CAPITOLO 1
Calvino e Gogol’
Dai lettori mi aspetto che leggano nei miei libri qualcosa che io non sapevo, ma posso aspettarmelo solo da quelli che s’aspettano di leggere qualcosa che non sapevano loro.
Dal diario di Silas Flannery
Italo Calvino lavora a Se una notte d’inverno un viaggiatore (d’ora in poi: Se una notte) dal 1977 al 1979. In questo stesso periodo dirige la collana “Centopagine”, affidatagli da Einaudi nel 1971, che fino al 1985 pubblica settantasette testi di autori italiani e stranieri, la maggior parte dei quali attivi tra Otto e Novecento. Presentando al pubblico la sua collana, egli dichiara l’intenzione di ristampare alcune traduzioni già einaudiane divenute ormai irreperibili, come quelle dei «grandi narratori russi». Continua poi col dire che «molte saranno le traduzioni nuove, in alcuni casi di opere mai pubblicate in Italia, e le proposte di titoli dimenticati o rari sui quali l’attualità dei nostri interessi getta una nuova luce». In queste rapide anticipazioni programmatiche, vaghe quanto basta per accendere la curiosità dei lettori ma altrettanto precise per garantire loro una scelta di qualità, Calvino non può dire per ovvi motivi di quali traduzioni «nuove» si trattasse. Sta di fatto che il 15 settembre 1977 scrive ad Angelo Maria Ripellino, per rinnovargli l’invito, già rivoltogli qualche anno prima, a stendere l’introduzione a una «traduzione inedita che avevamo in archivio da moltissimi anni, e che spero non sia pessima»: quella de Le veglie alla fattoria di Dikanka (d’ora in poi: Le veglie), opera di Nikolaj Gogol’ tradotta da Giovanni Langella. Questo volume, che sarà pubblicato il 23 settembre 1978 con un’introduzione di Vittorio Strada e non del Ripellino (morto nell’aprile dello stesso anno) come cinquantaquattresimo dei “Centopagine”, diviene anch’esso una di quelle «materie prime» che Calvino voleva offrire ai lettori della sua collana, e tale è forse anche per lui che lo ha senz’altro riletto mentre lavora a Se una notte. Quest’ultimo dato ha molto più della mera occasionalità e permette, anzi, di formulare alcune osservazioni comparative tra i due testi, sulla scia di quegli «echi di memoria di tanti libri letti» che Calvino lasciava addensarsi attorno alla composizione di ognuno dei dieci romanzi interrotti del suo libro.
Gli originali dei due libri che compongono Le veglie presentano quattro racconti, ciascuno con una relativa Prefazione, pubblicati a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro tra il 1831 e il 1832. In entrambi i casi il nome di Gogol’ non figurava, nascosto dietro quello (di cui a breve diremo) dell’apicoltore che ha raccolto le varie storie narrate in sua presenza durante le veglie. Nell’inverno russo di pieno Ottocento – quando il lavoro dei campi è impedito dal freddo e dal gelo e i contadini si accoccolano davanti alle stufe delle loro case – venuta la sera si odono al suono delle balalajka, risate e canzoni che provengono da improvvisate adunanze di gente nella strada. In una delle case dei dintorni troviamo allora già riunita una cerchia di ragazze dedite al fuso e alla rocca, le quali, quando i giovanotti e i musicisti vi fanno il loro ingresso, si abbandonano alle danze. Il gruppo di persone così radunato si amplia, diversificandosi per età, e dopo le musiche e i balli segue un momento di raccoglimento – dal sapore vagamente boccacciano –, di chiacchiere e racconti: ciascuno dei partecipanti a queste veglie narra una storia, e il buon apicoltore che decide di raccoglierne alcune per iscritto descrive, nella Prefazione al primo libro, l’aspetto e le qualità dei principali e più assidui ‘cantastorie’; quindi invita il lettore a recarsi presso la sua fattoria per assistere a questi eventi e per assaggiare le leccornie che sua moglie è solita preparare in queste occasioni. Tanti racconti, dunque, provenienti da altrettante voci, raccolti nel medesimo volume. E oltre questo piano strutturale anche quello tematico, come il bozzetto rustico dell’interno domestico ricostruito in Fuori dell’abitato di Malbork, e il gusto gastronomico di cui si dirà.
Le veglie racchiudono un universo popolato da diavoli e streghe, ombre e fantasmi, accanto ai quali convive abitualmente un mondo rurale che spesso si imbatte in queste presenze: talvolta i suoi componenti ne escono vincitori, se dimostrano di avere una sana onestà e un’intelligenza con cui piegano i demoni al proprio volere, o se questi ultimi irrompono nella storia come aiutanti magici; talaltra essi ne sono sconfitti, se scendono a patto col diavolo per perseguire il loro obiettivo, o se – ma ciò accade in un solo racconto, La tremenda vendetta – il personaggio stregato deve necessariamente, quasi obbedendo a una legge superiore ed immutabile, trionfare sul bene. Questo connubio uomini-demoni è quasi una costante di ciascuna storia, che ovviamente poi si distingue dalle altre per una trama autonoma e diversa.
Da quanto finora si è detto, il primo elemento in comune con il libro di Calvino è, oltre al piacere del raccontare che sostiene entrambe le narrazioni, l’assemblaggio di storie diverse con autori e narratori diversi. La voce narrante dell’apicoltore, inoltre, secondo la migliore tradizione del racconto orale, cerca spesso il rapporto diretto col lettore, lo invita (come si è già detto) a fargli visita, spesso ci dialoga oppure, come fa per bocca del sagrestano Foma Grigor’evič, rimbrotta l’uditorio perché presta poca attenzione alle sue parole. L’apicoltore si chiama Rudyj Panko (il primo è un soprannome che gli deriva per avere avuto in gioventù i capelli rossi), e in Se una notte uno dei personaggi dei dieci romanzi incompiuti – o se si preferisce dei tanti libri in uno – ha il nome di Ponko. Lo si incontra quando Calvino ci porta ad esplorare l’interno di una certa casa, tutta pregna degli odori di una cucina in fervente attività, che è proprio l’ambientazione da cui prende le mosse «il romanzo polacco» Fuori dell’abitato di Malbork di Tazio Bazakbal. Già Segre avvalendosi dei suggerimenti di Giuliana Nuvoli, all’uscita di Se una notte ci aveva illuminato su simili operazioni deformanti che subiscono i nomi dei suoi personaggi, registrando come il cognome della famiglia giapponese di Sul tappeto di foglie illuminate dalla luna è Okeda, e il nome di un personaggio femminile del romanzo giapponese di Junichiro Tanizaki, La chiave, Okada. Se ne deduce che la sostituzione di un’unica vocale nel mezzo di un nome proprio è una pratica non estranea a Calvino nell’atto di battezzare i volti presenti in questi suoi racconti: dunque Panko in Gogol’, Ponko nel suo racconto. Ma, cosa interessante che estenderebbe la ricerca al rapporto con Gombrowicz , il nome di un personaggio di Ferdydurke è Pinko.
Il «campo di suggestioni» agglomeratesi intorno a questo inizio di «romanzo familiare e campagnolo» che l’autore presenta come «polacco» aveva, per sua stessa ammissione, già ricordato «a un critico Grass e a un altro Singer». Tuttavia, egli stesso dichiara di apprezzare i due scrittori chiamati in causa a questo proposito, ma di non aver pensato a loro per il suo «romanzo polacco», per il quale è molto più plausibile l’influsso de Le veglie di Gogol’.
Infatti quest’opera, specie nelle due prefazioni, è caratterizzata da una frequente attenzione alle pietanze tipiche, alle rispettive modalità di preparazione, ai nomi specifici delle pietanze, degli ingredienti e degli utensili occorrenti a cucinarle, cosa in cui, avverte con un pizzico di modestia l’apicoltore Panko, la moglie eccelle per la sua bravura: «Avete mai assaggiato, oh signori, il liquore di pere con le more di rovo, o la vodka con uva passa e la panna di prugne? E non vi è mai capitato di gustare la zuppa di semolino di latte? Dio mio, quante pietanze ci sono al mondo! Assapori, e vai addirittura in estasi dalla dolcezza!»; e ancora:
Discorrevamo del modo di conciare le mele e mia moglie stava dicendo che bisogna prima lavarle ben bene e poi metterle a bagno nel kvas, e poi… – Così non combinerete nulla di buono! – interloquì quel signore di Poltava, infilando una mano sotto il soprabito color pisello e camminando per la stanza con aria grave. – Non ne verrà fuori niente di buono! Prima di tutto bisogna cospargerle di kanuper, e poi… – Ora io mi rimetto a voi, gentili lettori: ditemi in coscienza se avete mai sentito dire che le mele vengano cosparse di kanuper! Si cospargono, è vero, di foglie di ribes, di tarassaco e di trifoglio; ma che ci mettano del kanuper… no, non l’ho mai sentito dire.
Questi passi si segnalano per la diretta chiamata in causa del lettore tipica dell’oralità, e per la capacità evocativa di un insieme di sapori, minuziosamente descritti con la stessa cura necessaria alla preparazione delle bevande e del...