È alquanto difficile spiegare come nonostante tutto il lavoro del Parlamento, della Commissione Dooge, dei vertici di Milano e del Luxembourg e della Conferenza Intergovenativa, il risultato sia ciò che molte persone sospettavano, un topolino morto.
Altiero Spinelli, 16 Gennaio 1986
Nei due capitoli precedenti abbiamo fatto cenno ai mezzi analitici, concettuali e teorici necessari per dare un significato all’Unione europea, e al modo in cui è arrivata a essere ciò che è oggi. Questo capitolo mette a frutto il bagaglio analitico trattato, offrendo una descrizione sintetica del processo d’integrazione, a partire dai Trattati di Parigi (1951) e Roma (1957), che ne hanno segnato le origini, sino ai cambiamenti introdotti dal Trattato di Nizza del 2000. Il capitolo ha tre obiettivi specifici. Il primo è quello di dare un senso all’identità contraddittoria dell’Unione, inquadrando l’integrazione europea all’interno di un processo più ampio, grazie al quale è riuscita ad affermarsi come soggetto politico costituzionale. Il secondo è quello di chiarire, attraverso una ricostruzione empirica, il ruolo della teoria della sintesi costituzionale rispetto allo svolgimento del processo e ai risultati ottenuti. A tal fine, è necessario identificare il momento costituzionale sintetico, e definire la combinazione di costituzionalizzazione semplice e trasformativa, nonché l’evoluzione istituzionale, di cui si è già fatta menzione nel Capitolo 2, come aspetto caratteristico della sintesi costituzionale. Il terzo obiettivo, infine, è quello di far luce sul come e perché l’Unione europea, sebbene dotata di una costruzione apparentemente fragile e sicuramente meno solida di uno Stato classico, abbia vissuto un processo di crescita eccezionale, coronato da un chiaro successo (si consideri, per esempio, il numero di Stati che vi hanno aderito e quelli che ancora aspirano a farlo). L’interrogativo principale a cui cercheremo di dare risposte è il seguente: in che senso gli aspetti considerati consentono di risalire ai punti di forza originali di un modello d’integrazione di questo soggetto politico sintetico, e al percorso costituzionale innovativo che gli Stati democratici costituzionali europei hanno intrapreso, con grande sforzo, per plasmare un ordinamento costituzionale comune? La natura particolare dell’Unione impone di concentrare l’attenzione sul modo in cui il processo di sintesi costituzionale è stato incorporato nell’assetto istituzionale e politico, e come ciò, a sua volta, ha condizionato la sintesi costituzionale e la natura dell’Unione in quanto soggetto politico.
Il capitolo viene organizzato in tre sezioni. La prima (a) riguarda il momento costituzionale sintetico, che corrisponde alla firma dei Trattati originari dell’Unione nel 1951, 1957 e 196); (b) la seconda si occupa del periodo di costituzionalizzazione semplice e trasformativa che va dal 1958 fino al 1979; (c) la terza, infine, concerne la lunga stagione costituzionale dell’Unione europea, che va dal 1979 fino al 2000. Gli sviluppi occorsi a partire dal 2001 saranno invece oggetto di analisi dettagliata nel capitolo successivo. L’oggetto della prossima sezione riguarda i contorni specifici del momento sintetico europeo, le successive prendono in considerazione tre dimensioni, e cioè la trasformazione costituzionale, la costituzionalizzazione semplice e il cambio istituzionale in ciascuno dei due periodi sopra citati (1958-1979 e 1979-2000).
1. Il momento costituzionale sintetico
Nella primavera del 1945, appena conclusa le seconda e più devastante guerra avvenuta in meno di una generazione, era chiaro a molti osservatori che un sistema di Stati-nazione non aveva in sé gli anticorpi per prevenire ulteriori conflitti. Nonostante non vi fosse nulla che giustificasse la diffusione di un nazionalismo aggressivo, i costi del suo contenimento diventavano sempre più alti. Visti gli effetti della guerra, gli europei che condividevano forti interessi, sebbene animati da punti di vista differenti, si convinsero della necessità di adottare principi e valori comuni che limitassero l’insorgere di conflitti futuri. Questa lotta di tipo hobbesiano di tutti contro tutti, infatti, era sorta in aperto contrasto con l’alto grado d’integrazione sociale ed economica che era stata la caratteristica più importante delle società europee negli anni precedenti.
Fu in questo stunde null (ora zero) dell’Europa che (a) il fervore rivoluzionario di natura negativa delle Costituzioni post-guerra si andò consolidando, dando così vita a un mandato per creare istituzioni sovranazionali; o, per essere più precisi, ad instaurare istituzioni al di sopra del livello statale, che avrebbero garantito un sostegno al progetto costituzionale di offrire una vita sotto l’egida del diritto democratico. Fu l’esperienza scioccante di due guerre mondiali in una sola generazione (b) che funse da propellente per la presentazione di una dozzina di progetti nella prima decade del dopoguerra, da cui poi fu concepita l’Unione europea, realizzando dunque il già menzionato mandato costituzionale nazionale per l’integrazione.
1.1 Le costituzioni nazionali prevedono un nuovo progetto europeo
Le conseguenze terribili, infatti, di due guerre in lasso di tempo talmente breve, furono la causa principale dell’assunzione dell’impegno di restaurare la democrazia costituzionale nell’Europa Occidentale del 1945. Tale missione era legata alla convinzione che l’integrazione sovranazionale fosse una condizione necessaria per realizzare il programma costituzionale democratico. Tre Costituzioni di Stati fondatori su sei nel 1951, e cinque su sei nel 1957, presentavano una clausola eccezionale – e senza precedenti – che riconosceva l’integrazione costituzionale come obiettivo e scopo essenziale della Costituzione stessa.
Queste disposizioni sanciscono un mandato che svela l’esplicita ammissione da parte dei padri costituenti nazionali che i principi essenziali dell’ordinamento costituzionale nazionale non possono trovare realizzazione all’interno dei confini dello Stato-nazione, e dunque richiedono l’affermazione d’istituzioni sovranazionali e norme d’azione comuni che governino i rapporti sociali ed economici transnazionali. Tutto ciò avvenne per due motivi di fondo. Il primo era che la combinazione di un vasto livello d’interdipendenza sociale ed economica, con la mancanza di norme d’azione e strutture istituzionali comuni, si era rivelata per ben due volte una commistione disastrosa: un sistema di Stati-nazione basato sull’autarchia, in un continente caratterizzato da una miriade di rapporti transfrontalieri, era evidentemente destinato a entrare in crisi. Il secondo motivo era che gli Stati-nazione autarchici mostravano una tendenza strutturale contro la democrazia. Vasti settori colpiti da decisioni nazionali, risultavano esclusi dal processo che ne produceva l’assunzione, mentre coloro che venivano investiti oltre confine, risultavano esclusi sia dalla discussione che dal voto effettivo. In sintesi, la coesistenza pacifica in un sistema di Stati-nazione autarchico si era dimostrata una pericolosa illusione.
Tutto ciò naturalmente implicava la riconsiderazione di cosa la supremazia della Costituzione significasse, alla luce del fatto che siffatta supremazia avrebbe potuto essere garantita solamente grazie all’integrazione (e peraltro l’integrazione implica il mettere fine alla caratterizzazione della Costituzione come insieme di norme autarchico). Il punto critico era evitare che la supremazia costituzionale si trasformasse in un ostacolo sulla strada dell’integrazione sovranazionale. Questo sarebbe stato (e continua ad essere) un elemento chiave nell’elaborazione di una teoria costituzionale dell’integrazione europea .
1.2 Il varo dell’integrazione sovranazionale
Gli eventi tragici e dolorosi rinforzarono l’idea che lo Stato costituzionale dipendeva dall’integrazione sovranazionale per assicurare pace, democrazia e giustizia sociale. Ciò spiega in grande misura (anche se non completamente)l’abbondante numero di proposte d’integrazione – di un tipo o dell’altro – che si presentarono nella metà ed alla fine degli anni Quaranta del Secolo scorso. Tutte le proposte si basavano sulla premessa che l’alto grado d’interdipendenza fra le società europee richiedeva il consolidamento d’istituzioni e norme d’azione comuni. Nonostante ci fossero divergenze sulle misure concrete da adottare per centrare quest’obiettivo, era convinzione comune che fosse necessaria una qualche forma d’integrazione istituzionale e normativa per superare lo «stato di natura» alla base dei rapporti tra gli Stati in Europa.
In questo quadro, la collocazione delle tre comunità - Comunità del Carbone e dell’Acciaio del 1951, Comunità Economica e Comunità sull’Energia Atomica del 1957- da prima in una cornice istituzionale parziale nel 1958, e completamente integrata a partire dal 1967, stabiliva le strutture istituzionali attraverso le quali i mandati costituzionali nazionali si sarebbero concretizzati.
Il già menzionato insieme di Trattati (il Trattato di Parigi del 1951, il Trattato di Roma del 1957, affiancati poi dal Trattato di fusione del 1965) sono giustamente considerati atti originari.
I Trattati stabilirono non solo una nuova struttura istituzionale (le tre Comunità che andavano considerate come parti di uno stesso progetto politico, in modo che per un lungo periodo si parlò di Comunità europea o semplicemente «della Comunità»), ma diedero vita anche a un nuovo ordinamento giuridico d’importanza vitale, comunemente conosciuto come diritto comunitario.
Dal punto di vista formale, le Comunità furono istituite attraverso tre trattati internazionali, più un trattato ausiliario sulle Istituzioni comuni del 1957, e il Trattato di fusione del 1965. Il nuovo ordinamento giuridico fu un sotto-insieme di norme internazionali, una specie cioè di diritto regionale scritto secondo il modello del diritto internazionale pubblico.
Nonostante le apparenze formali, questo momento fondativo va riconosciuto come vero e proprio momento costituzionale, dove un nuovo soggetto politico (la Comunità europea) ha preso corpo, e un nuovo ordinamento giuridico-costituzionale si è affermato, almeno per tre ordini di motivi: (a) la portata dei poteri pubblici che si trasferirono, (b) la tipologia e lo spessore delle istituzioni cui si diede vita; e (c) la natura di principio dei poteri normativi da costituire, che era in aperto contrasto con il formato dei Trattati internazionali.
I trattati prevedevano in termini chiari il trasferimento dell’esercizio, anche se non a pieno titolo, di significativi poteri pubblici dagli Stati membri all’Unione europea. Nel caso della CECA e dell’Euratom, ciò passò, in un certo senso, inosservato per il fatto che il potere trasferito, riguardava un insieme piuttosto specifico e limitato di ambiti, anche se di vitale importanza, giacché carbone, acciaio ed energia atomica costituivano la potenza di fuoco di una guerra negli anni Cinquanta del Secolo scorso. Nel caso della CEE, ci furono alcuni equivoci derivanti dalla combinazione di un insieme particolare di misure d’integrazione negativa (tese a realizzare un «mercato comune») con vaghi riferimenti a obiettivi di più ampia portata relativi all’unione politica ed economica.
Ad ogni modo, l’aspetto fondamentale della questione fu che in tutti e tre i casi si è proceduto al trasferimento di competenze chiave nel processo politico di un ordinamento democratico a livello europeo. Ciò non solo diede adito alla CECA di autofinanziare la Comunità grazie all’uso di poteri di tassazione sulle industrie del carbone e dell’acciaio -concedendo alle neonate istituzioni un potere di spesa limitato, ma significativo dal punto di vista simbolico-, ma fece anche sì che il Trattato della CEE implicasse il completo trasferimento di poteri alla Comunità sulle tariffe dogan...