La 'Ndrangheta nella letteratura calabrese
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La 'Ndrangheta nella letteratura calabrese

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C'è una tesi che ha il fascino indiscreto e attaccaticcio di tutte le cose false. Come è noto, la verità stenta ad affermarsi. II falso non conosce questa difficoltà in proposito di riflessi della criminalità organizzata in letteratura il falso e che nel Mezzogiorno e in Calabria su mafia, camorra, 'ndrangheta hanno osservato un rigido silenzio non solo la classe politica e le classe economiche, ma anche gli intellettuali: saggisti o letterati che siano. Ma bisogna aggiornare le lancette dell'orologio ed essere contenti, ora, dell'insonne veglia dei letterati dell'obitorio che offrono morti ammazzati alle pompe funebri editrici. II saggio dl Pasquino Crupi, che per primo ha ricostruito i riflessi della 'ndrangheta nella letteratura calabrese, fa solare chiarezza con la compiuta antologizzazione di scrittori e poeti popolari calabresi. II che consente di innestare nelle scuole un percorso didattico di tutta utilità nella costruzione d'una cultura antindranghetista, d'una cultura della legalità.

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Information

Testi letterari in lingua / II

Antonio Margariti

Fu dei narratori senza studi che badano più a dire le cose che come le dicono. Nato a Ferruzzano in provincia di Reggio Calabria nel 1891, morì in America, nella città di New York nel 1981. Due anni prima di morire, nel 1979, racconta la sua vita e il suo paese nel libro America! America!, pubblicato dall’editore Giuseppe Galzerano di Casalvelino Scalo (Salerno).
Il Novecento s’apriva senza sorriso nel Mezzogiorno e in Calabria. Il medioevo barbarico continua a sopravvivere. I contadini, che sono la classe sociale più numerosa, giacciono sotto la sferza dei grandi proprietari. Chi può emigra, Antonio Margariti non ha che da aspettare. A scuola non va. Più fanciullo che adolescente, pascola capre e raccoglie ulive. Poi, più grandicello, fa il servo nelle case di ricchi massari. Padroni, preti, carabinieri: tutti uniti contro i poveri e i derelitti. Non vi sono che terremoti e guerre. Distruzione che s’aggiunge alla distruzione. La guerra di Libia del 1911, che Antonio Margariti aveva combattuto, non era lontana. E un’altra sopravviene: quella del 1914-1918. Ma Antonio Margariti era già espatriato clandestinamente in America nel 1923. Aveva 23 anni. Dura è la vita anche in terra americana. E anche lì c’è mafia, formata da emigrati siciliani ed emigrati calabresi. Pensava di averla lasciata alle spalle, al suo paese. Si scontra. Comincia a formarsi una coscienza. Diventa anarchico. Si batte per una migliore vita della classe lavoratrice. Mette il sogno nel cassetto. La mafia non è il tema esclusivo di America! America!. È uno dei suoi temi. Ed interessante è rilevare come il popolano Autore centri una questione sulla quale neppure gli storici hanno insistito: il legame tra mafia ed emigrazione, e quasi del tutto assente nella letteratura dell’emigrazione. Francesco Perri non produce negli Emigranti (Mondadori, Milano 1928) che il termine «camorristico». Saverio Montalto si sofferma sull’educazione mafiosa in terra americana di Gianni della Zoppa e di zio Bottaccio nella Famiglia Montalbano (Framas, Chiaravalle Centrale, Catanzaro, 1973). Accenni, non più che accenni, sono presenti nella narrativa di Saverio Strati
C’ERANO DUE UOMINI SULLA BANCHINA
La mafia Antonio Margariti se la ritrova dinnanzi appena sbarca nel porto di New York il 5 maggio del 1914. Bassa camorra che taglieggia gli emigrati, mettendoli sotto la sua protezione. Niente deve avvenire al di fuori del suo controllo: alloggio, lavoro, apertura di piccoli commerci. La denuncia di Antonio Margariti, sempre civilmente appassionata, non è di stampo moralistico né si risolve in semplice e umana indignazione. La mafia, che continua ad operare anche in terra americana, è la prosecuzione del retaggio bestiale dei paesi di origine.
[…] I nostri paesani trasferirono in America l’ambiente bestiale dei loro paesi nei quali la prepotenza dettava legge. E fu così che nel bar di mio fratello scoppiarono per due volte le bombe per il fatto che il cuoco un nostro amico, lavorava con lui interrompendo il rapporto di lavoro con il bar dei malandrini. Lo scopo cui miravano era la chiusura del bar.
Con l’amico e compagno Fortunato Galati, schiacciato nel lavoro anni dopo, andammo a parlare con zì Ciccio Cannizzaro. Un vecchio capo malandrino calabrese, del quale erano note le sue relazioni con i Bombardieri[1]. Al primo incontro ci chiese del tempo. La seconda volta disse che mio fratello doveva chiudere il bar per un anno e poi avrebbe visto cosa si poteva fare. Replicai duramente: «Zi’ Ciccio, siamo venuti da voi perché voi conoscete e potete!… e poi perché volevamo fare tutto con le buone maniere altrimenti – ricordatelo – pelle è la nostra e pelle è la loro».
Ci chiese altro tempo fissandoci l’incontro per il mercoledì e in quell’occasione ci disse di recarci il sabato al bar della 12ª strada perché volevano parlamentare. Era il bar frequentato dai malandrini. Ci trovammo tre persone, una delle quali sbattette 20 dollari sul banco autorizzando il barista a darci da bere tutto quello che desideravamo. Eravamo in cinque e bevemmo whisky e pagai per tutti. A questo gesto il giovane fa: «Mister Margariti, io chiamo e voi pagate». Accondiscesi: «Il mio piacere è pagare, per voi non manca tempo». Era un bel giovane e divenimmo amici tanto che quando nel ’48 fui in Italia, nel porto di Napoli fu lui che per primo mi strinse la mano – è morto giovane a causa d’un male che non perdona.
Un altro malandrino mi chiamò in una stanza e dopo averla chiusa spiffera: «Mister Margariti, noi non mettiamo bombe. Se abbiamo dei conti da regolare con qualcuno lo aspettiamo in un angolo e gli facciamo saltare la testa». Contestai questo modo d’agire e aggiunsi: «Non sono qui per discutere di questo, ma perché intendiamo agire con le buone maniere, ma anche perché so quello che voi potete fare!». Scarcella mi puntò il dito e s’impegnò: «Mister Margariti, si farà tutto quello che si può». Quest’affermazione significava che mio fratello non sarebbe stato più disturbato e gli strinsi la mano ringraziando.
La prima bomba non produsse tanti danni, servì da avvertimento, ma il bar restò ancora aperto e dopo un anno venne la seconda. Stavo mangiando in fabbrica quando un operaio m’informò che era scoppiata un’altra bomba. Quando esco la sera compro il giornale e trovo in prima pagina la fotografia di mio fratello. Salgo sul tram e vado nel sud della città di Philadelphia, dove c’era il locale fracassato e la polizia aveva attaccato una corda per impedire il transito a causa d’un muro pericolante. Quando arrivo trovo il cuoco, il compaesano Nino Bentivoglio, tutto impaurito e alla mia domanda «vi hanno bombardato di nuovo?» replica: «Qui è impossibile mantenere il bar, Vincenzo può aprire un negozietto; io me ne vado, se no questi qualche sera mi ammazzano con la mitragliatrice». Nino si ritirò in buon ordine e riprese a lavorare al bar dei malandrini, ma non campò a lungo perché crepò di paura.
La bomba aveva fatto saltare le finestre a 57 case e ci fu anche chi si ammalò per il freddo (eravamo in gennaio) che entrava nelle case. Gli abitanti del rione, italiani e nella maggior parte calabresi, avevano firmato una petizione per far chiudere il bar, ma l’iniziativa fu bloccata dall’intervento di Giovanni Rocca, un amico, che con la sua influenza riuscì a fermare la petizione.
L’odio: questa è la «civiltà» che noi italiani abbiamo portato nella grande America. Adesso i tempi sono cambiati, ma una volta gli altri popoli non ci volevano neanche come vicini di casa e se non riuscivano a spuntarla si trasferivano. Oggi è tutto diverso: i figli degli emigrati italiani vivono con i figli degli altri popoli per via delle scuole, dei collegi e i figli degli italiani, arrivati dal paese col sacco sulle spalle rozzi ed analfabeti, sono ingegneri, dottori, avvocati. Questo progresso è dovuto alla vita di questa grande nazione ...

Table of contents

  1. Profilo linguistico e storico / I
  2. Testi letterari in lingua / II
  3. Testi letterari in dialetto / III