1.
LA FOTO E IL JAZZ
1.1. Comunicazioni fotografiche e musiche afroamericane
1.1.1. Dall’arcaismo al rotocalco
Musica e fotografia, per quanto concerne il jazz, hanno dunque viaggiato quasi sempre sugli stessi binari o comunque su vie pressoché similari, specchiandosi talvolta l’una nell’altra (e viceversa), evolvendo quindi in un rapporto di quasi perfetto gemellaggio sotto diversi punti di vista: storico, sociale, artistico, culturale, epistemico, ecc.
Facendo anzitutto un balzo all’indietro di oltre un secolo, possiamo notare che le prime immagini del jazz rassomiglino stilisticamente agli iniziali dagherrotipi (risalenti, quest’ultimi, alla metà del XIX secolo), pur eseguite ben cinquant’anni dopo, in un’epoca in cui la tecnica fotografica aveva ormai raggiunto ottimi risultati e la cultura visiva si stava già da tempo spingendo verso l’uso inventivo, dinamico, moderno del mezzo stesso[3].
Tale effetto di arcaicità che suscita oggigiorno la vista delle prime immagini fotografiche sul jazz ed anche sul blues, sul gospel, sul ragtime (grosso modo da Fine Ottocento sino agli anni Venti) sembrerebbe in perfetta sintonia con quell’alone di leggenda, di mito, quasi di magia e di fiaba che da sempre ha romanticamente connotato le origini della musica afroamericana, o per meglio dire ciò che una certa parte di letteratura e di pubblicistica ha tramandato da allora fino ai nostri giorni sulla black culture (non solo musicale) negli Stati Uniti d’America.
Ma l’effetto di arcaismo delle prime foto-jazz non è stata una scelta programmata dai propri autori o dai presunti committenti delle stesse fotografie, bensì si denota come il risultato della situazione concreta in cui versava tutto l’ambiente musicale neroamericano, da cui nacque e proliferò il jazz: un contesto, come si sa, relegato ai margini della buona società, dunque impossibilitato ad ottenere (o anche solo a cercare di sognare) quei privilegi minimi e quelle garanzie civili che potevano significare emancipazione culturale, rispetto umano, valorizzazioni professionali.
Dagli inizi del XX secolo per tutti gli anni Dieci (ed in parte dei Venti) la scarsa circolazione del materiale fotografico è rivelabile per esempio attraverso il numero esiguo di immagini utilizzabili per una storia fotografica del jazz, così come è stata di volta in volta raccontata da molti studiosi[4]; e tutto ciò è d’altronde sintomatico di tale contingenza, che a sua volta faceva sì che la musica jazz ad inizio Novecento rimanesse ancora un episodio marginale e folcloristico nell’ambito non solo della vita artistico-intellettuale o dei gusti medio-alto-borghesi, ma anche del più popolare show business americano.
Quando invece, con gli anni Trenta, il jazz diventa non solo in generale moda e costume, ma, nello specifico, patrimonio musicale collettivo dell’intera nazione americana, grazie alla spinta ottimistica della politica roosveltiana e alla trasformazione della musica nera in fenomeno ludico-commerciale, ecco che pure il mondo della fotografia, con la sua capillare organizzazione legata soprattutto ai mezzi di comunicazione di massa, è pronta a trattare degnamente l’argomento, almeno così come ogni fenomeno di grande interesse pubblico veniva svolto ed elaborato nelle grandi città degli Stati Uniti dai reporter, dai fotogiornalisti e dai fotografi di scena: l’immagine dello swing, ormai attraverso centinaia di scatti, è pertanto quella divistica in stile broadwaiano ed hollywoodiano, spaziando indifferentemente dalla ritrattistica glamour al cartellonismo pubblicitario, dall’istantanea per il rotocalco alla posa ufficiale da dedicare ai numerosi fans.
1.1.2. Affinità estetica e comunicativa
Col dopoguerra la situazione, nei rapporti tra foto e jazz, cambia ancora radicalmente: il bebop è, perlomeno agli inizi, musica ostica e di conseguenza è difficile da ingabbiare in un’immagine edulcorata o stereotipa come era da poco accaduto con lo swing; i nuovi jazzmen insomma si pongono coscientemente su un livello di credibilità artistica fino allora negata o misconosciuta alla black music da parte delle istituzioni o della pubblicistica, con qualche eccezione sul Vecchio Continente[5]. Analoghi requisiti alla rivoluzione sonora bebop occorrono dunque da parte della nuova cerchia di fotografi artisti: ed in effetti si può dire che in quegli stessi anni si sviluppi telepaticamente o in collaborazione coi giovani jazzisti un’immagine bebop per merito di alcuni fotografi con la F maiuscola, che, alla pari dei boppers, sono attratti dal medesimo gusto per l’anticonformismo e per la ribellione non solo intellettuale.
Diversi fotografi, perlopiù bianchi, rispecchiando questa stretta affinità estetica e comunicativa con i jazzmen neri, capiscono infatti che per immortalare su pellicola l’ormai dilagante bebop, si debba innanzitutto capirlo, amarlo, sentirlo come su se stessi, agendo e lottando di conseguenza con i musicisti che lo praticano e lo vivono spesso drammaticamente. E sono questi in fondo i primi veri risultati artistici e pienamente autoconsapevoli della fotografia d’argomento jazzistico, giacché da quel momento e per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, fu proprio un manipolo di fotografi l’unico a volersi calare in maniera sagace e diretta, andando sino in fondo, nel microcosmo del bopper (e via via del coolster, dell’hardbopper, del free man, del soul man). L’esito, in fotografia, è lo sviluppo di uno stile che a sua volta risulta la visualizzazione dell’anima della musica sul piano figurativo e plastico.
Dal bebop in poi l’interdipendenza tra foto e jazz non solo è diventata sempre più stretta dal punto di vista culturale ed estetico, ma ha pure moltiplicato il suo raggio d’azione, influenzando altri settori (pubblicità, moda, design, industria discografica e massmediale) e trovando infine un fertile approdo di originali reinvenzioni sul Vecchio Continente. Infatti in Europa e poi in Italia la cosiddetta foto-jazz ha avuto vita relativamente facile già a partire dagli anni Cinquanta: da un lato il panorama culturale era pronto ad accogliere seriamente le novità artistiche dell’America giovane, assai più di quanto avvenisse nella patria d’origine, dove tutto era sottoposto al vaglio del mercato e del consumo e per breve tempo purtroppo anche della censura ideologica (con la ‘caccia alle streghe’ del maccartismo)[6]. Dall’altro lato, però, non tutti reagirono positivamente alle novità d’Oltreoceano: artisti ed intellettuali sia di destra sia di sinistra, magari per ragioni opposte, in un primo tempo (con strascichi fino agli anni Settanta) furono presi alla sprovvista perché risultarono impreparati o indifferenti di fronte a forme comunicative (come appunto il jazz e la foto-jazz) inedite, diverse, lontane, per alcuni, dai valori formali e contenutistici di tipo eurocentrico.
Il divario tuttavia è stato colmato abbastanza in fretta: numerose schiere di entusiasti in Italia, a partite dall’ondata di boogie, cool, bebop, dixieland revival degli anni Quaranta-Cinquanta si sono dedicati al jazz con sempre maggior assiduità e competenza, ottenendo risultati assai eloquenti sul piano della fantasia, dell’impegno, dell’originalità; anche in particolare per la foto-jazz, dagli anni Cinquanta, fino ai nostri giorni, sono stati tantissimi i giornalisti, i fans, i critici, i pittori, i cineasti, i professionisti ad applicarvisi, spesso con un tocco unico ed esclusivo. Molti di loro sono diventati celebri ed il loro ‘linguaggio visuale’ è stato giudicato tra i migliori del mondo, a volte persino superiore ai modelli americani.
Ma a questo punto dobbiamo fare un passo indietro e ripercorrere, con una breve analisi storica incentrata sui principali momenti di contatto e di sviluppo, il tipo di evoluzione dei rapporti tra il jazz e la fotografia per capire ed apprezzare meglio le scelte tanto dell’uno quanto dell’altra in cent’anni di destini spesso comuni o gemellari.
1.2. Musica e immagine
1.2.1. Poteri evocativi
La musica, secondo parecchie teorie estetiche, dal precursore Hanslick agli studi semiotici[7], è arte astratta per eccellenza[8]; tuttavia essa evoca dei significati che esulano dal fatto meramente sonoro e che s’incrociano con suggestioni psicologiche, in cui predominano immagini il tipo visivo. Guardando proprio al jazz, l’evento musicale in sé infatti non è mai costituito soltanto dai suoni che scaturiscono dagli strumenti, ma anche e soprattutto dalle persone che suonano fra loro in quel dato momento, in un particolare ambiente, in un preciso istante, e così via. In più, oggigiorno la musica (jazz non escluso), è organizzata e talvolta concepita su scala industriale, dunque prodotta ed inserita in quell’universo delle comunicazioni di massa (in particolare audiovisiva) che attua la mediazione con qualsiasi forma di realtà attraverso il ricorso ad ogni stimolo sensoriale[9]. Tutto ciò è verificabile con quanto è venuto a crearsi soprattutto nel dopoguerra costantemente fino ai nostri giorni, da un lato a causa di una crescente spettacolarizzazione della società contemporanea, dall’altro per via di una ricerca scientifica che, applicata ai settori umanistici, ha portato a quella che il filosofo Walter Benjamin già negli anni Trenta riteneva la fase della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte[10].
Soprattutto nelle operazioni di più largo consumo l’esperienza musicale sta diventando sempre più fenomeno visivo e audiovisivo, come diretta filiazione dell’attuale e ormai perdurante civiltà dell’immagine. La necessità, spesso di mercato, di cercare attorno al suono un apparato reclamistico (dal look degli artisti al gadget inteso quale formula neopropagandistica) ha condotto addirittura a nuovi ibridi, spesso ingestibili, come ad esempio i casi macroscopici di canzonette subordinate al linguaggio del videoclip[11].
Esiste però il rovescio anche positivo di questa situazione, che consiste nel grado di affinamento critico e di controllo informativo nei confronti dei messaggi (musicali e non) da parte dell’audience e degli autori stessi. Su un numero talvolta eccessivo di proposte musicali (concerti, dischi, riviste, siti, programmi radiotelevisivi e tutta la pubblicità che ruota attorno a questi fenomeni) riesce infatti ad emergere una qualità originata pur sempre dai medesimi presupposti quantitativi. Il jazz in tal senso ne è la prova evidente, perfetta (o tipica) esemplificazione fra tutta la musica del XX secolo e forse anche di quello attuale: ma la stessa cosa si può dire per la foto-jazz, la quale ha saputo appunto conquistare parametri valoriali molto alti, quasi a dimostrazione che, nel mondo delle imprese e degli apparati di cui si diceva, jazz e foto-jazz hanno raggiunto insieme e separatamente una maturità di gusto che a sua volta si è manifestata in risultati complessi di mirabolante autonomia espressiva, che a loro volta fanno parlare in termini di pura genialità e visioni originalissime.
Il discorso su musica e immagine e soprattutto su jazz e fotografia sarebbe lunghissimo[12]: ma vogliamo senza dubbio partire dagli episodi più semplici, come pensare ad esempio al potere evocativo, spesso struggente e fascinoso, della fotografia nei confronti del passato (ed anche del presente) da parte di chi, tra i jazzfans non ha avuto esperienza diretta di segno visivo, spettacolare, concertistico (ma solo ascolto fonografico): si tratta allora di un significato che va al di là del ricordo o della memoria storica, privata o collettiva che dir si voglia.
A chiunque infatti è capitato, prima o poi, di associare con estrema libertà l’immagine gaudente, dal sorriso clownesco, del Louis Armstrong visto attraverso le numerose istantanee a colori o in bianco e nero che in parecchi gli hanno scattato, con le note altrettanto umoristiche della sua tromba o quelle allegramente estroverse dello scat vocalico. Oppure pensando al sax tenore (e soprano) di John Coltrane sembra quasi spontaneo il collegamento tra le contorte improvvisazioni dei suoi lunghi brani e il volto serio, triste, meditabondo di tanti suoi primi piani. Si potrebbe continuare all’infinito con questi esempi (e una storia del jazz fatta in questo modo sarebbe magari assai utile a livello antropologico)[13], scegliendo fra protagonisti e comprimari, piccoli gruppi e grosse orchestre, solisti e accompagnatori, ambienti e città, luoghi chiusi e spazi aperti[14]. Non è questione di fantasia ma la conferma di due serie ipotesi.
Da un lato la singola immagine risulta la prova della persistenza nella mente umana di un repertorio visisvo-iconico più o meno vasto ed eterogeneo che affiora coscientemente ogni qual volta viene selezionato da altri stimoli, in questo caso di tipo uditivo, come l’ascolto di un disco (o il ricordo di un concerto). Dall’altro lato emerge l’importanza che ha assunto storicamente l’immagine fotografica nei confronti della musica afroamericana, a completamento di un analogo immaginario sonoro. Analizzando infatti la storia del jazz dalle origini ad oggi scopriamo che il supporto o lo strumento integrativo più adoperato è proprio quello fotografico, che è altresì servito a qualificare le forme e i contenuti musicali all’interno di un progetto sia comunicativo sia spettacolare, il quale a sua volta risulta un fenomeno condiviso della società, dell’arte, del panorama mediatico del XX secolo.
1.2.2. Foto-jazz e problemi
A questo punto bisogna però tentare di razionalizzare ulteriormente il discorso per capire quali siano state e se tuttora permangano le dinamiche dell’espressione fotografica in ambito jazzistico, in un ventaglio d’esperienze coloratissime, che a loro volta rimandano a un insieme di suggestioni variamente composito e stratificato.
Partendo innanzitutto dalle fonti bibliografiche accumulate ormai da decenni nei rispettivi ambiti (storia del jazz da un lato, storia della fotografia dall’altro)[15] notiamo subito che pochissimo spazio viene dedicato allo studio dei rapporti tra le due discipline artistiche. Nei numerosissimi saggi sul jazz, apparsi su riviste o in volume, la fotografia si è rivelata un prezioso supporto per numerosi metodi di ricerca (storico, biografico, sociologico)[16], mentre è quasi sempre trascurata nella sua funzione intrinseca, per così dire autosignificante, di ‘oggetto’ artistico e culturale, qualcosa insomma con un proprio sistema comunicativo, che varia da epoca a epoca, da stile a stile, da autore ad autore.
In tal senso balza subito all’occhio come il gusto fotografico ha subito un’evoluzione o meglio una serie di cambiamenti anche in campo jazzistico, ad esempio dalle tendenze pittorialiste delle immagini primonovecentesche di New Orleans o Chicago alla sperimentazione psichedelica della foto applicata al free jazz.
Nella storia della fotografia (ormai rigogliosa anche dal punto di vista specialistico e accademico)[17] il jazz è argomento trascurato se non addirittura inesistente. Pur essendo la fotografia una materia di studio pressoché sterminata che tocca ogni sfera dello scibile umano e che si trova a dovere agire su un numero abnorme di materiale da analizzare (ogni anno nel mondo si scattano all’incirca dieci miliardi di foto), non si riesce a capire come gli studiosi abbiano potuto finora evitare quel filone che ha come soggetto (o idea o argomento) il jazz e che ha raggiunto già da tempo proporzioni, ambiti, risultati di grande prestigio e di massimo rilievo non solo per gli storici del jazz ma anche per gli esperti di fotografia.
L’unica ipotesi plausibile su questa lacuna, almeno per quel che concerne il discorso italiano, è che la storia della fotografia stia iniziando solo adesso a porsi come disciplina autonoma (stranamente, in ambito universitario, più verso i saperi artistico-architettonici che non in quelli visivo-mediali), cercando di superare l’impasse della sottocultura circolistica ed amatoriale che aveva finora vampirizzato il dibattito, privilegiando esclusivamente i problemi tecnici o i confronti con la pittura. All’estero, invece, nei Paesi dove studi ed analisi sulla fotografia sono molto più avanti, come in Francia, Inghilterra, Germania ed in parte Stati Uniti, si sta procedendo da almeno due decenni ad un inventario del passato, in marcata simbiosi con la ricerca storica, nella prevalenza degli aspetti sociali e politici dei diversi argomenti civili, con questa benefica ricaduta anche sugli argomenti musicali (jazz compreso).
La foto-jazz crea (e risolve) dunque problemi. Lo sforzo maggiore che al...