Terza parte
LA RICERCA EMPIRICA
Notevoli sono stati gli sforzi di Riley E. Dunlap compiuti non solo nel campo della definizione concettuale della disciplina della Sociologia dell’ambiente, ma anche in quello della ricerca empirica. Più nello specifico, egli da una parte ne ha cercato di ricostruire l’evoluzione degli ambiti ricerca, dall’altra si è personalmente dedicato, nell’arco di tutta la sua carriera professionale, alla conduzione di numerose investigazioni. A questo proposito ci sembra tra l’altro di poter affermare che la ricerca empirica abbia rappresentato per l’autore un elemento fondamentale al fine della formulazione del suo pensiero e per le elaborazioni teoriche; e proprio perché – quantomeno in Italia – sono soprattutto queste ultime a esserci giunte, abbiamo reputato opportuno dedicare la parte finale del presente lavoro agli aspetti meno conosciuti della sua opera. Di seguito viene quindi più o meno brevemente descritta una serie di ricerche condotte da Dunlap che, come si vedrà, si concentrano principalmente sul tema degli atteggiamenti e dei comportamenti nei confronti dell’ambiente, dei movimenti ambientali, e della preoccupazione per l’ambiente diffusa nella società civile.
Le pagine seguenti, quindi, sono strutturate nel modo seguente: il cap. 10 ripercorre la ricostruzione dell’evoluzione degli ambiti di indagine della Sociologia dell’ambiente, così come è stata elaborata dall’autore in diversi contributi. il cap. 11 è invece dedicato alla rappresentazione delle principali ricerche condotte da Riley E. Dunlap e dai suoi collaboratori, ed è suddiviso in tre sottoparti: la prima concernente le ricerche sulla preoccupazione ambientale (cap. 11.1); la seconda sui valori, gli atteggiamenti e i comportamenti in campo ambientale (cap. 11.2); la terza sui movimenti ambientalisti e i gruppi di pressione cap. 11.3.
10. L’evoluzione degli ambiti di indagine della Sociologia dell’ambiente
10.1 Gli ambiti di studio degli anni ’70
Catton e Dulap ritenevano che la quasi totalità dei sociologi, aldilà delle diverse, specifiche, teorie di riferimento, pur inconsapevolmente abbracciasse il paradigma dell’HEP, trattando la società umana come se fosse esente da ogni limite ecologico, e ignorando l’ambiente biofisico in cui vive. Secondo i due autori, inoltre, proprio l’implicita adesione a tale paradigma ha impedito a molti scienziati sociali di rendersi conto del cambiamento di condizioni ecologiche di cui il genere umano ha cominciato a fare esperienza.
Tuttavia, spiegano Dunlap e Marshall (2007), alla fine degli anni’60 e nei primi anni ’70, furono le implicazioni sociali della crisi ecologica, nel frattempo divenuta particolarmente chiara, e l’emergere delle questioni ambientali nell’agenda politica statunitense che indussero i sociologi a prestare attenzione a tali problematiche. I “paraocchi” in qualche modo imposti dall’HEP alla disciplina, tuttavia, inizialmente ridussero tale nuova attenzione all’applicazione delle più tradizionali prospettive sociologiche alle problematiche ambientali. I primi lavori sociologici sull’ambiente, quindi, non si tradussero nell’elaborazione di nuovi paradigmi sociologici, e per ciò vennero raggruppati dagli stessi Dunlap e Catton (1979a) sotto il cappello della “Sociologia dei problemi ambientali”.
Di questi primi lavori, molti concernevano la rilevazione della consapevolezza e della preoccupazione ambientale da parte della società civile, il supporto alle politiche governative pro-ambientali, e la loro variazione tra i diversi settori della società. Altre ricerche hanno invece messo in evidenza il ruolo giocato dai media nella definizione dell’agenda politica (Schoenfeld, 1979). Di particolare importanza per il successivo sviluppo della Sociologia dell’ambiente, poi, sono state le ricerche sugli usi ricreativi delle terre incolte, sui problemi di gestione delle risorse e sui movimenti ambientalisti. Per quanto concerne gli studi sugli usi ricreazionali dei parchi, delle foreste, e delle terre incolte, inizialmente gli studi svolti rappresentavano un’estensione delle più tradizionali indagini sociologiche sul comportamento nel tempo libero (Cheek, Burch, 1976; Johannis, Bull, 1971). In seguito si cominciò a indagare la soddisfazione degli utenti (Bultena, Klessig, 1969), per poi avere le prime distinzioni tra consumo e non-consumo della terra e delle risorse (Wagar, 1969). Dato, poi, che i visitatori talvolta danneggiavano l’ambiente in cui svolgevano le proprie attività ricreative (Cambell, 1970), vennero condotti studi sui comportamenti deprezzanti, seguiti da esperimenti volti alla modifica dei comportamenti per frenare tali comportamenti (Clark, Hendee, Burgess, 1972).
Per quanto concerne gli studi condotti sulla gestione delle risorse, sono stati i problemi di “sovra utilizzo” delle risorse che hanno spostato l’interesse dei sociologi dalle ricerche sui problemi di gestione alle analisi – più rilevanti dal punto di vista ecologico – sulla capacità di carico. Inoltre, dato che alcuni gruppi associativi nell’ambito della società civile hanno spostato i loro principali interessi dal godimento alla protezione dell’ambiente, gli studi svolti su tali gruppi hanno cominciato a trasformarsi in studi sui movimenti ambientalisti. Questi ultimi hanno costituito l’oggetto di numerosi studi sociologici che ne hanno osservato e descritto le origini, la partecipazione, le tattiche, gli obiettivi, l’ideologia, l’atteggiamento nei confronti dei problemi ambientali. Senza dubbio, l’interesse per l’ambientalismo è stato stimolato dalla consapevolezza dei gravi problemi correlati all’inquinamento, quali la rilevazione della presenza di sostanze cancerogene, i cambiamenti climatici causati dall’uomo, l’erosione, dei suoli, etc. (Dunlap, Catton, 1979a).
La transizione dalla “Sociologia dei problemi ambientali” alla “Sociologia dell’ambiente”, intesa come focalizzazione sull’interazione ambiente-società, è stata senz’altro facilitata – come sottolineato da Dunlap (Dunlap, Catton, 1979a) – dalla pubblicazione del testo “The limits to growth” (Meadows, Meadows, Randers, Behrens, 1972) e dalla crisi energetica degli anni 1973-74. Tali accadimenti hanno profondamente contribuito a indirizzare alcuni (in realtà ancora molto pochi) sociologi a cominciare un processo di ridefinizione degli strumenti concettuali a disposizione, e a orientare la loro attenzione verso gli impatti sociali derivanti dalla scarsità delle risorse naturali, così come verso l’iniqua maniera in cui tali impatti si sarebbero distribuiti tra gli strati sociali (Morrison, 1976; Schnaiberg, 1975).
Dunlap e Catton (1979a) raccontano come alcuni (pochi) altri sociologi abbiano invece cominciato a focalizzarsi su un tema fino a quel momento ignorato dalla sociologia tradizionale: la relazione tra la società umana e l’ambiente biofisico (si veda Burch, 1971; Michelson, 1970), oppure, detto in altre parole, l’impatto delle società umane sull’ambiente e l’impatto dell’ambiente (da quello costruito a quello naturale) sull’organizzazione sociale e il comportamento umano. Come indicato più sopra, tali ricerche, che hanno inevitabilmente rotto con i tabù disciplinari, sono state stimolate dalla crisi energetica del ’73-’74, e dal generalizzato problema dei “limiti della crescita” che la società si è trovata a dover affrontare. L’improvvisa scarsità di una risorsa fondamentale come il petrolio – la cui disponibilità era sempre stata data come garantita – aveva messo in luce la dipendenza delle società industrializzate dalle fonti fossili. Ciò, non solo ha dato impeto a una grande quantità di lavori sull’energia (Rosa, Machlis, Keating, 1988), ma ha aiutato alcuni sociologi a liberarsi dei paraocchi imposti dall’HEP e a cominciare a pensare a una prospettiva ecologica alternativa nello studio delle società industriali moderne (Dunlap, Catton, 1994).
A quei tempi, quindi, l’attenzione veniva perlopiù riposta su un solo “lato” dell’interazione società-ambiente, cioè sugli effetti della limitatezza delle risorse sulla società, mentre veniva trascurato il lato opposto, cioè l’impatto della società sull’ambiente. Solo in alcuni casi si è avuta anche un’esplicita attenzione alla relazione reciproca tra le società e il loro ambiente, o alla dipendenza eco-sistemica delle società moderne (Burch, 1971). L’influenza di tali studi sulla disciplina madre, inoltre, furono molto limitati, nonostante negli anni ’70 crebbero enormemente le ricerche in campo ambientale (Dunlap, Catton 1979a).
10.2 Gli accadimenti degli anni ’80
Dunlap e Marshall (2007) spiegano come gli anni ’80 abbiano rappresentato per la Sociologia dell’ambiente un periodo dalla doppia valenza. Da una parte, infatti, con l’avvento di Ronald Reagan al potere, è riemersa chiaramente nell’animo degli americani la certezza di una crescita senza limiti; liquidata la crisi energetica come un banale incidente di percorso, i valori e le credenze nell’individualismo, la libera iniziativa, l’abbondanza, la crescita e la prosperità ripresero il sopravvento. Tutto ciò si ripercosse negativamente in campo sociologico, come dimostrato dalla caduta degli iscritti all’ASA section (ridottisi a 274 nel 1983), dai pochi paper presentati sulle tematiche ambientali, e dai pochi iscritti ai corsi accademici.
Dall’altra parte, tuttavia, la prima metà degli anni ’80 è stata caratterizzata anche da tre gravi incidenti ambientali (Three Mile Island 1979, Bophal 1984, e Chernobyl 1986), che hanno evidenziato la drammaticità degli impatti sociali degli incidenti tecnologici e hanno incentivato gli studi sociologi in questo campo. Accanto all’analisi delle ripercussioni globali dei problemi ambientali, è continuata, in questo periodo, anche l’analisi di problemi ambientali localizzati. È proseguita, ad es., la tradizione degli studi sull’ambientalismo, con un’attenzione particolare rivolta a un nuovo movimento dedicato alla “giustizia ambientale”, nato in reazione alla scoperta, da parte della società civile, di rifiuti pericolosi depositati in siti localizzati nelle vicinanze di comunità di minoranze o di individui con un basso reddito (Bullard 1990, Capek 1993). Sono stati inoltre svolti alcuni studi longitudinali sulla variazione nel tempo dell’opinione pubblica rispetto alle problematiche ambientali (Jones, Dunlap, 1992).
Se gli studi sopra citati si collocano tutti “da un lato” dell’interazione società-ambiente, e cioè si occupano di analizzare l’impatto delle condizioni ambientali sugli uomini – in riferimento all’interazione società-ambiente, Dunlap e Catton (1979a) spiegano come negli anni ’80 si sia sviluppato anche un filone di ricerca che si concentrava sull’altro lato dell’interazione società-ambiente, e cioè lo studio delle ripercussioni della società sull’ambiente. I primi lavori a tale proposito sono stati volti all’individuazione delle cause sociali del degrado ambientale e hanno sostanzialmente rappresentato una critica alle spiegazioni monocasuali che prevalevano in quel periodo in letteratura (cfr. cap. 9 sul dibattito tra Erlich e Commoner). Dunlap e Catton hanno rielaborato a tale riguardo il modello POET che, sottolineando le relazioni tra popolazione, tecnologia, organizzazione sociale e ambiente, evidenziava i limiti insiti nella focalizzazione su un’unica causa (Dunal, Catton, 1979a, 1983) (per approfondimenti si veda cap. 9). Ma l’analisi più influente elaborata in quel periodo è stata senza dubbio quella di Schnaiberg (1980), che ha criticato la crescita della popolazione, lo sviluppo tecnologico e il consumerismo quali elementi-chiave del degrado ambientale. Diversamente, secondo l’autore, è l’insito bisogno delle imprese di mercato di crescere e di sostituire il lavoro umano con la tecnologia che porta a un’inevitabile crescita nell’utilizzo delle risorse (per approfondimenti si cap. 9).
Negli anni ’80, i sociologi dell’ambiente si sono dedicati anche, seppure in maniera più limitata, all’analisi delle possibili soluzioni ai problemi ambientali. Dunlap, ad es. (Dunlap, Lutzenisher, Rosa, 1994), ha identificato tre tipologie di soluzioni politiche: la soluzione cognitiva, che si basa sull’informazione e la persuasione per indurre cambiamenti comportamentali; la soluzione strutturale, che impiega leggi e regolamenti per imporre un cambiamento; e infine la soluzione comportamentale, che usa incentivi e disincentivi per incoraggiare un cambiamento nelle modalità d’azione degli individui (per approfondimenti si veda cap. 9) Negli anni ’80, sono stati condotti diversi studi per valutare l’efficacia di tali strategie risolutive, soprattutto in riferimento al risparmio energetico (Rosa, Machlis, Keating, 1988).
Paradossalmente, mentre negli Stati Uniti, almeno sotto il profilo istituzionale, la Sociologia dell’ambiente degli anni ’80 entra in crisi, negli stessi anni sembra acquistare per la prima volta importanza altrove. Ad es., in Europa, fino a quel momento era mancata una disciplina che si riconoscesse e auto-definisse “Sociologia dell’ambiente” (si veda Martinelli, 1989, per ad es. la situazione in Italia). Nonostante ciò, alla fine degli anni ’80, l’interesse ...