Indirizzi fondazionali in filosofia della Matematica
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Indirizzi fondazionali in filosofia della Matematica

Materiali per il corso di Filosofia della Scienza

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Questi appunti hanno una funzione esclusivamente di ausilio alla didattica. Non hanno la pretesa di offrire una trattazione complessiva delle teorie formali né, tantomeno, di approfondire un aspetto di tale tematica. Il nostro intento è, piuttosto, fornire un'introduzione molto generale ad alcuni concetti di base e mostrare le tappe (teoriche e storiche) principali dell'evoluzione delle teorie formali. Per fare questo è necessario un minimo di bagaglio terminologico e concettuale.
(tratto dall'introduzione dell'Autore)

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Che cos’è una teoria? Questa domanda, magari posta da un bambino particolarmente intelligente e curioso, può mettere in crisi schiere di genitori. Ma non saranno soli; molti filosofi e altrettanti scienziati si pongono in modo problematico di fronte a tale quesito. Vi sono stati innumerevoli proposte di definizione del termine “teoria”. E proprio a partire dalla nostra concezione delle teorie deriva buona parte della nostra impostazione filosofica ed epistemologica. Da un certo punto di vista, questo appare evidente dal fatto che anche le nostre opinioni filosofiche come le nostre congetture su qualsiasi altro argomento (dal campionato di calcio alla situazione politica internazionale) sono teorie. Ovvero, ogni volta che ci riferiamo a “qualcosa” in un “certo modo” possiamo affermare di avere una teoria su quel “qualcosa”. Chiaramente nessuno studioso serio potrà basarsi su una tale descrizione di teoria ma a noi serve questo inizio estremamente intuitivo e quotidiano per intraprendere una lunga opera di raffinamento con la quale giungeremo a dare una definizione più fruibile e feconda di teoria e, in particolare, di teoria formale.
Dicevamo, dunque, che la teoria è un discorso che si riferisce a qualcosa (tralasciamo, per adesso, il problema del “modo” in cui avviene questo riferimento). Possiamo allora dire che una teoria è costituita da un linguaggio e da un insieme di oggetti che sono descritti da questo linguaggio. Questa affermazione sembra essere del tutto innocua e non particolarmente informativa a causa della sua estrema generalità. In realtà, con un attimo di riflessione, scopriamo che abbiamo postulato una serie di assunti teorici, appunto, che è bene esplicitare in questa sede. Dicendo che la teoria è costituita da un linguaggio e da un universo oggettuale descritto da esso abbiamo assunto l’esistenza di un linguaggio, l’esistenza di oggetti e la capacità del primo di “riferirsi” in qualche modo a quest’ultimi. È ovvio che non è possibile continuare a retrocedere nel percorso di definizioni; ad un certo punto bisogna fissare certi termini come primitivi e indefinibili. Tali concetti (quali ‘oggetto’, ‘linguaggio’, ‘riferimento’, ecc.) possono essere descritti con esemplificazioni oppure a loro volta definiti in un altro contesto teorico. Nel caso dell’oggetto, per esempio, esso costituisce un termine primitivo del nostro discorso. Possiamo però fornire degli esempi che chiarifichino che cosa intendiamo quando utilizziamo la parola “oggetto”. Oggetti sono: sedie, tavoli, elettroni, i numeri naturali maggiori di 1000, le ombre, gli stati mentali, i comportamenti socialmente devianti, ecc. Tramite questa descrizione è chiara l’ampiezza del termine oggetto. Non è poi escluso che il significato di oggetto sia definito in maniera rigorosa da un’altra teoria, per esempio da una teoria ontologica. “Linguaggio” è un altro termine intuitivamente molto chiaro ma di difficilissima caratterizzazione rigorosa. Dicendo che il linguaggio delle teorie si riferisce agli oggetti in questione, noi predichiamo del linguaggio una particolare funzione, la funzione referenziale. Il riferimento è proprio quella particolare relazione che si viene a instaurare tra un termine linguistico e l’oggetto che tale termine designa o, in termine più tecnico, denota. La parola “gatto” si riferisce a un particolare animale, così come la parola “Giulio Cesare” si riferisce al grande condottiero romano. Il lettore più attento noterà come tale impostazione del problema, oltre a essere estremamente generale, è anche piuttosto sfumata e incerta. Infatti, la parola “gatto” può non indicare un oggetto solo ma anche un insieme di oggetti, cioè tutti i gatti; e ancora, se invece di un oggetto io volessi indicare una relazione fra oggetti o, ancora, un oggetto non esistente (l’attuale re di Francia) o addirittura un oggetto impossibile (il quadrato rotondo)? Tali questioni vengono affrontate nella parte della filosofia del linguaggio che è chiamata, appunto, teoria del riferimento. In questa sede non possiamo nemmeno superficialmente affrontare i temi principali di cui si occupa la teoria del riferimento. Considereremo la capacità del linguaggio di riferirsi a un insieme di oggetti in modo del tutto intuitivo, esattamente come consideriamo la telecronaca di una partita di calcio riferita a quell’evento molto complesso che è appunto quella partita. Se necessario, esplicheremo maggiormente la natura di questa relazione tra linguaggio e oggetti.
Qualcuno dotato di spirito socratico potrebbe anche domandare il perché si utilizzi la nozione di universo oggettuale al posto di quella più neutra di “oggetti”. Anche in questo caso, non è possibile specificare ulteriormente tale scelta. Basti però considerare che un universo oggettuale è un insieme di oggetti selezionati secondo un certo criterio. Non esistono teorie che parlano di tutto. Né teorie scientifiche e altamente rigorose né “teorie” sui generis come una telecronaca di una partita di calcio. La meccanica quantistica, per esempio, ha come universo oggettuale la struttura delle particelle elementari e i fenomeni che avvengono a quella scala di grandezza; la telecronaca avrà come universo oggettuale i giocatori, le loro relazioni, il pallone, l’arbitro e le sue decisioni, ma non certo la massa del fotone a riposo o lo spin del gravitone. Questo discorso ci porta a compiere un altro passo nel nostro percorso di chiarificazione concettuale: le teorie possiedono i propri oggetti (o si riferiscono a un determinato universo oggettuale).
Una teoria descrive un certo ambito di realtà e, naturalmente, può descriverlo in maniera fedele e accurata oppure in maniera approssimativa e confusa. Una teoria può anche essere completamente falsa nel senso che può descrivere oggetti che non esistono oppure può attribuire a oggetti esistenti proprietà che in realtà tali oggetti non possiedono. La storia della scienza è ricchissima di teorie che si sono dimostrate false in uno dei due sensi precedentemente fissati. Intuitivamente si può quindi dire che esistono teorie vere e teorie false, così come esistono buone teorie e cattive teorie, teorie chiare e semplici e teorie complesse e oscure. Tutte queste aggettivazioni sono interessanti ma sono un po’ carenti dal punto di vista del rigore con il quale vogliamo condurre la nostra ricerca. La teoria dell’elettrodinamica quantistica è molto complessa per me, o per uno studioso di storia antica, ma assolutamente meno per il prof. Feynman che l’ha formulata. Tuttavia è utile soffermarci sulla prima coppia di attributi che abbiamo preso in esame, e cioè vero e falso. Se una teoria mi descrive come effettivamente stanno le cose al mondo, questa teoria sarà vera, in caso contrario sarà falsa. Il problema della verità, oltre che essere cruciale nella speculazione filosofica tout court, è essenziale anche nell’ambito epistemologico. Non è assolutamente dato per assodato se sia legittimo considerare le teorie vere o false. Anche in questo caso non possiamo continuare, in questa sede, ad affrontare questo problema. Ritorneremo sulla questione alla fine di tutto il percorso durante la presentazione filosofica generale dei risultati raggiunti. Ciò che noi assumiamo qui, è che, in un certo senso (del resto molto intuitivo), possiamo considerare le teorie come vere (o false) riguardo i loro oggetti. In filosofia e in logica tutto ciò che ha a che fare con i rapporti tra un linguaggio e la realtà viene considerato di pertinenza della semantica. In semantica la nozione chiave è proprio quella di verità, ovvero di corrispondenza tra gli oggetti e il discorso che descrive questi oggetti.
Riassumendo, al termine di questo nostro primo excursus assolutamente intuitivo, possiamo dire che una teoria è un linguaggio che si riferisce ad un universo oggettuale, caratterizzando le teorie secondo una concezione semantico-referenziale che ci accompagnerà durante il nostro percorso.
Nel paragrafo precedente abbiamo condotto una specie di analisi fenomenologica sul significato quotidiano e intuitivo del termine “teoria” e abbiamo fatto notare come, molto spesso, nelle nostre concezioni vi siano assunti non del tutto giustificati. Ora è necessario iniziare a definire in maniera più tecnica e rigorosa il concetto di teoria e, in particolare, di teoria formale. Parlare di teorie formali può far pensare che esistano anche teorie non formali e in effetti la prima grande distinzione che compiremo sarà proprio questa: da un lato le teorie formali, dall’altro le teorie non formali. Il termine formale[1] è fortemente polisemico ma ci accontenteremo solo di chiarirne alcuni aspetti particolarmente rilevanti. Innanzitutto è utile distinguere formale da formalizzato. Teorie formalizzate sono teorie che sono espresse in un linguaggio formalizzato ovvero un linguaggio che dopo un’opportuna operazione di simbolizzazione gode di due prerogative fondamentali: l’invarianza e l’univocità semantica[2]. I significati cioè delle espressioni utilizzate vengono fissati una volta per tutte e non si modificano a seconda del contesto in cui compaiono i termini. Il linguaggio naturale, a differenza di quello formale, non possiede queste proprietà e risulta essere tanto più espressivo o evocativo proprio grazie alla sfumatura di significato che le espressioni assumono a seconda dei contesti. Una teoria scientifica ha scopi diversi da una poesia o da un racconto e quindi l’ideale della totale esplicitazione dei contenuti e della mancanza di ambiguità è richiesto in ogni discorso che voglia essere autenticamente scientifico. Tutte le teorie che chiamiamo scientifiche e rigorose sono pertanto formalizzate anche se non tutte sono espresse interamente in un linguaggio simbolico. Il contrario di formalizzato potrebbe essere “intuitivo”; secondo questo punto di vista, esistono, per esempio, delle teorie matematiche intuitive come l’aritmetica che viene insegnata nelle scuole elementari. Tale teoria è formale (in un senso che spiegheremo tra breve) ma non è formalizzata nel senso che i bambini non sono messi al corrente delle regole di formazione dei termini e delle formule del linguaggio, così come sono inconsapevoli, dal punto di vista logico computazionale, delle operazioni che compiono risolvendo i problemi di aritmetica.
Che cosa distingue, dunque, le teorie formali dalle teorie non formali? Proporremo in questa sede una distinzione di carattere epistemico-fondazionale. Accanto a questo criterio di distinzione ne aggiungeremo in seguito un altro, di natura ontologica. Possiamo dire che le teorie formali sono quelle teorie i cui aspetti rilevanti sono fondabili a priori. Cioè, le teorie formali descrivono ambiti particolari di realtà per cui il nostro comprendere le proposizioni di tali teorie non implica un ricorso diretto all’esperienza. Questo non significa che per comprendere alcune espressioni delle teorie formali non sia necessario un ricorso all’esperienza. Quello che vogliamo dire è che le conseguenze informativamente rilevanti sono accessibili senza il ricorso all’esperienza. Traiamo un esempio dalla geometria euclidea. Ipotizziamo di derivare a partire dai cinque assiomi di Euclide il teorema che afferma che “la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180 gradi”; tale proposizione è fondabile esclusivamente a priori, nel senso che è sufficiente comprendere il significato degli assiomi e conoscere le regole di deduzione del calcolo per essere giustificati a credere che se valgono gli assiomi della geometria euclidea allora deve valere la proposizione che afferma che “la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180 gradi”. Naturalmente è possibile che per rendersi conto di ciò di cui stiamo parlando si faccia affidamento a un disegno sulla lavagna o a una forma di cartone, quindi a un’esperienza sensibile. Le teorie non formali sono di converso teorie che necessitano di un apporto esperienziale rilevante nella loro derivazione di proposizioni significative. La fisica, come la biologia, la chimica e anche le scienze umane, abbisogna dell’osservazione empirica, dell’esperi­mento per avvalorare le proprie tesi. La procedura di fondazione è, pertanto, a posteriori. Queste teorie verranno chiamate empiriche proprio per questo richiamo ineludibile all’esperienza.
È possibile tracciare anche un’ulteriore classificazione tra le teorie, basata non più sull’aspetto epistemico fondazionale ma su considerazioni ontologiche riguardo agli oggetti di una teoria. Abbiamo precedentemente affermato che ogni teoria possiede degli oggetti e che nel nostro discorso “oggetto” è stato considerato come un termine primitivo. Possiamo però decidere di classificare gli oggetti in due grandi categorie e, conseguentemente, elaborare un’adeguata tassonomia delle teorie. Distingueremo, così, teorie astratte e teorie concrete: le prime avranno nel dominio oggettuale oggetti astratti mentre le seconde presenteranno universi di oggetti concreti. È chiaro che, a questo punto, diviene necessaria una chiarificazione delle nozioni di astratto e concreto. La letteratura filosofica su questo argomento è a dir poco sterminata[3]; rimanendo nell’ambito della speculazione ontologica analitica sono stati proposti numerosi criteri per distinguere gli oggetti in astratti e concreti. Per esempio si può assumere che un oggetto è astratto quando non è spazio-temporalmente determinato, mentre è concreto quando occupa una posizione nel tempo e nello spazio. I numeri e gli insiemi sono gli esempi più espliciti di oggetti astratti mentre particelle e molecole appartengono al regno del concreto. Un altro criterio molto diffuso per la distinzione tra astratto e concreto è il criterio di inefficacia causale. Secondo molti pensatori gli oggetti astratti non possiedono efficacia causale. Questa argomentazione fa leva su una particolare nozione di causalità; secondo il nostro punto di vista, gli oggetti astratti non possono intrattenere relazioni causali fisiche, il che non esclude che esistano altri tipi di rapporti causali che coinvolgano anche gli oggetti astratti. L’identificazione della causalità fisica con la causalità tout court è tipica di un certo orientamento naturalista della filosofia contemporanea. Un terzo criterio di distinzione si basa sulla nozione di completezza di un oggetto rispetto alle sue proprietà. Secondo tale concezione gli oggetti concreti sono tali perché completi; ovvero, dato un oggetto a, per ogni proprietà P, vale che P appartiene o meno ad a. Ciò non vale, invece, per gli oggetti astratti che sono completi solo rispetto ad alcune proprietà. Ci è impossibile, in questa sede, approfondire ulteriormente sia tali tematiche ontologiche sia ulteriori sfumature interessanti per la considerazione delle teorie.
Dire che le teorie formali sono costituite da linguaggi che parlano di un universo oggettuale è corretto ma sicuramente insufficiente. Anche specificare, come abbiamo fatto, che si tratta di teorie che offrono conoscenze fondabili a priori e che si occupano di un sistema oggettuale astratto, non spazio-temporalmente determinato non è sufficiente. È necessario infatti aggiungere che le teorie formali sono sistemi di enunciati (e cioè linguaggi) organizzati.
Per renderci conto di questa organizzazione è utile riferirci a un semplice esempio. Prendiamo in considerazione la proposizione sopra citata che afferma che “la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a 180 gradi” (d’ora in...

Table of contents

  1. Sommario
  2. Nota introduttiva
  3. Capitolo 1 LE TEORIE FORMALI
  4. Capitolo 2 LA RIVOLUZIONE NON EUCLIDEA E LO SVILUPPO DELL’ASSIOMATICA
  5. Capitolo 3 IL LOGICISMO
  6. Capitolo 4 IL PROGRAMMA FORMALISTA DI HILBERT
  7. Capitolo 5 I TEOREMI DI INCOMPLETEZZA DI K. GÖDEL
  8. Capitolo 6 CONCLUSIONI E SVILUPPI FUTURI
  9. Bibliografia indicativa