Autobianchi
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vita e morte di una fabbrica

Adriano Todaro

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Autobianchi

vita e morte di una fabbrica

Adriano Todaro

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37 anni di storia con i protagonisti, le testimonianze, i documenti della fabbrica FIAT brianzola dell'Autobianchi di Desio. Scrive Diego Novelli nella sua introduzione: "Questo libro oltre a farci rivivere con immediatezza uno squarcio di "storia patria" è un forte richiamo alla dura realtà. Le pagine che seguono sono un urlo "a non dimenticare". Chi non ha memoria, non ha radici, non ha esperienza; è facile soggetto alle manipolazioni, agli sbandamenti, agli inganni, quindi alle strumentalizzazioni e al fanatismo. "Conoscere la realtà per cambiarla", scriveva Antonio Gramsci."

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Information

Publisher
Zerobook
Year
2018
ISBN
9788867111411

Autobianchi, vita e morte di una fabbrica

Beati coloro che hanno
fame e sete di opposizione
(padre Davide Maria Turoldo)
Noi non ammettiamo che
i dirigenti sindacali
si atteggino a superuomini,
e che non abbiano nulla
da imparare dai lavoratori
(Giuseppe Di Vittorio)

1 - L'inizio

Viale Lombardia

Il telefono mi sveglia alle 8. La sera prima ero di turno all'Ansa fino all'una di notte e quella mattina tentavo di recuperare qualche ora di sonno. È Monica Previato, la collega con cui faccio la pagina di Desio per l'esagono. Sembra – mi dice con voce concitata – che all'Autobianchi sia arrivata la notizia della chiusura. Dovrebbero fare un’assemblea. Vienimi a prendere che tentiamo di entrare per assistere all’assemblea”.
È venerdì 18 ottobre 1991, una giornata autunnale come tante, grigiore e tristezza come sempre. Le buone intenzioni di Monica s’infrangono però con gli ordini Fiat: in fabbrica non si entra. E così ci fermiamo davanti alla portineria di viale Lombardia ad attendere. Attendere cosa? In quel momento non lo sappiamo ancora eppure quella giornata è l'inizio di una vicenda che durerà fino al luglio '92 e che ci coinvolgerà completamente fino al punto di seguirla con una passione che travalica il nostro mestiere di cronisti.
Siamo soli in viale Lombardia. Poco dopo arrivano la nostra fotografa Daniela Criscuolo e Francesco Gironi, sempre de l'esagono. Poi anche altri colleghi: Viviana Magni del Corriere, Piero Fachin del Giorno, altri fotografi. Discutiamo, ci scambiamo qualche opinione, qualcuno va nel vicino bar. Noi de l'esagono decidiamo di dividerci. Con Monica e Daniela andiamo in Comune per parlare con qualche amministratore. Ma non c'è nessuno.
Angelo Ventura, messo comunale, come sempre è all'altezza della situazione e ci consiglia di telefonare a casa del vicesindaco Giovanni Colombo, anzi è lui stesso che telefona. Giovanni Colombo è vicesindaco Pds e assessore all'Urbanistica. Ma è anche dipendente dell’Autobianchi-Fiat. Quale assessore meglio di lui può parlare di questa vicenda? Per la verità Giovanni Colombo – baffetti che gli danno un'aria guascone – arriva subito e si rende gentilmente disponibile alle nostre domande. Notiamo però in lui, oltre alla forte preoccupazione, anche un senso di ritrosia nel parlare, nel prendere posizione, quasi una forma di difesa. Dice poche cose ma chiare, anzi chiarissime. Talmente chiare che poi, una volta in strada, con Monica ci domandiamo se per caso non sappia di più di quello che ci ha voluto dire. Che cosa pensa di questa chiusura?
È una grossa perdita di carattere occupazionale: a Desio l'occupazione è sempre stata in attivo, ora diventerà passiva. I lavoratori di Desio dovranno uscire per trovare lavoro, la struttura metalmeccanica che ha fatto crescere questa città scompare!
Chiaro? Non troppo? Ma sì che è chiaro e se è necessario Giovanni Colombo, chiarisce ancora di più:
Ci mobiliteremo a tutti i livelli possibili, in Regione e con tutti i parlamentari della zona, per non lasciare nulla d’intentato.
Ma quali sono “tutti i livelli possibili”? Quando sento questa frase, mi viene in mente ciò che dicono i funzionari di polizia dopo che avviene qualche grosso fatto di sangue. Stiamo indagando – dicono – in tutte le direzioni per scoprire i colpevoli. Che equivale al dire: non sappiamo da che parte cominciare. In effetti, la mobilitazione per l’Autobianchi – come vedremo più avanti – ci sarà, anche se sarà una mobilitazione che durerà lo spazio di un mattino, anzi un paio di assemblee e una manifestazione, per altro molto riuscita, per le vie di Desio.
Ritorniamo in viale Lombardia appena in tempo per sentire degli slogan che provengono dai cortili dell’Autobianchi. Poi, come d’improvviso, appare un corteo composto da tute blu. Si fermano davanti alla palazzina degli uffici. Noi siamo tutti aggrappati alla protezione che delimita l’area Autobianchi e alla fine, gli operai, si accorgono di noi. In tanti vengono per dire le loro ragioni, per imprecare, per gridare la loro rabbia. Hanno appena terminato l’assemblea, dove è stato letto il comunicato relativo alla chiusura firmato da Maurizio Magnabosco, responsabile delle relazioni sindacali della Fiat Auto, un dirigente che ha studiato sociologia a Trento negli anni di Mara Cagol, compagna di Curcio e che alla Fiat è diventato un esperto in dimissioni incentivate e prepensionamenti. Nel 1986, a detta della stessa Fiat, sono stati pagati 500 miliardi di lire per le dimissioni volontarie. E già di dimissioni incentivate si parla da subito, aggrappati alla rete di viale Lombardia.
Due settimane fa sono stato chiamato in direzione – spiega un operaio – e hanno offerto a me e a mia moglie, che lavora in ufficio, la somma di 62 milioni di lire.
Non sempre la cifra è identica. Le cifre variano da soggetto a soggetto. A un’operaia di 27 anni hanno offerto 18 milioni, lordi naturalmente, e la stessa cifra è offerta a chi ha problemi fisici e agli “anziani”. Le voci si accavallano, tutti vogliono parlare, dire la loro. Molti però alla nostra domanda di dire nome e cognome si rifiutano. Hanno paura di essere individuati dalla Fiat o sperano in una sorte futura migliore.
Chi invece non ha paura di parlare è Antonella Rizzo, delegata Fim-Cisl, reduce da uno scontro con un Repo (responsabile di produzione), tal Tresoldi che avremo occasione di incontrare più avanti. Episodio che è finito prima sui giornali e poi in pretura.
Gli incentivi – racconta la delegata – sono partiti nella primavera del 1991 e sono diretti soprattutto nei confronti dei soggetti deboli, malati, portatori di handicap e soprattutto donne. Il sindacato non ha accettato questa logica ma la Fiat ha proseguito nei suoi piani con pressioni di tutti i tipi.
Quali pressioni? La Fiat è maestra in questo. Ha inventato i “reparti confino”, quella corte dei miracoli, dove a Torino ha infilato dagli handicappati agli infartuati e dove a Desio, nel passato, ha creato il reparto zero o il reparto “a disposizione”. Certo, il tempo fa affinare le idee anche agli uomini dell’Avvocato ma i metodi sono sempre quelli, del bastone e della carota magari con una spruzzata di paternalismo.
Durante i colloqui – afferma Antonella Rizzo – ti umiliano. Ti dicono che quando ti hanno assunto l’hanno fatto per un favore a qualcuno e ora questo favore lo devi rendere firmando le dimissioni.
Emilio Ponteggia sembra possedere più certezze di tutti gli altri. Proviene dall'Alfa di Arese. Lui stesso ha chiesto il trasferimento a Desio per essere più vicino a casa. Secondo il suo parere il sindacato poteva intervenire già anni prima, poiché “tutti” sapevano che nel 1992 l’Autobianchi di Desio avrebbe chiuso.
E il sindacato? Il sindacato quel giorno è rappresentato da Susanna Camusso, una socialista che ha avuto esperienze, a suo tempo, nel Movimento studentesco e che ha partecipato all’assemblea:
L'impressione è che si sostiene che l’Autobianchi continuerà a produrre automobili. Mi pare difficile. Più probabile e necessario ottenere una proposta industriale e significativa anche se non si tratta di automobili.
Forse la frase non è chiara ma il senso sì. Sarà anche sindacalese ma ciò che salta subito in mente è che il sindacato sarebbe anche disponibile a concessioni. L’importante è ottenere una “proposta” da parte della Fiat, anche se non si faranno più automobili. E i trasferimenti ad Arese? Su questo punto che nei mesi a venire sarà uno dei punti di scontro fra i firmatari dell’accordo e chi lo contesterà, il sindacato pone, sin da quel venerdì 18 ottobre, una serie di perplessità:
Noi – continua Camusso – per molti anni abbiamo sostenuto che lo stabilimento di Arese fosse a rischio. È sottoutilizzato per volontà della Fiat e oggi, questa, deve dimostrarci che Arese è uno stabilimento credibile. E poi il lavoro all’Alfa non è sicuro. Anche loro sono in cassa integrazione.
Rileggere queste frasi a distanza di circa un anno fa accapponare la pelle. Anche perché le stesse cose che sosteneva il sindacato, per bocca di Susanna Camusso, nei mesi a seguire diventeranno patrimonio di molti ma sarà abbandonato dal sindacato tutto teso a dimostrare la bontà dell’accordo.
Col tempo i fatti hanno dato ragione a chi contestava l'accordo. Dopo mesi e mesi di lavoro alternato, di settimane di cassa integrazione, per un totale di due anni, la Fiat decide che dal febbraio 1993 si dovranno produrre 25.400 vetture in meno al mese quindi 66.300 settimane lavorative perse. L’annuncio avviene lo stesso giorno in cui la “Cinquecento”è eletta “auto europea `93”, il 13 gennaio 1993. E la “cassa” partirà con una novità: si eviterà la chiusura totale degli stabilimenti e si lavorerà solo nel turno del mattino. In un anno la Fiat ha tagliato 250.000 vetture e se a questo dato si aggiunge che nei primi mesi del '94 dovrebbero partire gli stabilimenti di Melfi e Pratola Serra – con una produzione di 450.000 auto all’anno – allora è evidente che il 1993 non sarà un buon anno per l’Alfa di Arese.
Ma noi quel giorno, aggrappati all'inferriata dello stabilimento di viale Lombardia, tutto ciò non lo sapevamo. Né lo potevano sapere gli operai che manifestavano davanti alla palazzina-uffici. Anzi, vedendo quei visi e parlando con loro si ha l'impressione netta di una gran voglia di combattere, di lottare per conservare il posto di lavoro e nello stesso tempo la realtà produttiva così importante per tutta la zona. C'è un anziano operaio che si fa spazio nella calca, vuole parlare:
All'Autobianchi si poteva lavorare benissimo. Io dal 1961 lavoro alla catena di montaggio ma da quindici anni in questa fabbrica non si fa più manutenzione. Ieri mi hanno messo a fare una lavorazione dove normalmente si lavora con tre motorini: a me ne ha dati solo due. Spesso mancano anche gli attrezzi per lavorare.
E così il discorso cade sulle condizioni di lavoro e le denunce si sprecano. Tutti hanno qualcosa da dire ma le più arrabbiate sono le donne:
Quando piove – dice una lavoratrice – lavoro sotto un cellophane, perché dal tetto viene giù acqua. L’abbiamo fatto presente più volte ma senza risultati.
Sarà questa la Qualità Totale di romitiana memoria? Me lo chiedo e mi sembra impossibile che nell’anno di grazia 1991 si devono sentire ancora queste cose. E non c'è solo questo. Ci sono i piccoli e grandi abusi come quello denunciato da un altro lavoratore che mentre era regolarmente al lavoro, la direzione decide di mandargli a casa il controllo medico. Una forma di pressione o quanto meno un “avviso”. Così, tanto per farti capire che sei controllato.

In Comune

Torniamo in Comune. Si è spar...

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