Introduzione
Globalizzazione è sinonimo di interdipendenza delle economie di tutto il mondo, di integrazione a livello mondiale dei mercati dei beni, dei servizi e dei capitali.
Si discute se sia un fenomeno interamente nuovo (la seconda metà dell’800 sperimentò mercati globalmente integrati), se sia irreversibile[1] ovvero completo[2].
C’è, di fatto, una tendenza all’aumento dell’integrazione a livello mondiale. A cominciare dalla seconda metà degli anni ’80 il commercio è divenuto molto più importante di quanto non fosse oltre cento anni prima. Il rapporto tra export di merci e servizi e flussi di IDE (investimenti diretti esteri)[3] in percentuale del PIL mondiale ha raggiunto valori oltremodo elevati.
Negli anni più recenti il dibattito antico sulle politiche del commercio internazionale ha ripreso nuovo vigore. Molte e serie sono le domande sollevate in riferimento a diverse dimensioni dello scambio internazionale: dai flussi finanziari a quelli culturali. Ci si chiede se il processo di globalizzazione debba essere frenato o contrastato o se, invece, si tratta solo di modificarne la forma; in quali ambiti e fino a che punto sia opportuno procedere alla liberalizzazione delle transazioni e quando invece occorra individuare delle forme di protezione dello spazio economico nazionale.
La globalizzazione dell’economia mondiale si associa all’intensificarsi delle interdipendenze tra di esse. Essa determina l’espandersi delle transazioni economiche e i mutamenti nelle interazioni tra paesi, imprese e popolazione mondiale. Ha implicazioni sia politiche che socio-culturali ed ambientali.
Se ci si attiene alla sola dimensione economica essa appare come l’integrazione di economie nazionali nell’economia mondiale attraverso gli scambi commerciali, gli investimenti diretti esteri (da parte delle “corporations” e delle multinazionali), i flussi di capitale a breve termine, la mobilità internazionale di lavoratori (e di persone in genere) e i trasferimenti di tecnologia.
L’integrazione economica è, per una parte, integrazione di mercati (di beni, servizi, tecnologia, assets finanziari e persino moneta) dal lato della domanda e, per l’altra parte, un’integrazione, sia orizzontale che verticale, della produzione dal lato dell’offerta.
Lo spazio economico si è esteso molto più dello spazio politico, producendo sfide che le autorità politiche e gli ordinamenti giuridici hanno mostrato talvolta difficoltà a raccogliere.
Chi dovrebbe e cosa si dovrebbe governare a livello internazionale?
La globalizzazione contemporanea sta trasformando il potere, le funzioni e l’autorità dello Stato. In questo ordine post-Westfalia si ha uno spostamento marcato verso un sistema di autorità divisa, con gli Stati che cercano di dividere i compiti della governance con un insieme complesso di istituzioni, pubbliche e private, transnazionali, regionali e globali.
Gli Stati, non più agenti principali e/o dominanti, operano insieme ad importanti attori non statuali. Da qui l’esigenza di creare un sistema di “global governance”, basato sul comportamento dell’attività dei vari attori.
Nessuno Stato può disciplinare da solo questioni globali. I “global issues” includono sia beni che mali pubblici (globali), quali la sicurezza internazionale, i diritti umani, la stabilità finanziaria, la sicurezza nucleare, la tutela dell’ambiente, il controllo del crimine, ecc. Per essi si richiede cooperazione internazionale ovvero adozione di forme istituzionali adatte e differenziate essenzialmente per il quantum di autorità che viene lasciato in capo allo Stato-nazione e per quella che viene trasferita ad altri Stati e alle organizzazioni internazionali.
Ci sono esigenze di coordinamento che assumono importanza nelle diverse sfere della vita economica dei Paesi (adozione di standards internazionali per i prodotti ed i processi produttivi e incentivazioni che portino a conformarsi alle normative anche se formulate da organizzazioni non governative).
C’è inoltre l’esigenza di proteggere “valori fondamentali” (quali l’uguaglianza, la libertà, la democrazia ed un minimo di rispetto per i diritti umani).
La necessità della collettività di disporre di beni che soddisfino bisogni comuni pone il problema dell’azione collettiva per la loro produzione.
A livello internazionale occorrono adeguate istituzioni di “global governance” con l’autorità di offrire beni pubblici, le cui caratteristiche di non rivalità nel consumo e di non escludibilità da esso emarginano l’operare del mercato e rendono necessaria un’azione collettiva che coinvolga le istituzioni internazionali.
Così, la stabilità politica, la sicurezza globale e la pace mondiale diventano l’oggetto delle Nazioni Unite, la stabilità finanziaria internazionale quello del FMI, mentre il regime degli scambi commerciali è affidato al WTO, lo sviluppo e i “global public goods” alla Banca Mondiale e la salute al WHO.
Naturalmente le organizzazioni internazionali possono solo favorire la cooperazione, creando condizioni che rendano gli accordi “self-enforcing”. Esse devono però anche adeguare la loro struttura, la loro governance per meglio rispondere alla crescente domanda di “global public goods”.
1.
Le due ondate di integrazione
Si possono distinguere due ondate nel cammino verso la crescente integrazione dell’economia mondiale. Tra il 1870 e il 1914, la prima. Il periodo iniziato con il 1960 e tuttora in corso, la seconda.
Per spiegare l’andamento dei flussi commerciali nei due periodi bisogna considerare i due fattori (politica commerciale – ovvero scelta tra libero commercio e protezionismo – e tecnologia – vale a dire trasporti e comunicazioni) che influenzano i costi del commercio e delle transazioni. Sulla prima ondata hanno inciso le innovazioni tecnologiche nel settore dei trasporti degli ultimi tre decenni del 19° secolo. La riduzione dei tempi di percorrenza e dei costi ha accelerato i flussi commerciali, oltre ai movimenti di capitali ed ai flussi migratori.
Nella seconda ondata, la diffusione delle nuove tecnologie informatiche e di telecomunicazione ha inciso sui costi, ma anche sulla organizzazione delle imprese. La trasmissione e l’elaborazione dell’informazione ha creato legami virtuali istantanei in tutto il mondo, incidendo sulla natura del commercio internazionale (di cui emergono nuovi aspetti, come la dispersione geografica di un complesso processo produttivo e la possibilità di realizzare un coordinamento tra le diverse fasi) e degli investimenti (la maggior facilità e i più bassi costi delle telecomunicazioni hanno indubbiamente promosso la crescita degli investimenti diretti esteri), oltre che sull’integrazione finanziaria. Ciò che si sta oggi sperimentando è una trasformazione nel costo di trasporto delle persone e in quella dello conoscenza e delle idee.
Rispetto alla passata “golden age” dell’economia globale, l’attuale processo di integrazione economica e finanziaria presenta alcune caratteristiche diverse.
In primo luogo, il commercio mondiale vede come attori un numero molto più ampio di paesi (area ex-comunista; paesi asiatici di nuova industrializzazione; nuovi poteri regionali come Cina, India, Brasile). Le esportazioni di manufatti provenienti dai paesi in via di sviluppo e il commercio Sud-Sud, sia di beni primari che di manufatti, sono molto cresciuti.
Le economie emergenti dipendono sempre meno dalle materie prime e sempre di più da beni e servizi a più alto valore aggiunto.
Paesi fortemente coinvolti nelle reti produttive internazionali hanno sviluppato un modello di commercio “triangolare” (tra essi stessi e i paesi industrializzati, auspice anche la “disintegrazione” della produzione), dando vita ad un forte commercio, tra di loro, di prodotti intermedi, parti e componenti in seguito assemblati dal paese che licenzia il prodotto finale, così da sfruttare i vantaggi comparati esistenti nei diversi paesi della regione ed esportare poi il prodotto sul mercato internazionale.
Le reti produttive internazionali sono il risultato, oltreché dell’esistenza di vantaggi comparati, anche della tendenziale caduta dei costi di trasporto e delle nuove tecnologie di comunicazione.
Processi produttivi segmentati consentono alle imprese di sfruttare i vantaggi comparati delle diverse località. Particolarmente coinvolti nella delocalizzazione sono parti e componenti di prodotti elettrici ed elettronici, prodotti labour/intensive come l’abbigliamento, prodotti finiti ad alto contenuto di R&D. Così tessile ed abbigliamento si trasferiscono in paesi a basso costo della manodopera, mentre la produzione di comparti della meccanica va dove ci sono capacità tecnologiche.
Negli ultimi decenni la struttura del commercio è sempre più caratterizzata da scambi intraindustriali con paesi che importano ed esportano prodotti della stessa industria (si scambia un modello di automobile con un altro modello). Si è in presenza di un commercio guidato dalla differenziazione del prodotto e dalle economie di scala piuttosto che di un commercio inter-industry guidato dalle differenze nella dotazione dei fattori e dai divari tecnologici.
I prodotti manufatti tipici sono più complessi, più differenti e la loro produzione richiede una più grande varietà di beni intermedi, oltre a comportare numerosi, e diversi, stadi.
Le imprese tendono a produrre in più mercati nazionali, decentrandone fasi particolari oppure ricorrendo all’outsourcing (acquisizione di un input intermedio o di un servizio da un fornitore esterno, tenuto conto dei miglioramenti intervenuti nelle tecnologie delle comunicazioni e della correlata velocità con la quale la qualità del prodotto può essere monitorata), dando così vita a flussi di beni intermedi prodotti da un Paese e trasferiti in un altro per l’assemblaggio.
Ne risulta il coinvolgimento di sempre più Paesi ed una crescita del commercio internazionale di beni intermedi, di prodotti semilavorati, di parti e componenti. Auto, elettronica di consumo, capi di abbigliamento, fornitura di servizi (call centers, R&D, servizi finanziari e di contabilità, servizi medici e diagnostici, servizi professionali) sono emblematici nell’aver beneficiato dei progressi delle nuove tecnologie della informazione e delle comunicazioni.
2.
I caratteri della dinamica
economica odierna
L’attuale fase di integrazione delle economie si differenzia da quella raggiunta nel 19° secolo per la natura assunta dai flussi di capitale: relativamente più elevati a breve termine che non a lungo termine (al contrario della fase precedente, quando questi ultimi flussi di capitali fluivano massicci dai paesi dell’Europa Occidentale verso i paesi in rapido sviluppo delle Americhe, verso l’Australia e verso altre destinazioni).
Prima del 1914 il gold standard (il sistema monetario che prevedeva parità aurea di ogni valuta, convertibilità in oro delle stesse e cambi fissi) favoriva il libero movimento dei capitali privati diretti a finanziare infrastrutture ferroviarie e d’altro tipo, nonché il debito pubblico di lungo periodo.
L’esplodere della prima guerra mondiale e l’imposizione di controlli sui capitali e sui cambi disintegrarono i mercati internazionali dei capitali e tramutarono l’economia mondiale da quasi globalizzata a quasi autarchica nel giro di pochi decenni.
I controlli sui capitali, nella successiva era di Bretton Woods (1945-1971), vennero gradualmente allentati. Negli anni ’60, la mobilità dei capitali aumentò in connessione con la piena contabilità delle partite correnti della bilancia dei pagamenti raggiunta dalla maggioranza dei paesi industrializzati.
Il collasso di Bretton Woods portò all’adozione di cambi flessibili, alla cessazione dei controlli sui movimenti di capitale, all’eliminazione dei vincoli al commercio di servizi finanziari ed alla definizione autonoma delle politiche monetarie. Alla fine degli anni ’80, la globalizzazione finanziaria era così tornata a livelli comparabili con quelli del 1914.
I flussi di capitale hanno coinvolto anche i paesi in via di sviluppo, sia nella forma di prestiti bancari a fronte di deficit delle partite correnti (specie negli anni 1976-81 caratterizzati dagli shocks petroliferi), sia come investimenti privati di portafoglio, peraltro contrattisi al verificarsi delle crisi finanziarie in Asia e in Russia.
L’enorme rilevanza nell’attuale fase di globalizzazione finanziaria dei movimenti speculativi di breve periodo ha aumentato l’instabilità e originato nel corso degli anni ’90 diverse crisi finanziarie.
Certamente, il panico, i crolli finanziari e l’euforia non sono affatto fenomeni nuovi. Nuovo e potenzialmente più pericoloso è però un fenomeno qualitativamente diverso e cioè “la loro ampiezza e la pervasività che li caratterizza”.
Le vicende degli anni ’90 hanno portato a porre l’accento sui rischi della integrazione finanziaria globale.
Tali rischi si sono concretizzati con una crisi nata da una mancanza di regole condivise a livello internazionale, dalle difficoltà a valutare prodotti finanziari molto diversificati (“a fortiori” i derivati), dalla inadeguatezza delle agenzie di rating. L’instabilità si è accresciuta an...