzi o, come si suol dire, di “giovani adulti”10. Pertanto, si dovrà “prendere in considerazione” l’opinione del minore alla luce di tali, diverse condizioni. Il dovere d’ascolto non si impone, inoltre, solo sui soggetti pubblici, bensì anche sui privati, non limitandosi, per altro, al solo ambito processuale. Come chiarisce il medesimo art. 24 della CDFUE, al II co.: “In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private”, si deve considerare preminente “l’interesse superiore del bambino”. Per stabilire quale sia questo interesse, nel caso concreto, non si potrà prescindere, evidentemente, dall’ascolto del minore, che richiede però – come già precisato – modalità adatte alle sue condizioni e al suo livello di maturità. Se si sia in presenza di un minore capace di “discernimento”, la sua opinione dovrà esser considerata inderogabilmente, ma andrà valutata comunque con la massima attenzione, anche ove si tratti di un bambino piccolo, i cui gesti e comportamenti, spesso, rivelano ciò che le parole non riescono a palesare.
Ecco che, tornando al nostro tema, può divenire più chiara l’entità delle difficoltà conseguenti al mancato riconoscimento di un preciso spazio per la mediazione familiare, nell’alveo del diritto. Continuando a non riconoscerla, si può vanificare una condivisibile esigenza di chiarezza, da più parti reclamata, specie a seguito dell’entrata in vigore della discussa normativa in tema di mediazione civile e commerciale, attuata dal Decreto Legislativo n. 28/201011. L’intento di chi invoca l’adozione di una legge non è quello di circoscrivere l’autonomia del mediatore, ma semmai di sostenerla, legittimandola. In altre parole, dalla legge non ci si deve attendere una regolamentazione analitica, ché sarebbe inopportuna e forse anche controproducente. Sarebbe sufficiente porre in evidenza, innanzitutto, doveri precisi, valevoli nei confronti dei mediatori che aspirino a trattare casi di conflitti familiari – riprendendo e specificando quanto già enunciato, dapprima, in testi del tutto privi di forza cogente (come i già ricordati codici di condotta e gli atti emanati da istituzioni, nazionali e sovranazionali, ancorché sprovvisti di natura vincolante)12, quindi da fonti reclamanti obblighi ben definiti, come può dirsi, appunto, per la Direttiva 2008/52/CE. Quest’ultima, nel richiedere, agli Stati membri dell’UE, nient’altro che l’introduzione di una disciplina che ne recepisca i principi – per altro solo in relazione alle controversie transfrontaliere, essendovi piena libertà di estenderli o meno a quelle interne – sancisce comunque un importante dovere, consistente nell’adeguamento del sistema nazionale a parametri inderogabili, atti ad assicurare, come più volte ricordato, non solo “un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario” (art. 1, co. I), ma anche il rispetto di una serie di requisiti essenziali, nell’ottica della protezione dei diritti fondamentali che possono venir in gioco.
In primo luogo, si tratta di garantire l’imparzialità, la competenza e l’efficacia, nell’attività dei mediatori, il cui operato dovrà svolgersi in ossequio a “codici volontari di condotta” ed esser sottoposto a forme costanti di controllo, da compiere anche a seguito delle verifiche iniziali, relative alla loro necessaria formazione professionale (art. 4). Inoltre, si afferma il diritto delle “parti, o una di esse con l’esplicito consenso delle altre”, di “chiedere che il contenuto di un accordo scritto risultante da una mediazione sia reso esecutivo” (art. 6), unitamente ad un insieme di principi, tra i quali rivestono un ruolo centrale quello di riservatezza (art. 7) e di volontarietà (art. 5) della mediazione. È indubbio che – come più volte sottolineato – la Direttiva, nel rendere esplicita la propria sfera “minima” di applicazione, delimiti la propria portata in modo chiaro, precisando che “dovrebbe applicarsi ai procediment...