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Le sonorità afroamericane 1896-2012

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Le sonorità afroamericane 1896-2012

About this book

«Ascoltare la musica, ma ascoltarla bene, possibilmente ai concerti o, per quella di certe epoche, tornare – come sta già accadendo – all'uso dei vinili e del giradischi», un invito che Guido Michelone rivolge ai lettori nella premessa a Black music, dicitura ripresa da Miles Davis, ovvero quelle sonorità afroamericane nate nel Mondo Nuovo (Nord, Centro, Sud America) dall'incontro di due immense realtà sonore, come quella africana ed europea.
Il testo, rivolto agli studenti del master, è pensato anche per i neofiti o per chi abbia la necessità di riferirsi ad un quadro sintetico per avere sulla Black music (o musica afroamericana) un'immagine estremamente particolareggiata e precisa, come spiega Gianfranco Nissola nell'appassionata introduzione.
Il volume, l'ottavo della serie "Breve introduzione alla storia della musica afroamericana", è suddiviso in tre parti e come spiega l'autore: «nella prima si cerca di connettere la black music con quasi tutta l'esperienza novecentesca, decennio per decennio, in ordine cronologico, mentre, nella seconda parte, il procedimento è rivolto all'individuazione di una ventina fra stili, tendenze, movimenti, scuole, che talvolta, durante il XX secolo, si sovrappongono o si affiancano nel percorso spaziotemporale; nella terza parte, infine, l'attenzione ricade su dodici personaggi che incarnano l'essenzialità stessa della black music». Bastino i nomi di Bessi Smith, Louis Armstrong, Frank Sinatra e altri ancora, fino a Michael Jackson.

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In questa prima parte del libro si racconta la storia della black music decennio per decennio da fine Ottocento ai giorni nostri. La musica nera o afroamericana, così come l’intendia­mo oggi, nasce grosso modo nella seconda metà del XIX secolo in America o meglio nella Americhe, Nord, Centro e Sud, tra le genti di colore che vivevano, come ex schiavi accanto ai coloni (i bianchi) ora indipendenti e ai nativi (gli amerindi o indiani) più o meno emarginate a seconda delle zone; negli Stati Uniti già allora convivono vari linguaggi sonori: la prima black music (spiritual, blues, ragtime) è circondata da canti e balli talvolta d’origine folk bianca (appalachian music) o ebraica (il kletz). Dall’operetta e dal music-hall inglesi, gli americani derivano il vaudeville che è alla base del successivo teatro musicale (anche nero). Tra spartiti, rulli di pianola e piani verticali, emerge ad esmepio il Maple leaf rag di Scott Joplin.
Gli Anni Dieci, a causa della Prima Guerra Mondiale, vedono il proliferare dei canti patriottici, che però non impediscno la nascita di una vera e propria industria della canzone nel quartiere newyorchese di Tin Pan Alley. La guerra più o meno volontariamente consente anche al jazz di New Orleans di farsi conoscere in tutti gli States e un brano Saint Louis Blues di William C. Handy è un blues scritto che risulta tra le canzoni più richieste dell’epoca.
Gli Anni Venti sono un decennio di grande black music, ovunque popolare magari legata al tango argentino o al son cubano, anche se con la moda dell’hot jazz comincia a delinearsi un sound tipicamente statunitense d’ispirazione afroamericana, che ha altresì nella commedia musicale broadwaiana e nel canto femminile blues forse i più brillanti esempi di un successo di massa legato a ottimi risultati espressivi. Comunque radio e dischi (spettacoli e concerti) lanciano Gimme a Pigfoot di Bessie Smith, West End blues di Louis Armstrong, la Rapsodia in blu di George Gershwin, L’opera da tre soldi di Kurt Weill, Stardust di Hoagy Carmichael: il jazz è protagonista assoluto nei primi due casi ma anche i restanti tre sono esempi più meno colti (rispettivamente un pezzo sinfonico, un melodramma, una canzone) di come lo stesso jazz possa influenzare la cultura bianca.
Gli Anni Trenta si aprono con la crisi economica americana che gioca un ruolo non indifferente nel formare un nuovo gusto musicale; da un lato la rabbia per tale situazione viene espressa dal canto di protesta; dall’altro il desiderio di ricominciare trova nello swing e nel musical cinematografico un consenso universale. Una spontaneità artistica si riversa anche in diversi generi folk (dal gospel al cajun), mentre in URSS i compositori obbediscono ai diktat del partito, che rimuove totalmente il jazz ritentuo decadente e borghese. Tra jazz club, grandi schermi, tournée girovaghe Top hat di Fred Astaire, Night and day di Cole Porter, Sing sing sing di Benny Goodman, Mood Indigo di Duke Ellington sono forse i motivi-chiave della cosiddetta swing era.
Gli Anni Quaranta vedono una Seconda Guerra Mondiale sconvolgere la vita e le abitudini di milioni di persone; la black music sembra patire assai di questa condizione, al punto che il jazz di successo viene impiegato a fini propagandistici da tutte le forze belligeranti. Alla fine rimane il boogie-woogie la colonna sonora vincente, i tutti i sensi. Ma nel dopoguerra arrivano altre musiche: il bebop arrabbiato, i ritmi afrocubani, i crooner romantici e il rhythm and blues. Tra V disc e juke-box trionfano via via In the mood di Glenn Miller, White Christmas di Bing Crosby, Koko di Charlie Parker, Round Midnight di Thelonius Monk, Stormy Monday di T-Bone Walker.
Gli Anni Cinquanta comportano una vera e propria ri­voluzione del gusto e del consumo di black music: il rock and roll (derivato dal r’n’b) dà ai i giovani bianchi un enorme potere simbolico e da allora tutta l’industria musicale riversa su di loro attenzioni, interessi, aspettative. Con il rock and roll (e nelle poche alternative come il cool jazz, l’hard bop, la bossa nova brasiliana) si confermano decisive le innovazioni tecnologiche: il passaggio dal 78 al 45 giri, il long-playing, la stereofonia, la televisione. Sweet Little Angel di B. B. King, Johnny B. Goode di Chuck Berry, Take Five di Dave Brubeck, Kind of blue di Miles Davis, I’ve got you under my skin di Frank Sinatra, Chega de saudade di Joao Gilberto sono i pezzi celebri dei Fifties.
Gli Anni Sessanta vedono la quasi totale coincidenza tra black music e pop music (e talvolta rock music), con un sound giovanile sempre più raffinato grazie al trionfo dei gruppi inglesi che si rifanno alle radici blues. Non mancano tuttavia le canzoni di protesta e negli anni della contestazione molta black music assume le caratteristiche di una vera e propria arte sperimentale, con risultati estetici incredibili, dal soul alla fusion, dal free al modale. Le parole d’ordine della nuova situazione comunicativa sono transistor e mangiadischi, underground e psichedelia, concept album ed elettrificazione. Gli album A Love Supreme di John Coltrane, Free Jazz di Ornette Coleman, Aftermath dei Rolling Stones, Sgt. Pepper dei Beatles, oltre singoli come Please please please di James Brown e I Got A Woman di Ray Charles sono ‘la’ musica dei Sixties.
Gli Anni Settanta confermano la tendenza del precedente decennio, nel senso che ormai certa black music, assieme al rock, si va manifestando come il più grosso business del­l’industria dello spettacolo e al contempo quale simbolo emotivo di una cultura generazionale, che ben presto si sud­divide in mille rivoli. Numerose sono le etichette appiccicate a sonorità multiformi: jazzrock, fusion, funk, funky, disco-music, punk-jazz, reggae. Tra radio libere, musicassette, sin­tetizzatori e megaraduni emergono No woman no cry di Bob Marley e Bitches Brew di Miles Davis.
Gli Anni Ottanta vantano una black music che, in tutti i campi, dal jazz al funk, non è più quella del decennio precedente. Sembra quasi una costante epocale che si cambi musica come si cambia abito a ogni stagione. Non mancano però le reazioni, le alternative e pure una terzomondizazzione delle musiche afroamericane; accanto a nuovi successi planetari come Purple Rain di Prince e Thriller di Michael Jackson, irrompe dai ghetti neri la scena rap e hip-hop destinata a non fermarsi più.
Gli Anni Novanta accentuano la tendenza verso l’estrema globalizzazione dei fenomeni musicali, tra divi di plastica destinati a effimere durate e la conferma dell’inossidabilità di alcune star presenti addirittura dagli anni Sessanta. E proprio in riferimento al passato, nascono o maturano anche inte­ressanti tendenze ‘nostalgiche’ come il grunge, il neolounge o l’acid-jazz. L’impressione è ancora quella di un megabusiness, dove però riescono a convivere esperienze interessantissime, che i perfezionamenti tecnologici (dal walk man al compact disc) in parte rafforzano.
Gli Anni Duemila sembrano presentare un’inversione di tendenza, già espressa nel decennio precedente: si fa strada la world music, ossia il contributo di musiche autoctone (sia pur aggiornate con stilemi black) dalle più remote zone del mondo intero. Non è forse un caso che questo avvenga con la rivo­luzione telematica: se con la rete (Internet) si comunica ovun­que, è logico ormai che arrivi black music dall’Africa, dal­l’Europa, dal Giappone, dal Medio Oriente. Clandestino di Manu Chao e Chan chan di Compay Segundo sono, all’inizio del nuovo Millennio, suggerimenti per il futuro, tra passato e presente, black e altro dal 1896 al 2012.
Gli ultimissimi anni del XIX secolo e i primi dieci del XX, sono ancora caratterizzati, in campo musicale, dal retaggio di precedenti esperienze europee: la novità della riproduzione del suono attraverso uno strumento meccanico (il grammofono con i dischi in ceralacca) comincia appena a tentare di conquistare un pubblico di massa, ossia vasto e indifferenziato, esteso e interclassista, affidandosi comunque a repertori ben consolidati che attingono al patrimonio sia classico sia operistico.
Tuttavia la musica colta d’inizio Novecento, non riesce a fare breccia nelle classi popolari, nonostante alcune correnti (denominate poi scuole nazionali) ispirate da esempi folkorici, poi rielaborati in concerti e poemi sinfonici. Al contrario le masse urbanizzate, nel Vecchio e nel Nuovo Continente, accorrono agli spettacoli musicali che un’industria del divertimento già prospera e ben organizzata predispone fino a tener conto delle richieste elementari di un pubblico non specializzato. A favore del ‘popolo’ vengono altresì scoperti, o divulgati massivamente, balli e danze delle nascenti culture afroamericane che spesso si legano indiscutibilmente a nuovi generi di canzoni non più folkoriche (nel senso etimologico del termine) e già comunque black, almeno nella loro prima fase di elaborazione formale e contenutistica.
Il tango in Argentina, la samba in Brasile, la rumba e il son a Cuba, il blues e lo spiritual negli Stati Uniti, restano espressioni di quegli anni d’inizio Novecento che poi si sviluppano anche nei decenni successivi arrivando talvolta a un successo planetario incredibile, ma che mostrano già al loro apparire l’originalità maggiore proprio nella riuscita amalgama di culture sonore tanto ruspanti quanto diffe­renziate. La spiegazione di questi nuovi ‘ibridi’, ben presto diventati invece tipici di determinate realtà socioculturali, consiste nel fatto che quegli anni sono un periodo di forte immigrazione: oltre dieci milioni di europei tra i due secoli traversano l’Atlantico in cerca di lavoro nelle Americhe sia del Nord sia del Sud.
In molti casi le tradizioni popolari, in fatto di musica, sopravvivono con un purismo che non si riscontra più nemmeno sul Vecchio Contintente; ma in altre condizioni le sonorità che gli emigranti portano con sé mutano rapidamente a contatto con musiche analoghe o con quelle che in parte già si sedimentano nelle culture americane; ad esempio la musica klezmer, canzone ebraica popolare, in America, sopravvive meglio che altrove, subendo però frequenti cambiamenti nei tratti stilistici musicali a contatto con il jazz, fino a riottenere, dopo un lungo silenzio, un successo planetario a partire dagli anni Novanta, quasi a sottolineare interessi genuini per antiche origini.
D’altronde è dalla fine dell’Ottocento al primo decennio del XX secolo, che in Europa alcuni compositori si cimentano nella raccolta di canti popolari e anticipano gli studi etnomusicologici, da un lato a nobilitare una tradizione millenaria dai notevoli risvolti socioartistici dall’altro a richiamare l’attenzione della nascente industria musicale su un fenomeno che può diventare di massa (come in effetti accadrà) opportunamente incrociato con altre esperienze di arte, comunicazione e spettacolo.
In un certo senso anche i protagonisti del folklore cambiano atteggiamenti nei confronti delle loro creazioni: nasce, soprattutto in America, una maggior consapevolezza che porta i musicisti verso una dimensione autoriale che in seguito a sua volta si combina con le leggi dello show business e del mercato discografico.
Dunque un nuovo folklore urbano si diffonde ovunque, mentre quello delle zone rurali continua ad essere saldamente legato alle proprie radici e spesso impermeabile alle novità mondane: la musica dei monti Appalachi per i bianchi o quella del Delta con i neri, ad esempio rivestono un’importanza vitale nel proteggere da agenti esterni un patrimonio sonoro consolidatosi nel secolo precedente dai coloni bianchi, spesso poverissimi, che ancor oggi è presa a modello quale simbolo di arte popolare.
Al contempo negli Stati Uniti proprio la comunità afroamericana produce nel corso del XIX secolo una specifica cultura musicale, d’ispirazione sia religiosa (gospel e spiritual) sia laica (blues e work song) che rimane fino a quel momento circoscritta ad un uso e consumo interno. Nel momento in cui invece si raffina dal punto di vista estetico, la cultura afroamericana inventa il ragtime che ottiene un immediato positivo riscontro negli ambienti borghesi: uno stile pianistico veloce che serve tanto all’ascolto quanto alla danza (il cake-walk) e che strutturalmente diviene la base del nascente jazz.
I fenomeni musicali più rilevanti dal punto di vista quantitativo restano però ancora condizionati dal teatro, come già accade lungo l’intero Ottocento col melodramma: l’evoluzione di quest’ultimo a livello di massa sfocia nell’operetta, d’ascendenza mitteleuropea, che di fatto ne svilisce i contenuti nobili e la complessità formale, anche se si annoverano molti buoni compositori che si cimentano nel genere. Dall’operetta vengono estrapolate molte arie tanto per uso concertistico o familiare quanto per l’industria degli spartiti o dei microsolco: i brani operettistici insomma diventano popolarissimi e a loro volta acquistano quasi un’esistenza autonoma.
La stessa cosa può dirsi per lo spettacolo di varietà che in America si chiama vaudeville e in Gran Bretagna music-hall; il concetto resta pressoché identico: in teatri popolarissimi si alternano gli interpreti musicali con altri numeri di agile intrattenimento (giocolieri, imitatori, comici, subrettine, prestigiatori, spogliarelliste). La stessa musica viene ricalcata su una grossolana teatralità, in particolare nell’uso esplicito di testi sboccati, talvolta arguti e satireggianti. La variante nera del teatro musicale leggero si chiama minstrel show e black revue, artisticamente paragonabili all’avanspettacolo, ma con interessanti soluzioni sul piano sonoro (ragtime e blues e poi jazz).
L’Italia non viene conquistata, in questa fase, dalla nascente cultura afroamericana: possiede tradizioni ancora molto forti per cedere a sonorità che a loro volta, sul piano melodico, si rifanno palesemente a modelli europei. Semmai le influenze maggiori provengono dalla Francia e dalla Mittleuropa, dove si inventano quei generi leggeri esportati appunto Oltreoceano e Oltremanica. Tuttavia il nostro Paese resta fortemente ancorato alle proprie radici musicali nella duplice situazione del melodramma e del canto dialettale, benché, come moda borghese, il tango argentino inizi a farsi sentire anche lungo la Penisola.
Passando agli artisti che rappresentano la musica d’inizio secolo il klezmer ebraico immigrato negli Stati Uniti viene diffuso da Abe Schwartz e Harry Kandel, in seguito da Mickey Katz e Naftule Brandwein, ma è tornato di recente grazie a formazioni revival come Klemorim, Klezmatic, Klezmer Conservatory Band, Frank London’s Klezmer Brass All Stars (e John Zorn in chiave jazz sperimentale).
La cultura afroamericana, con gli ex schiavi di colore, dopo una sofferta genesi, produce dapprima lo spiritual (il gospel è la variante sui testi del Vangelo), col mitico gruppo Fisk Jubilee Singers, collegato al primo ateneo per neri (The Fisk University); ed in seguito il blues, con i primi cantanti e chitarristi, da Charley Patton a Blind Lemon Jefferson. Il ragtime è quasi sinonimo di Scott Joplin, compositore e pianista, la cui influenza si trasmette nei successivi tastieristi jazz come Jelly Roll Morton.
Nel vaudeville americano si producono Arthur Collins, Billy Murray, Nora Bayes che restano anche vicini alle nascente realtà del teatro broadwaiano e del mondo discografico; nel minstrel show furoreggiano i gruppi neri Georgia Minstrels e i M.B. Curtis All Star Afro-American Minstrels, oppure la parodia degli stessi ad opera del cantante Al Jolson (interprete anche del primo film sono: Il cantante di jazz del 1927).
Gli anni Dieci sono un periodo di transizione per la black music anche perché sottomessi ai destini della Prima Guerra Mondiale che, seppur combattuta nei territori europei, non solo coinvolge nazioni di altri continenti, ma condiziona pure le sorti dell’attività civile, in questo caso la parte creativa, produttiva, comunicativa dell’intero mondo canzonettistico e teatral-musicale. Pensando agli anni Dieci non si può quindi dimenticare in primo luogo il canto patriottico che da un lato connota simbolicamente il decennio e dall’altro si intensifica al punto tale che in Gran Bretagna e negli Stati Uniti diventa un vero e proprio business. Ne sono esclusi gli afroamericani, benché questi ultimi, come soldati semplici, varcano in massa per la prima volta l’Oceano, scoprendo nelle grandi città europee un fervore creativo e soprattutto una libertà di azione e movimento che in patria è a loro negata.
La moderna coralità nazionalistica inizia proprio in questo frangente drammatico, ripercuotendosi poi soprattutto nei regimi totalitari degli anni Venti e Trenta dove i brani che lodano il nazifascismo o il comunismo o più direttamente Hitler, Mussolini o Stalin, vengono diffusi attraverso gli ultimi ritrovati mediatici; insomma un sound retoricamente ideo­logico affianca spesso i normali brani musicali nell’imma­ginario sociale e nel gusto collettivo.
Un’esperienza invece artistica che può definirsi fine a se stessa ovvero con intenti puramente ludici, autoreferenziali, consumistici è invece quella maturata a New York, sempre negli anni Dieci, che va sotto il nome di Tin Pan Alley: un quartiere in cui si organizza una vera e propria industria della canzonetta, attraverso una serie di compositori che quasi lavorano a cottimo per scrivere motivetti di facile presa. Insomma canzoni popolari in grado di compiacere un pubblico di bocca buona in maniera vistosa e plateale, ma senza peccare di troppa originalità: sono solo i bianchi a occuparsene anche se non è difficile trovare qualche influenza indiretta delle sonorità afroamericane
In un primo momento attraverso gli spartiti è il brano in sé, alla Tin Pan Alley, a venire apprezzato incondizionatamente; in una seconda fase, con l’avanzare dell’industria discografica, il brano diventa qualcosa di imprescindibile dall’esecutore, fino a identificarsi completamente nella figura dell’interprete, come ancora oggi succede in tutta la black music.
Tin Pan Alley vuole e riesce a creare grossi successi in tempi record, fino a raggiungere la propria audience in maniera altrettanto veloce, raccogliendo sempre più ampi consensi in senso qualitativo. Resta una vera e propria catena di montaggio che mette a dura prova l’estro di musicisti e che inventa un flusso comunicativo di ascoltatori desiderosi di continue novità, anche se non al ritmo dello show business degli anni Sessanta o di questi ultimissimi anni di ‘musica liquida’.
L’eredità di Tin Pan Alley viene successivamente raccolta dal Brill Building, sempre a New York tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, mentre in Europa per tutto il Novecento non vi è nulla di paragonabile a queste fabbriche della canzone, nonostante la musica d’intrattenimento goda di sincere attenzioni da parte del pubblico e talvolta dei musicisti in vena di gratificazioni economiche.
Intanto, nel 1917, negli Stati Uniti accade qualcosa di straordinario, almeno visto a posteriori: viene inciso il primo disco di jazz (a opera però di un gruppo bianco) e, proprio a causa della Prima Guerra Mondiale, viene decretata la chiusura del quartiere degli artisti (ma anche delle prostitute) a New Orleans, obbligando i jazzmen a trasferirsi altrove e permettendo a questo sound di farsi conoscere ovunque, in senso popolare.
Ragionando sui protagonisti degli anni Dieci...

Table of contents

  1. Indice
  2. Introduzione
  3. Premessa
  4. Parte prima - Black e altro dal 1896 al 2012
  5. Parte seconda - Le correnti black fondamentali
  6. Parte terza - Dodici grandi protagonisti black
  7. Bibliografia essenziale
  8. Notizie sugli autori