Capitolo quinto
Parole al vento
Architettura dell’immagine – Architettura, edilizia – Mementum – Tecnica e scienza – L’omologazione linguistica – La ricerca nel progetto – La cura dell’esistente
E fa saper a’ due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l’antiveder qui non è vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.
[…]
Quel traditor che vede pur con l’uno,
[…]
farà venirli a parlamento seco;
poi farà si che al vento di Focara
Non sarà lor mestier voto né preco.
(Franco) Sai Andrea, ho apprezzato molto il tuo intervento al convegno, soprattutto riguardo alla tua interpretazione sul contributo offerto da Adriano Olivetti alla causa dell’architettura, nei suoi risvolti identitari legati a un luogo, a un tessuto sociale, a una visione che integra le istanze di una comunità a quelle dell’impresa.
La conversazione tra i due prendeva piede nella quiete della piazzetta che fronteggiava il portale di ingresso al piccolo borgo. La prima meritata sosta dopo aver percorso le vie che discendono verso il mare, seguendo il profilo dolce dei colli. Il tutto in sella alla bicicletta da corsa. Giorgio era invece già ripartito alle prime ore della mattina per raggiungere la sua meta di villeggiatura. Con Paolo, che avevano da poco visto sfrecciare a bordo della sua auto, si erano dati appuntamento al molo, ben consci della sua avversione a ogni forma di moto, a parte quello veicolare, e che l’apice delle sue prestazioni atletiche fosse rappresentato da un buon lancio della lenza.
(Andrea) È una vicenda che va contestualizzata nella sua prospettiva storica e quindi ha soprattutto una valenza documentale. Allo stesso tempo, per alcuni aspetti, può costituire un modello di grande attualità vista la vacuità dei riferimenti che connota il ruolo della architettura nella società contemporanea. Il caso della Vitra a Weil am Rehein è forse, come tu hai ben rilevato, l’esempio più eloquente del divario che separa queste due esperienze, nonostante che spesso quella di Olivetti venga assunta come l’originario riferimento.
ARCHITETTURA DELL’IMMAGINE
(Franco) Sicuramente. Di tutti gli edifici, quelli che destano minore attenzione mediatica sono infatti proprio quelli dedicati alla produzione, sia i primi stabilimenti di Grimshaw che quello successivo di Alvaro Siza. L’interesse si concentra soprattutto su quelli di Gehry, Ando, Hadid, Herzog & de Meuron, e sulle piccole opere di noti progettisti, da Fuller, a Prouvè a Piano, che arricchiscono la dotazione di questa esposizione dell’architettura contemporanea. Devo dire che sono rimasto alquanto sorpreso quando ho letto una breve citazione di Philip Johnson sul sito dell’azienda, in cui viene fatto un rimando all’esperienza del Weissenhof di Stoccarda degli anni Venti, con specifico riferimento alla concomitante presenza di architetti di fama. Al di là questo aspetto, che è del tutto marginale, l’iniziativa del Vitra nasce invece per ragioni esattamente opposte a quelle del Weissenhof, essendo questa una esposizione dedicata all’innovazione tecnica associata alle nuove forme del linguaggio architettonico rappresentate dalle Avanguardie del tempo. Quello di Vitra è invece un museo all’aperto dedicato all’esposizione di opere iconiche le cui relazioni con il contesto o con le funzioni sono secondarie per le finalità prefissate dal committente-imprenditore. Il fallimento del programma architettonico non ha però scalfito l’effetto mediatico che è stato invece il primario fattore del successo ottenuto dall’azienda di Rolf Fehlbaum, a valle del disastroso incendio che aveva completamente distrutto il precedente insediamento.
(Andrea) Non so se il programma architettonico possa definirsi fallimentare. Rispetto agli obiettivi mi sembra assolutamente centrato e riuscito. Il fatto che la stazione dei Vigili del Fuoco di Hadid sia stata dismessa, a soli cinque anni dall’inaugurazione, per evidenti incompatibilità funzionali e per gli elevati costi di manutenzione, e poi quindi anch’essa trasformata in museo di se stessa, non credo che infici i presupposti dell’iniziativa. Come detto, il senso dell’operazione non è quello di rispondere a delle istanze funzionali o di utilità . Il dato iconico e percettivo è il fine primario che veicola il messaggio mediatico, analogo a quello che guida la creazione di un prodotto di design.
(Franco) Hai ragione, sotto questo profilo l’esito ha risposto alle attese. Proprio di recente ho avuto una conferma di quanto dici, quando mi sono imbattuto in un epilogo diretto dell’influenza di queste icone nella pratica professionale. L’invenzione formale dei volumi aggettanti nella Vitra House di Herzog & de Meuron l’ho infatti ritrovata nella inedita figurazione di un piccolo edificio localizzato in un contesto agricolo a poca distanza da qui, con il secondo livello ruotato ad angolo retto e per buona parte a sbalzo rispetto alle pareti perimetrali del piano terra. Non so che senso possa avere modificare l’originaria tipologia edilizia di una casa isolata di pianura attraverso questi esercizi stilistici del tutto autoreferenziali e dunque indifferenti alle specificità del luogo, ma oltre a questo, è evidente l’influenza esercitata da tali modelli nel legittimare le valenze formali di soluzioni progettuali altrimenti difficilmente giustificabili.
(Andrea) Non è certo una novità . Buona parte delle tendenze architettoniche degli ultimi vent’anni sono state recepite e diffuse attraverso le valenze formali, come le definisci tu. In questi ultimi tempi ho avuto modo di interessarmi alla tematica della conservazione della memoria digitale dei progetti di architettura, che è la frontiera su cui noi storici saremo obbligati a confrontarci nell’immediato futuro. Ho anche visitato una mostra dedicata all’Archeologia del Digitale in cui ho potuto ritrovare le prime sperimentazioni architettoniche di fine anni Ottanta, come la casa Lewis di Gehry e il Biozentrum di Eisenman a Francoforte. È indubbio che a partire da lì, da quegli anni, si apra una nuova stagione, e che l’ingresso delle tecniche informatiche abbia generato una omologazione dei linguaggi, essenzialmente di ordine formale. Per Gehry l’importanza assegnata alla forma dell’oggetto, come matrice dell’intero processo progettuale, veniva allora esibita dai modelli fisici a cui applicare le tecniche di scansione tomografica, secondo un processo inverso che consentiva di destrutturare l’oggetto per restituirlo nelle tradizionali rappresentazioni grafiche di piante, prospetti e sezioni. Invece, nel caso di Eisenman, è evidente come l’intero apparato teorico su cui erano fondate le sue tesi sull’architettura concettuale degli anni Settanta e poi quella successiva del decostruttivismo, sia stato poi sorpassato da una ricerca sulla forma sempre più indipendente da una codificazione teorica o da fattori esterni alla disciplina compositiva.
(Franco) È infatti uno dei riferimenti che spesso impiego per sostenere la tesi della poca rilevanza che le teorie hanno esercitato nella pratica architettonica. Le speculazioni teoriche su cui si è consolidata la fama di Eisenman negli anni Settanta, sia a valle della lettura sulla casa del Fascio di Terragni, dove vengono per la prima volta introdotti i concetti estrapolati dalla teoria linguistica di Chomsky e della relativa negazione dell’importanza del dato contestuale nel processo compositivo, sia del concorso 10 immagini di Venezia del 1978, dove viene invece applicato un metodo basato sulla rielaborazione di geometrie elementari mediante le operazioni della scomposizione, ripetizione e deformazione della originaria griglia compositiva cartesiana, rappresentano il prologo del tentativo di eleggere la categoria filosofica della decostruzione come paradigma dell’architettura. Al successo che celebrerà l’affermazione di questa tendenza architettonica nel corso del successivo decennio farà però da contrappunto la critica avanzata proprio da chi era stato il primario riferimento per Eisenman nel giustificare l’impiego delle strutture semantiche a fondamento della sua teoria del progetto, ovvero Jacques Derrida. Dopo un primo coinvolgimento nel concorso per il parco della Villette del 1986, Derrida manifesterà infatti pubblicamente la propria presa di distanza dalle semplificazioni teoriche contenute nelle proposte progettuali di Eisenman, con una lettera aperta apparsa su un numero della rivista «Assemblage» del 1990. A mio avviso il tentativo promosso da Eisenman di assegnare all’espressione ‘architettura concettuale’ il significato di luogo di confine tra la sfera dell’architettura e quella delle arti figurative ha invece trovato la migliore codificazione in una esperienza che contraddice proprio l’assunto posto sulla indifferenza per il luogo e per la memoria, che non è un edificio, ma un monumento urbano, quello di Berlino a ricordo dell’olocausto nazista.
(Andrea) Trovo che la tua visione sia eccessivamente categorica. Che le teorie possano essere considerate una sovrastruttura rispetto alle dinamiche che governano la pratica architettonica e che questa sia guidata solo da intendimenti formali mi sembra francamente eccessivo e anche generico. È evidente che i progettisti che hai citato hanno influenzato un intero corso, non solo in termini di opere ma anche negli indirizzi progettuali, ma non per questo si può ritenere che siano state totalizzanti. Se pensi alla scuola spagnola e portoghese, ma anche parte di quella italiana e svizzera, trovi riferimenti opposti.
(Franco) Quanto dici è evidente, ma non contraddice la mia tesi sulla scarsa rilevanza della teoria nelle formulazioni progettuali, secondo il significato che ho attribuito a questo termine nelle discussioni di questi giorni. Se penso a Siza, Souto Moura, o Zumthor, solo per rimanere ai riferimenti che hai fatto, non vado alla ricerca di eventuali fondamenti teorici che sottendono ai loro intendimenti progettuali, perché questi sono già chiaramente esibiti nell’appropriatezza delle soluzioni adottate, nel formulare risposte differenti ma al contempo aderenti ad alcuni principi e regole che vengono assunti come invarianti e che potrei riassumere sinteticamente in alcuni punti essenziali: la relazione con il contesto, la resa percettiva, spaziale e visiva, la rispondenza funzionale, la qualità materica e costruttiva, la durabilità . Le tecniche compositive impiegate dai diversi progettisti servono a valorizzare e dare un significato espressivo al tema di progetto, ma il tutto è interno a un sapere che si è consolidato nella pratica del mestiere, non nella codificazione di leggi che ne giustificano le scelte.
(Andrea) Scusa Franco, ma ribadisco che trovo che la tua sintesi sia troppo semplicistica. Ciò che hai elencato sembra essere un programma di requisiti prestazionali e funzionali, come se ti stessi riferendo al campo dell’edilizia e non a quello dell’architettura. L’apparato teorico che tu ritieni ininfluente è invece il contenitore di quel sapere che consente di assegnare a un’opera di architettura un significato che supera la sola rispondenza al dato esigenziale.
(Franco) Posso anche convenire sulla eccessiva semplificazione delle mie argomentazioni, ma è un espediente che adotto per evitare l’astrattezza che spesso connota alcune formulazioni teoriche e per non incorrere nell’errore di dare per assodati alcuni assunti solo perché ritenuti elementari. Ad esempio, tu hai giustamente evidenziato una differenziazione nel significato assegnato ai due termini edilizia e architettura; la domanda banale è: come definiresti in forma sintetica il significato di architettura?
(Andrea) In effetti non ti smentisci. La definizione del termine architettura non è univoca, come sappiamo. Nella storia dell’architettura trovi molteplici definizioni attribuite a questo termine, sia dai critici che dai più noti architetti delle varie epoche. Non credo che debba elencarli, dato che li conosci bene.
(Franco) Non hai risposto.
(Andrea) Ho risposto, ho detto che non è univoca. Il carattere ampio e articolato che connota questa disciplina non consente di individuare un unico significato.
(Franco) Ma se lo cerchi in un dizionario lo trovi.
(Andrea) Non ho detto che non si possa definire; ho detto che il significato non è univoco. Quindi trovi diverse definizioni.
(Franco) D’accordo. Infatti potresti trovare alcune di queste definizioni alla voce architettura: «L’arte di formare, attraverso mezzi tecnico costruttivi, spazi fruibili ai fini dei bisogni umani»; oppure: «L’arte di progettare, disegnare, realizzare edifici ed altre opere»; o ancora: «L’arte di ideare e costruire edifici» e altre analoghe. Convengo dunque con te che questa definizione sia una semplificazione, ma è ciò che nel senso comune si intende per architettura. Ciò che poi differenzia il significato di architettura da quello di edilizia non è sempre così chiaro. Ad esempio nel Garzanti troverai che edilizia viene definita come «l’arte, la tecnica, l’industria della costruzione di edifici». Se poi mi chiedi se impiegherei queste definizioni probabilmente ti direi che farei difficoltà ad associare la disciplina dell’architettura a un’arte e non a una scienza, per cui adotterei una diversa formulazione. Allo stesso modo non considero che l’edilizia sia associabile a una disciplina, ma sia espressione di una attività .
(Andrea) Puoi essere più esplicito?
(Franco) Premesso che ciò ha un senso del tutto relativo perché convengo con te sulla difficoltà di individuare un significato assoluto a entrambi i termini, a questa domanda risponderei che l’architettura è una «scienza che si occupa del controllo formale dello spazio, sia antropico che naturale, con finalità estetiche»; mentre nel caso dell’edilizia la definirei come una «attività finalizzata alla costruzione di edifici». Nel primo caso, la preferenza per il termine di scienza in luogo di quello di arte è motivato dal fatto che mentre l’arte è anch’essa riferibile a una attività – quella di «una attività umana volta a creare opere di valore estetico» – la scienza viene invece definita come un «complesso organico e sistematico delle c...