Memoria Viva
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Responsabilità del ricordare e partecipazione civica

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Memoria Viva

Responsabilità del ricordare e partecipazione civica

About this book

'Non dimenticare' e 'non ricordare'. Da sempre, questi due aspetti contradditori solcano la memoria autobiografica e collettiva di drammatici eventi storici, come la Shoah. Il presente volume, che ha avuto il suo momento genetico in un paio di convegni svoltisi a Pistoia e Firenze durante le celebrazioni della Giornata della Memoria nel 2014, si muove lungo questi due percorsi accidentati del fare memoria. Al centro, il lavoro di Andrea Devoto sulla memoria della deportazione politica in Toscana. Gli autori qui ospitati hanno cercato di tessere legami e segnalare nuove vie di analisi e riflessioni accompagnati dalla consapevolezza che la chiave di volta del passato sta nel presente. Per questo motivo il libro aspira a porsi come partner di dialogo all'interno delle pratiche sociali della memoria e della formazione civica dei cittadini. Marialuisa Menegatto è psicologa clinica e di comunità, psicoterapeuta e dottoranda di ricerca presso l'Università di Verona e coordinatrice della Sezione Memo-ria Viva della Fondazione Andrea Devoto. Adriano Zamperini è professore di Psicologia della violenza, Psicologia del disagio sociale e Relazioni interpersonali presso l'Università di Padova e responsabile della Sezione Memoria Viva della Fondazione Andrea Devoto.

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Capitolo VI
Anche chi sopravvive resta per sempre un deportato
Giovanni Contini Bonacossi
1. Introduzione
La notifica di notevole interesse storico non è tanto merito mio, quanto di chi l’archivio lo ha costruito, cioè il merito è di Andrea Devoto. In questi giorni mi capita di ‘incontrarlo’ in altre situazioni. Come Soprintendenza Archivistica della Toscana stiamo facendo un lavoro di storia orale per ricostruire la storia dell’ospedale psichiatrico di Maggiano a Lucca e proprio l’altro giorno un simpaticissimo psichiatra intervistato da noi ci raccontava di come, dopo la legge 180, avessero cominciato a rompere quelle gabbie che vedevano il medico entrare nei reparti soltanto in certe ore del giorno. L’ospedale era in mano ai vecchi infermieri che non sempre si comportavano in modo ‘corretto’ nei confronti dei pazienti e volevano che gli psichiatri girassero per il manicomio a ore fisse, la mattina ma non il pomeriggio, perché se potevano arrivare in modo imprevisto potevano anche assistere ai maltrattamenti subiti dai pazienti. Lo psichiatra raccontava che anche lui a un certo punto era arrivato nel pomeriggio anziché la mattina, e che un super capo degli infermieri gli aveva detto cosa ci facesse nei reparti di pomeriggio chiedendo se sapesse cosa era successo al professor Devoto. Di fatto gli infermieri gli avevano organizzato una trappola: lui faceva ispezioni all’improvviso (si batteva molto per la chiusura degli istituti manicomiali) e gli infermieri l’avevano fatto cadere procurandogli una frattura al braccio. Anche molti altri testimoni raccontano dell’impegno di Andrea Devoto e anche per me la sua figura, che purtroppo non ho mai conosciuto quando era in vita, è stata una scoperta tardiva ma estremamente preziosa, proprio perché occupandomi di Shoah negli anni passati è stato straordinario poter consultare il suo archivio.
Si tratta infatti di un archivio nato abbastanza precocemente, un’impresa progettata a metà degli anni Ottanta e realizzata entro la fine del decennio Ottanta, quando ancora erano vive un centinaio di persone intervistabili. Tra queste una settantina furono intervistate da Andrea e si tratta di un numero che fa particolarmente impressione se pensiamo che solo dieci anni dopo, quando la Shoah Foundation ha condotto le sue interviste in Toscana, di tutti questi superstiti soltanto uno è stato nuovamente intervistato. Questo in parte è accaduto perché la Shoah Foundation intervistava soltanto ebrei, che magari non erano finiti in campi di concentramento ma erano sopravvissuti in altro modo; ma soprattutto è successo perché molti erano morti nel frattempo.
Credo anche che il numero degli intervistati di Andrea sia alto perché mobilitò la struttura di ANED, con una forte energia (che si nota nelle sue lettere) e con una determinazione civile assai intensa. Per questo motivo è riuscito probabilmente a intervistare anche coloro che normalmente non si sarebbero fatti intervistare. Poi vedremo che molti di loro, la stragrande maggioranza, non ricavava nessun significato, neppure lontanamente positivo dall’esperienza fatta, molti volevano solo dimenticare, non erano per niente motivati a raccontare.
Insomma: la cosa preziosa di quest’archivio consiste proprio nella sua vastità. Abbiamo migliaia di pagine, centinaia di ore di registrazione che ci permettono di cogliere l’esperienza dei sopravvissuti.
2. Il ruolo del testimone e le interviste di Devoto
La memoria non è qualcosa di fisso, la memoria è mobile, è personale, la memoria è collettiva quando gruppi di persone hanno subito la stessa esperienza. Una grande storica francese, Annette Wieviorka (1999) ha studiato come evolve negli anni la memoria collettiva della Shoah, ha visto che all’inizio della memoria storica della Shoah il testimone non conta assolutamente nulla: a Norimberga, per esempio, gran parte dei testimoni, alcuni dei quali si erano preparati con grande emozione, al processo non vengono neanche ascoltati.
In realtà il ruolo del testimone comincia a esplodere con il processo Eichmann negli anni Sessanta quando i testimoni parlano anche se da un punto di vista legale non hanno da portare testimonianze direttamente connesse alla vicenda criminale legata a Eichmann. Poi il potenziamento del ruolo del testimone continua nei media: il film Olocausto oggi ci fa sorridere per quanto è incapace nel rappresentare la Shoah, ma quando uscì il fatto che si trattasse di una storia che metteva in gioco persone comuni fece un grandissimo scalpore. E poi, finalmente e soprattutto, il testimone trionfa a partire dall’uscita nelle sale del bel film di Spielberg Schindler’s list.
Questa presenza della Shoah nei media fa crescere il ruolo del testimone: anche troppo, sostiene Annette Wieviorka (ivi: 140-141), perché l’emergenza egemonica del testimone rischia di oscurare la figura e il ruolo dello storico, quasi che si cercasse, coscientemente o meno, di scalzarlo dal ruolo che gli compete: quello di giudicare, di valutare, descrivere e trasmettere non soltanto la memoria, ma anche una riflessione sulla memoria. Insomma è come se si dicesse che ha diritto di parola solo chi ‘c’era’ personalmente, nella persecuzione e nel lager.
Da questo punto di vista le interviste raccolte da Andea Devoto si collocano in una fase in cui ancora la storia della deportazione è totalmente all’interno del paradigma antifascista; abbiamo le testimonianze di molti deportati e solo alcuni tra loro sono ebrei, gli altri, la maggioranza, sono ‘politici’; di fronte a loro c’è il nazionalsocialismo con i suoi scherani italiani, i repubblichini, i quali, come dice uno dei testimoni intervistati dal Devoto, hanno compiuto un atto assolutamente ingiustificabile: hanno arrestato dei cittadini italiani e li hanno poi consegnati ad un’altra nazione perché venissero uccisi. Un altro aspetto molto interessante che emerge da queste interviste è che l’80% di questi testimoni sono politici, sono stati presi come pericolosi sovversivi o a-sociali. Ma in realtà se guardiamo le loro biografie, quello che raccontano, vediamo che soltanto una piccola parte di loro erano realmente politici, partigiani, antifascisti, antifascisti militanti, persone che sapevano cosa stavano facendo quando si opponevano al fascismo e al nazionalsocialismo. Ma la grande maggioranza di loro era formata semplicemente da giovani, spesso giovani operai che in occasione degli scioperi del marzo ’44 a Prato e in altre zone della Toscana si erano trovati, si direbbe, nel posto sbagliato nel momento sbagliato e furono catturati solo per questo motivo.
Se osserviamo i motivi per i quali vengono deportati, si tratta sempre di arresti che non sono quasi mai il risultato di un’attività antifascista organizzata. In un caso abbiamo alcuni giovani operai che si presentano come tutti gli altri giorni in fabbrica e viene detto loro che c’è sciopero; se chiedono cos’è lo sciopero, che non hanno mai conosciuto, si risponde loro che vuol dire che non si lavora. Così due di loro vanno a giocare a biliardo e lì vengono arrestati, finendo a Dachau (Verri Melo 1992: 17-18)1. In un altro caso un sedicenne, Alberto Ducci, padre dell’attuale presidente di ANED Firenze, era andato a perorare la causa di un suo amico che era stato arrestato e poi portato dai repubblichini ai tedeschi perché lo interrogassero. Il sedicenne si era presentato direttamente ai tedeschi, di fatto scavalcando il filtro protettivo costruito attorno ai tedeschi dai repubblichini, i quali per questo motivo vennero duramente rimproverati dai tedeschi: solo per questo si vendicarono sul sedicenne facendolo finire a Ebensee (ivi: 15). Un terzo, Mario Piccioli, era andato a perorare la causa di sua madre, operaia arrestata per sciopero; ma si deportavano solo i maschi, la madre non rischiava, ma fu lui a finire a Dachau (ivi: 16-17).
Quindi in realtà, i veri politici arrestati, tra gli ottocento toscani che subirono la deportazione, sono veramente pochi, solo una minoranza. Quelli appartengono alla maggioranza non politica, del resto, nel corso dell’intervista riflettono su questo punto, cioè sul fatto di non essere stati dei veri ‘politici’. Augusto Lupo, per esempio in un’intervista, dice:
Di politica non me ne intendevo, perché io sono un deportato politico, però io gli avessi a dire di politica non me ne intendevo davvero. Loro mi hanno fatto deportato politico perché mi sono rifiutato di collaborare coi tedeschi, però io se gli avessi a dire anche tutt’oggi di politica2.
Questa ignoranza della politica, molto diffusa, fu per queste persone un handicap fortissimo, una volta arrivati a destinazione. Costituì un elemento d’inferiorità, una predisposizione alla morte molto forte; infatti quando arrivarono nei campi di concentramento non avevano nessuna informazione che avesse potuto anticipare l’orrore nel quale si trovarono scagliati e vennero letteralmente travolti da quello che trovarono, quasi fossero investiti da un treno in corsa.
Il treno del resto non è solo metafora, ma esperienza reale. Nel viaggio di andata molti raccontano di un vecchio che era stato in un campo di concentramento durante la Prima guerra mondiale e diceva ai più giovani compagni di fare attenzione perché le cose si mettevano male. Nessuno gli credette fin quando questo vecchio si affacciò al finestrino del vagone e fu colpito da un proiettile che quasi gli staccò la testa dal tronco. Tutti ricordano il suo cadavere che rimase nel vagone per molte ore sporcando tutto di sangue: una testimonianza, la sua, prima verbale e poi drammaticamente fattuale (ivi: 41-50)3.
È questo il momento in cui entrano nell’orrore che si paleserà apertamente al momento dell’ingresso nei campi, dove essi arrivano completamente ignari, facendo cose che non dovrebbero mai fare, non riuscendo a capire le lingue (nessuno di loro sa parlare il tedesco e molti hanno un rapporto complesso anche con l’italiano non dialettale). Per questa impreparazione mo...

Table of contents

  1. Marialuisa Menegatto, Adriano Zamperini
  2. Discorsi di presentazione
  3. Capitolo I
  4. Capitolo II
  5. Capitolo III
  6. Capitolo IV
  7. Capitolo V
  8. Capitolo VI
  9. Nota finale
  10. Note sugli autori
  11. Appendice fotografica