La voce. Jazz world pop rock blues folk
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About this book

Questo libro nasce dalla comune esigenza di due docenti di ambiti simili e complementari di fornire agli studenti un piccolo manuale che risulti esemplificativo di alcune tendenze della vocalità extracolta dei XX e XXI secoli: e in tal senso vogliamo presentare un lavoro a più voci (critiche) mediante le biografie storico-analitiche di alcune figure-chiave della musica contemporanea. La scelta di queste ultime è ov­via­mente motivata dai vari esperti coinvolti.
Si tratta, in particolare, di criteri personali, esplicitati in ciascuno dei dodici capitoli: criteri e logiche che riguardano i singoli ambiti di studio e di ricerca, nonché la stima personale o il gusto specifico degli Autori medesimi verso le voci descritte. Vogliamo precisare subito che questa voluta par­zialità è per tutti esplicitata e consapevole: abbiamo ovviamente la netta cognizione che le quindici cantanti presentate sono di eterogeneo valore, pur rappresentando ognuna, nei loro campi precipui, un momento di grande creatività espressiva.
Dal vaudeville (Sophie Tucker) al blues (Bessie Smith), dal jazz nero (Dinah Washington) a quello bianco (Anita O' Day), dal canto arabo (Umm Kalthum) alla ricerca pura (Diamanda Galàs), dalla neoavanguardia (Meredith Monk) alla psichedelia (Grace Slick), dal rock (Patti Smith) al lounge (Diana Krall), fino alle tre 'regine' world intervistate (Misia, Susana Baca, Mina Agossi) il ventaglio di esperienze risulta coloratissimo. È la testimonianza delle differenti maniere di affrontare l'arte vocalica attraverso generi, stili, movimenti che spessissimo esulano dalle forme classiche per avvicinarsi alle musiche popolari, talvolta persino di grande consumo.
Sappiamo benissimo del resto che nei singoli argomenti definiti dal sottotitolo del libro (jazz word pop rock blues folk) esistono altre fondamentali vocalists (o cantanti) a volte addirittura più valide, importanti, fascinose di quelle qui analizzate. Ma non è questo il punto: per noi l'esigenza principale, in questo libro, significa fornire modelli interpretativi che indichino agli studenti il segno di una forte varietà all'interno della voce in rapporto al macrocosmo sonoro contemporaneo.
Anche sul modo di procedere abbiamo lasciato 'carta bianca' agli estensori di ogni capitolo: ciascun Autore insomma è stato libero di approfondire il discorso storico-critico sulla voce (che significa anche le voci, la musica, le musiche) e sulle cantanti mediante tagli ermeneutici differenti[1]; il privilegio accordato di volta in volta a disamine scientifiche o divulgative o pedagogizzanti non intacca a nostro avviso il risultato didascalico complessivo, in un laboratorio aperto, dove anzi l'individualità dei singoli approcci armonizza (quasi) alla perfezione con lo spirito 'collettivo' che ci guida in questo lungo affascinante viaggio sulla voce umana, canora, musicale, artistica…
(dall'introduzione dell'Autore)

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di Laura Conti
I’m the last of the Red Hot Mamas
They’ve all cooled down but me.[2]
Sophie Tucker, I’m the Last of Red Hot Mamas (1927)
Immaginate una donna opulenta, dalle curve morbide e abbondanti, dalle movenze lente e sensuali, che riempie il teatro con la sua voce potente: questa è una Red Hot Mama; se poi aggiungete all’immagine un abito scintillante, piume e gioielli avrete rappresentato Sophie Tucker. L’espressione Red Hot Mama che indica, come espresso con sinteticità anglosassone, una donna red hot, calda, rovente e piccante, ma al tempo stesso mama, madre, era l’appellativo con cui, agli inizi del Novecento, si indicavano le cantanti di vaudeville (varietà), in genere afroamericane, che incarnavano contemporaneamente, con senso di ironia e di sfida nei confronti degli uomini, due archetipi femminili antitetici: la femmina sensuale e la moglie madre.
Lo stile delle Red Hot Mamas ha le sue radici nel blues, nelle coon songs e nei minstrels shows[3], ma la novità nasce dal fatto che queste interpreti all’autorità, alla ossessività e alla generosità della figura materna unirono il fascino di donne dotate di attrattiva e di appetiti sessuali. Seppero conciliare quest’ambivalenza presentandosi al tempo stesso rassicuranti e inquietanti, aggressive e timorose dell’abbandono ma sempre consapevoli del proprio valore e pronte a rivendicare il diritto a negarsi all’uomo che le abbandona o le trascura.
Questo particolarissimo tipo di cantante divenne popolare negli Stati Uniti in un momento di grande rimescolamento etnico, economico e sociale. Nei primi trent’anni del secolo scorso, infatti, mentre in America giunge dall’Europa una grande ondata migratoria, il successo delle dinastie imprenditoriali che si sviluppano nel Nord e nell’Ovest del paese, spinge gli afroamericani del Sud a cercare lavoro in zone più prospere degli Stati Uniti. Quindi, come osserva Peter Antelyes[4], mentre gli uomini afroamericani lasciavano le famiglie per cercare fortuna, le donne venivano “abbandonate” alle cure domestiche e, quelle che potevano o volevano lasciare una vita difficile e solitaria, avevano poche possibilità di occupazione e mobilità: una delle scelte era il black vaudeville, uno spettacolo di varietà di carattere etnico, fatto da neri per i neri, che divenne ben presto popolare in tutta l’America. E proprio in questo ambito le donne afroamericane dimostrarono che oltre al ruolo di mama, madre moglie o fidanzata legata alla casa, esisteva anche il ruolo di donna assertiva che esigeva affetto e attenzione e, perché no, quello di amante.
In questo stesso periodo, anche molti emigrati si trovarono in una condizione analoga di sradicamento, dovendo trovare lavoro e inserirsi nel nuovo paese. Nel campo artistico, un modo per cominciare fu quello di usare un’etnicità diversa dalla loro, l’afroamericana appunto, che pur essendo ben lontana dall’essere accettata dall’establishment, si era comunque ritagliata uno spazio nel mondo dell’intratte­nimento. Si tinsero la faccia di nero, vi dipinsero una grande bocca bianca e cominciarono a esibirsi in black face negli spettacoli di varietà. Questo trucco di scena caricaturale era già usato dai neri stessi che usavano questo accorgimento per enfatizzare quegli stereotipi etnici attribuiti loro dai bianchi americani, usando, quindi, l’autoironia come forma di protesta.
Per due cantanti in particolare, Al Jolson e Sophie Tucker, entrambi ebrei russi, questo fu l’inizio di una lunga carriera che diede loro successo e ricchezza. Al Jolson ebbe fama internazionale interpretando il primo film sonoro della storia, Il cantante di jazz diretto da Alan Crosland nel 1927, e rimase sempre legato all’immagine del cantante in black face, mentre Sophie fu l’ultima e più longeva Red Hot Mama[5].
Le Red Hot Mamas, dalla vocalità carnale e dalle forme giunoniche, furono popolari negli Stati Uniti dall’inizio del Novecento fino alla fine degli anni Venti, ma fu solo nel 1926, con la realizzazione del musical Red Hot Mama, che questa figura acquisì ufficialmente denominazione.
Sophie Tucker, nome d’arte di Sonia Kalish (1884-1966), nacque al confine tra Russia e Polonia nel 1884 da una famiglia ebrea in viaggio verso l’America. Giunti negli Stati Uniti i Kalish si stabilirono inizialmente a Boston, quindi nel Connecticut. Nel ristorante del padre ad Hartford, Sonia adolescente aiutava i genitori e, a richiesta, suonava il piano e cantava per i clienti che apprezzavano la voce di quella fat girl. Nel 1903, a diciannove anni, sposò Louis Tuck (con cui ebbe un figlio, Bert), e da cui divorziò dopo circa tre anni di matrimonio. Nel 1906 affidò Bert alle cure dei nonni e partì per New York in cerca di affermazione come cantante. Qui, dopo avere lavorato con alcune compagnie amatoriali, nel 1907 ottenne il primo contratto come professionista e fu scritturata per cantare in black face, iniziando una carriera che durò fino a pochi anni prima della sua morte, avvenuta nel 1966 per cancro. Carriera che si snodò abilmente dal vaudeville e burlesque alle Ziegfield Follies, al musical, al cinema per tornare ai concerti[6].
Cantare come i minstrels e i coon shouters con il viso tinto di nero non fu una sua scelta ma una imposizione dell’impresario che la riteneva troppo “big and ugly” (grassa e brutta) per piacere al pubblico. Sophie terminata l’esibizione, sorprendeva gli spettatori togliendosi un guanto e rivelando così il suo candido braccio. Poteva dunque ingannare chiunque grazie alla sua imponenza fisica che la faceva somigliare alle colleghe di colore, ma soprattutto grazie alla sua voce scura, al potente belting, e al suo stile assolutamente bluesy.
Non si dimentichi che, in quest’epoca antecedente l’avvento del microfono, il volume di emissione era una caratteristica comune alle cantanti di varietà in quanto presupposto fondamentale per sovrastare gli strumenti di accompagnamento ed essere intese in tutta la sala. Durante una tournée, le fu rubato il bagaglio contenente l’occorrente per truccarsi, ma Sophie eseguì ugualmente il suo numero presentandosi senza trucco e riscuotendo un successo inaspettato. La sua voce fu definita “virile”, “oceanica”, un caldo contralto che manteneva però la grande potenza di cui era dotata sempre sotto controllo, con un misurato uso del growl, e un puro suono di impostazione afroamericana, tanto da essere conosciuta come “la Mary Garden[7] del ragtime”.
Ben presto divenne tanto famosa da potere allestire uno spettacolo di vaudeville tutto suo per cui sovente scritturò noti musicisti jazz. Sebbene non abbia mai più cantato in black face, non solo mantenne nel suo stile forti elementi afroamericani, ma continuò anche a perfezionare la sua vocalità con le migliori cantanti nere dell’epoca quali Mamie Smith ed Ethel Waters. Il successo crescente le permetteva, inoltre, di scegliere accuratamente il suo repertorio; inizialmente Sophie prestava attenzione a tutti gli autori di canzoni che erano soliti proporle i loro lavori, “per paura di perdere qualcosa di buono”[8], ma con l’andare del tempo e il consolidarsi della carriera queste preoccupazioni svanirono tanto che il giovane compositore afroamericano Shelton Brooks dovette attendere a lungo prima che Miss Tucker accettasse di ascoltare Some of These Days.
“Nel momento in cui ascoltai Some of These Days mi sarei presa a calci per avere rischiato di perderla. Una canzone come quella. Aveva tutto. La canto da trent’anni e ne ho fatto il mio tema. L’ho stravolta, cantanta in ogni modo immaginabile, come una canzone drammatica, come un brano da intrattenimento, come una ballad sentimentale, e sempre il pubblico l’ha amata e richiesta”[9].
Questa canzone accompagnò la...

Table of contents

  1. Indice
  2. Introduzione La voce, le voci, la musica, le musiche
  3. Sophie Tucker - L’ultima delle Red Hot Mamas
  4. Patti Smith - Il Rock’n’Roll rinascimentale
  5. Diana Krall - “Nient’altro che una musicista…”