Julius Caesar e Antony and Cleopatra Momenti di storia romana in William Shakespeare
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Julius Caesar e Antony and Cleopatra Momenti di storia romana in William Shakespeare

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Obiettivo di questo volume è quello di fornire materiale integrativo alla bibliografia essenziale del corso di Lingua e Letteratura Inglese, che affronta la lettura e il commento di due dei drammi più significativi dell'opera shakespeariana. Il motivo per cui si è scelto di lavorare sul Julius Caesar e sull'Antony and Cleopatra è riconducibile ad un interesse particolare di chi scrive e, soprattutto, alla necessità di far conoscere agli studenti due drammi che sono rimasti un po' nell'ombra, lasciando maggior spazio alle grandi tragedie e ad alcune commedie, tornate in auge anche grazie ad interessanti trasposizioni cinematografiche.
Il lavoro è composto da quattro capitoli, che intendono affrontare aspetti importanti contenuti nei drammi succitati e sui quali la critica si è esercitata nel corso dei secoli, confermandone così la centralità e l'importanza.
I primi due capitoli esaminano le figure di Giulio Cesare e di Cleopatra, messe a paragone con quella della Regina inglese dei tempi di Shakespeare. In particolare, il primo propone un confronto tra Giulio Cesare ed Elisabetta I, basato sul concetto di tirannia e sulla figura del tiranno. Ovviamente, il confronto non riguarda solo una questione di ruolo, e di manifestazione e realizzazione dello stesso, ma soprattutto l'idea che della tirannia avevano le due epoche, la romana e l'elisabettiana. Da qui il dibattito, molto in voga nel Rinascimento, sulla forma di governo che meglio si addicesse ad uno stato e, quindi, attraverso la lettura del dramma, le deduzioni sulla posizione di Shakespeare.
Il secondo capitolo, invece, prospetta un parallelo tra Cleopatra ed Elisabetta, in quanto donne di potere e sovrane. Chi conosce l'età rinascimentale sa bene in quale considerazione fossero tenute le donne e sa pure come in Inghilterra non mancassero le proteste di predicatori protestanti contro la loro presenza sul trono. Il capitolo prende anche in considerazione l'interessante questione della regina e della donna racchiuse in un solo corpo ed indaga su come Cleopatra ed Elisabetta vivessero la propria femminilità.
I due capitoli successivi analizzano le fonti che Shakespeare consultò o ebbe a disposizione per la stesura dei due drammi. Il primo dei due, terzo di questo volume, riguarda interamente Plutarco e le sue Vite Parallele. A tale proposito, però, è opportuno fare una precisazione sull'impostazione che si è voluta dare a questo e al capitolo seguente: invece di proporre una sintesi tra ciò che Shakespeare mantiene delle fonti e ciò che, invece, cambia, si è preferito proporre una sorta di lettura parallela tra il testo del drammaturgo e quello dello storico in modo che chi legge possa toccare con mano il criterio adottato dall'Autore inglese. Di alcuni episodi si riportano entrambi i passi, quello drammatico e quello narrativo, così che se ne possa constatare in modo diretto ed immediato la vicinanza. Le Vite di Plutarco sono relative a Cesare, Bruto ed Antonio, motivo per cui è stato necessario suddividere il capitolo in due parti, la prima su Julius Caesar e la seconda su Antony and Cleopatra.
Il quarto ed ultimo capitolo riguarda le fonti, per così dire minori, e, quindi, la traduzione della Contessa di Pembroke, il dramma di Daniel complementare a questa traduzione e la tragedia italiana di Orlando Pescetti, della quale, però, non è sopravvissuta nessuna versione inglese. Inoltre, prima di presentare questi testi con le modalità riferite sopra, si è inserito un rapido excursus sul panorama letterario elisabettiano dedicato alle figure di Cesare, Antonio e Cleopatra. Per quanto riguarda questi testi, si precisa che essi sono stati riportati rispettando il loro spelling originale. Tratto dall'Introduzione dell'Autore

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Oltre alle opere di Plutarco e di altri scrittori del mondo classico, che Shakespeare aveva a disposizione sia in traduzione sia in lingua originale, esiste una quantità di testi composti nel XVI secolo, che, in seguito al successo riportato sulle scene o in corrispondenza al consenso di un pubblico colto e raffinato, circolavano all’epoca in cui il drammaturgo di Stratford si apprestava a scrivere il primo dei suoi drammi romani. Questi testi, scritti da autori non solo inglesi, ma anche stranieri, in seguito tradotti, costituiscono un filone di studi molto interessante, perché il pensiero dei classici vi compare mediato e filtrato da quello elisabettiano, e dall’interpretazione della Storia attraverso la volontà e il destino di una Sovrana e della sua nazione.
Tutti gli scrittori che sono stati menzionati nel capitolo precedente rappresentarono un solido e affidabile punto di partenza per gli autori del Medioevo che, sfruttando quel terreno comune, proposero una propria immagine di Giulio Cesare, la quale poggiava essenzialmente su due aspetti. Uno metteva in evidenza la straordinaria capacità dell’imperator di gestire le legioni affidategli dal Senato romano, nonché la sua signorile cortesia nei confronti di amici e alleati; l’altro il contrario, poiché tanta forza e tanto potere avrebbero potuto solo nuocere all’assetto politico di Roma, alla sua armonia, al suo benessere, e all’equilibrio conquistato dalle componenti dello Stato. Cesare non era solo potente contro i nemici e gentile con gli amici, ma anche ambizioso e desideroso di controllare il mondo come unico monarca assoluto[135].
Tra gli autori medievali si possono ricordare: Tommaso d’Aquino, che nel De Regimine Principum parla di Giulio Cesare e di come egli sia un esempio ora di mitezza ora di crudeltà, ma non prospetta una visione storica della sua vita e della sua politica; Dante Alighieri, che lo colloca nel Limbo con Elettra, Ettore ed Enea, e lo descrive con gli “occhi grifagni”, per poi riscattarlo nel Canto VI del Paradiso dove lo mette in relazione col grande Impero di Roma; Petrarca, che nei Trionfi ne parla come di una vittima di Cupido e della Fama; Boccaccio, che ne ritrae la morte nell’Amorosa Visione e nel De Casibus Illustrium Virorum.
La concezione positiva o, comunque, simpatizzante nei confronti di questo personaggio, che era emersa nel Medioevo, trova una smentita nel Rinascimento, quando torna a prevalere la visione ciceroniana e della validità del gesto di Bruto e Cassio. Tuttavia, nemmeno il Rinascimento fu immune dal fascino di Cesare che, come fa notare Bullough[136], cominciò ad essere preso in considerazione come modello per gli aspiranti monarchi dell’epoca. Tra tanti esempi il più interessante per la letteratura inglese è fuor di dubbio quello di Enrico VIII Tudor, che venne elogiato da Erasmo da Rotterdam perché aveva la forza di volontà di Giulio Cesare, la razionalità di Augusto e numerose altre virtù di altrettanti personaggi della Storia. L’umanista Colet, invece, consigliava al re di seguire Cristo piuttosto che Alessandro o Cesare; Lutero considerava quest’ultimo un tiranno distruttore della Repubblica romana e Montaigne lo riteneva nemico giurato della libertà.
Tra i testi scritti in lingua inglese e collocabili nel XVI secolo, il Mirour for Magistrates propone una sua visione di Giulio Cesare che, nell’edizione del 1587 curata da John Higgins, lo spirito del condottiero parla di sé in un lungo flashback che, partendo dalle imprese giovanili, giunge alla conquista della Britannia, alla sconfitta di Pompeo e alla morte. Egli si descrive affermando che
In journey swift I was, and prompte and quiche of witte,
My eloquence was likte of all that hearde me pleade,
I had the grace to use my tearmes, and place them fitte,
My roling Rhetoricke stoode my Clients oft in steade:
No fine conveyance past the compasse of my heade.
I wan the spurres, I had the laud and prayse,
I past them all that pleaded in those dayes,
I had of warlike knowledge, Keasar, all the keyes.
(vv. 65-72)[137]
Inutile dire che la parte più interessante è quella che riguarda la fine della sua vita, da cui emergono elementi comuni con il testo di Shakespeare. In questi versi, lo spirito di Cesare narra di come la notte prima del suo assassinio avesse sognato di camminare vicino a Giove e di come sua moglie Calpurnia avesse fatto sogni allarmanti, premonitori di un immediato futuro funesto:
The night before my slaughter, I did dreame
I caried was, and flewe the clouds aboue:
And sometime hand in hand with Joue supreame
I walkte mee thought, which might suspitions moue.
My wife Calphurnia, Caesars only loue,
Did dreame shee sawe her crest of house to fall,
Her husband thrust through breast a sword withall,
Eke that same night her chamber dores themselues flewe open all.
(vv. 345-352)
Sebbene il racconto della notte precedente le Idi di marzo sia qui ridotto all’essenziale, si può riconoscere quanto sarà riportato in forma più particolareggiata nel dramma di Shakespeare. La scena è la Seconda del Secondo atto e sul palcoscenico compare un Cesare diverso da quello del Primo atto. Ora egli è colto nella dimensione privata: è nella sua casa, in vestaglia, dopo una notte tormentata dal temporale e da sogni infausti. Lo raggiunge Calpurnia, che gli racconta a sua volta i propri incubi e gli chiede preoccupata di non andare in Campidoglio: assalito dai dubbi e dal timore che il sogno della moglie sia un grande segno premonitore, Cesare decide di non sfidare la sorte e di rimanere in casa. Benché egli sostenga che “Danger knows full well / That Caesar is more dangerous than he” (II, ii, 44-45), alla fine cede alla paura e dice a Decio, il congiurato giunto a casa sua per recarsi con lui in Senato:
And you are come in very happy time
To bear my greeting to the senators
And tell them that I will not come today.
Cannot, is false; and that I dare not, falser.
I will not come today. Tell them so, Decius.
(II, ii, 60-64)
Il messaggio affidato a Decio oscilla sui termini utilizzati, che rivelano l’indecisione di cosa sia meglio dire e di quale immagine di sé sia più opportuno comunicare. Cesare gioca sui modali che sfumano tra il cannot, il dare not e, quindi, il will not: alla fine la scelta cade sul modale will e, di conseguenza, sulla sfumatura che implica la volontà. Cesare, dunque, non andrà in Campidoglio per un motivo legato alla sua volontà e non all’impossibilità che deriva da presagi funesti.
La titubanza presente nelle parole del Cesare shakespeariano appartiene anche al testo di Higgins, dove viene detto che
These thinges did make mee doubte that morning much,
And I accrazed was and thought at home to stay:
But who is hee can voyde of destnyes such,
Where so great number seekes hym to betray.
(vv. 353-356)
Ma alla fine, nonostante le raccomandazioni della moglie e il responso degli àuguri, Cesare va incontro al suo destino e
Assoone as I was set, the traytors all arose,...

Table of contents

  1. Indice
  2. Introduzione
  3. Elisabetta I e Giulio Cesare: sovrani e tiranni
  4. Elisabetta I e Cleopatra: due donne al potere
  5. Shakespeare, Plutarco e le Vite Parallele
  6. Cesare, Marc’Antonio, Cleopatrae i testi elisabettiani
  7. Bibliografia