Don Nunnari racconta la sua Calabria
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Don Nunnari racconta la sua Calabria

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Una Calabria raccontata con sguardo lucido e penetrante al pari di un'aquila che è capace di "affissarsi al sole". Sono gli occhi di Don Nunnari, uomo titanico, che ha attraversato e tagliato la storia della Calabria diventandone egli stesso storia e ha guidato, amministrato, controllato, influenzato e ridisegnato con equilibrio e straordinaria modernità la storia della chiesa meridionale degli ultimi decenni. Oggi Arcivescovo di Cosenza e Presidente della Conferenza Episcopale Calabra, Don Nunnari racconta la sua terra mentre viene raccontato dalla penna efficace e diretta del giornalista Attilio Sabato che non si sovrappone mai alla voce dialogante dell'alto prelato ma lascia fluire i suoi fotogrammi che eruttano lavici e prorompenti sulla pagina. Un racconto nel racconto dunque, al pari di una complicata matrioska, in un ribollente magma che mostra al lettore un uomo molteplice e complesso che partecipò ai "giorni della rivolta" reggina con passione totale e travolgente, che venne spedito in Irpinia a gestire il dopo-terremoto in una terra di nessuno, che ritornò in Calabria e fu investito da fortissimi marosi.
Guerre di 'ndrangheta, feroci scandali nella chiesa e gattopardismi politici: don Nunnari avanza come "una macchina da guerra" senza mai indietreggiare.

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Cosenza, la politica e gli scandali

«La chiamata arrivò il 14 dicembre del 2004. Fui convocato a Roma dal nunzio che mi comunicò la mia nuova destinazione. Accolsi con stupore la notizia del trasferimento. Giungeva in un momento in cui avevo, finalmente, risolto tutti i problemi che insistevano nella diocesi che stavo per abbandonare. Il passaggio avveniva proprio mentre uscivo da vincitore nelle battaglie legali, avendo appena recuperato quattro miliardi, ed ero pronto a continuare il mio lavoro tra quella gente che aveva bisogno di speranza e d’un pizzico di serenità in più».
Ma non è questo il destino di un uomo di chiesa. Egli sa che non può fisicamente rimanere ancorato in un posto. Deve andare dove c’è bisogno. La missione ha un inizio ed una fine e a questa regola nemmeno Nunnari non può sottrarsi.
«Dopo avermi detto del trasferimento cosentino e prima di augurarmi buon lavoro, il nunzio apostolico mi consegnò una cartella che conteneva una copiosa relazione sulla diocesi della città Bruzia. Ero molto curioso di sapere cosa contenevano quei fogli, che cosa avrei dovuto attendermi, quali problemi avrei dovuto affrontare. Andai nell’alloggio e cominciai a spulciare quelle carte che contenevano la vita della diocesi di Cosenza. Ho conosciuto dalle carte, con largo anticipo, tutto ciò che avrei trovato concretamente al mio arrivo».
Una relazione dettagliata sulla quale nutro più di una curiosità. Azzardo la richiesta: «Don Salvatore, lei conserva ancora questo documento?».
«Certamente».
«Potrei consultarlo?». Su questo punto non registro la sua solita disponibilità. «Mi rincresce, ma non posso soddisfare la sua curiosità giornalistica».
«Mi illustri il contenuto del documento: questo lo può fare?», dico io tentando di aggirare l’ostacolo.
Dopo un attimo di riflessione, Nunnari mi accontenta. «Il primo punto riguardava l’Istituto Papa Giovanni Paolo XXIII; poi una sfilza di anomalie che riguardavano l’organizzazione della Curia».
Non va oltre. Il resto è caratterizzato da informazioni segrete, in uso solo al clero. Decido di non insistere: intuisco chiaramente che non riuscirò ad estorcergli altro.
«Era scritto da qualche parte che io savrei dovuto venire a Cosenza. Le racconto una cosa. Il 22 dicembre vidi il Papa; aveva appena firmato il decreto di santità per il mio padre spirituale, don Gaetano Catanoso. Provai una grande emozione. L’udienza si tenne nella sala Clementina. Mi avvicinai umilmente al Santo Padre e gli dissi: “Santità, Lei mi nomina vescovo di Cosenza nel giorno in cui ha concesso un alto riconoscimento alla mia guida spirituale”.
Lui sorrise e soggiunse: “Allora vai e fai un buon lavoro, sarà lui a proteggerti”. Le confesso che quella profezia si avverò. Padre Catanoso fu proclamato Santo da Papa Benedetto XVI il 23 ottobre del 2005».
Dal 1921 al 1940 egli fu parroco nella città di Reggio, nella Chiesa di Santa Maria della Purificazione (detta anche della Candelora), luogo dove, coadiuvato dal fratello sacerdote don Pasqualino, svolse un’attività ancora più intensa e vasta. Tra i suoi impegni, un posto preminente occuparono l’evangelizzazione, la catechesi, le missioni al popolo, il culto dell’Eucaristia, il ministero delle Confessioni, l’assistenza ai poveri, ai malati e ai perseguitati da associazioni criminose, l’opera delle vocazioni sacerdotali e l’accoglienza di quanti ricorrevano a lui.
Catanoso non volle mai porre limiti al suo zelo apostolico e ben se ne accorsero i suoi superiori che gli affidarono anche altri incarichi, spesso alquanto gravosi: fu direttore spirituale del Seminario Arcivescovile (1922-1949); cappellano degli Ospedali Riuniti (1922-1933); confessore degli Istituti Religiosi cittadini e del carcere (1921-1950); canonico penitenziere della Cattedrale (1940-1963), Rettore della Pia Unione del Volto Santo, trasferita da Pentedattilo a Reggio nel 1950 con decreto di Mons. Demetrio Moscato, Arcivescovo di Salerno ed Amministratore Apostolico di Reggio e di Bova.
Nunnari mi racconta che, negli anni trascorsi nell’Aspromonte, il Catanoso era venuto a diretto contatto con una difficile realtà sociale e religiosa. Così scriveva: “Ancora nel lontano 1920, visitando molti paesi sperduti sui monti della Calabria e predicando in quasi tutte le parrocchie dell’Arcidiocesi, ho sentito una stretta al cuore nel vedere tanti bambini innocenti esposti alla corruzione, tanti giovanetti senza guida e senza orientamento nella vita, troppe chiese povere e spoglie e tanti tabernacoli senza il dovuto decoro. Sacerdoti sofferenti e senza assistenza”.
«Cominciò così a concretizzarsi in lui il pensiero di dar vita ad una congregazione religiosa femminile che potesse diffondere la devozione al Volto Santo di Gesù, portare conforto ai sacerdoti bisognosi e aiuto alle parrocchie più sperdute e abbandonate. Nel 1934, pertanto, incoraggiato anche da San Luigi Orione, che gli era amico da tempo, fondò l’ordine delle Suore Veroniche del Volto Santo, che vennero canonicamente approvate dall’Arcivescovo Giovanni Ferro nel 1953 e in seguito anche dalla Santa Sede.
Egli stesso disse che le sue suore dovevano essere “gente che sa parlare alla propria gente, che ama il Signore in semplicità, che non chiede se nel paese dove è mandata c’è la casa o il giardino. Gente che va senza pretendere nulla, che si sacrifica, che soffre, che aiuta la Chiesa”. Aggiungeva: “Il vostro posto è quello che gli altri hanno rifiutato, tra la gente più povera e più umile”.
Secondo questi criteri Catanoso guidò il suo Istituto, aiutandolo a superare non poche difficoltà e ad estendersi in varie parrocchie dell’Arcidiocesi di Reggio ed oltre».
Il capitolo Cosenza è denso di fatti, sofferenze e tensioni. Prima di scivolarci dentro, però, Nunnari mi chiede di fare un passo indietro. Vuole aggiungere altre tessere al mosaico delle rivendicazioni che sfociarono nella rivolta di Reggio e dire dell’altro sul rapporto con la politica e i suoi protagonisti.
«Con Antonio Guarasci, primo presidente della Regione, non ci furono grandi rapporti; in realtà non mi piacque molto. Il suo discorso d’insediamento non mi convinse. A proposito, aspetti un attimo, torno subito».
Esce dalla stanza per tornarci dopo pochi minuti: ha tra le mani una vecchia cartella ingiallita dal tempo. La apre vicino a me e dopo aver scandagliato tra i fogli ne tira fuori uno, me lo mostra e aggiunge: «questi sono gli appunti che ho preso quando Guarasci venne a Reggio».
Un documento straordinario, vergato a mano e contenente tutti i passaggi più importanti dell’intervento fatto dal primo presidente della Regione. Chiedo a Nunnari di leggerlo, faccio fatica ad interpretare la sua scrittura. Il vescovo acconsente e comincia ad illustrare il contenuto, quasi con disgusto per quelle parole che oggi come ieri l’indignano:
“Al momento della formazione del primo governo regionale della Calabria, un pensiero lo rivolgo al popolo calabrese che ha guardato in questi mesi con trepidazione, ma anche con giustificata speranza, al Consiglio regionale della Calabria eletto il 7 giugno. Ed in primo luogo – consentitemi che io lo faccia – questo saluto io lo rivolgo alla popolazione di Reggio Calabria: ai lavoratori, agli onesti cittadini di una nobile città, a tutti, di ogni ceto e di ogni categoria, coloro che hanno sofferto in questi mesi di frustrazioni, angoscia e disperazione. Noi riconosciamo alcuni motivi di carattere sociale ed economico che pure erano alla base della protesta, ma abbiamo il dovere – e dobbiamo avere anche il coraggio – di condannare senza riserve i metodi di sedizione e le sobillazioni inconsulte poste in atto contro lo Stato democratico e regionalista. Dobbiamo avere anche il coraggio di condannare i profittatori, eversivi e reazionari, della rivolta. Questi fatti, questi metodi e questi uomini hanno creato diffidenza, lacerazioni, fratture in una Regione già divisa da tradizioni storiche e da una configurazione geografica che sono gli ostacoli più diretti alla difficile convivenza politica tra i partiti [...]. L’elezione del Presidente e della Giunta, dopo tanti rinvii, dopo le prime interne schermaglie polemiche, dopo il disagio che pure ci hanno creato i fatti di Reggio Calabria, è già un primo positivo atto per l’avvio di un discorso regionale e regionalistico, per l’avvio di un programma che non sia una mera ipotesi nominalistica, ma un fatto concreto ed attuativo ancorato ad una precisa volontà politica.
I problemi della Calabria sono rimbalzati in questi giorni nel dibattito nazionale. Tutta l’opinione pubblica, posta di fronte ai fatti di Reggio, ha capito lo stato di malessere generale della Calabria. È questo il senso fondamentale che noi cogliamo da quei fatti, al di là di certe intenzioni e di certe strumentalizzazioni. Ebbene: alla Giunta spetterà il compito delle proposte organiche delle priorità, di proporre quello che è stato chiamato in questi tempi il «discorso globale» e che invece sarebbe opportuno chiamare il piano organico di sviluppo economico della Regione.
I fatti di Reggio Calabria, nell’aggravamento verificatosi nelle ultime settimane, l’isolamento della città, le manifestazioni criminose con l’uso di armi da fuoco, con morti e gravi feriti tra la popolazione civile e le forze dell’ordine, il vuoto politico creatosi con l’assenza quasi totale di poteri democratici, riconosciuti incapaci di interloquire con gli organi dello Stato, ci richiamano ad una responsabilità fondamentale. Richiamano, intendo, tutte le forze politiche democratiche e regionalistiche ad assumere un atteggiamento conseguente e responsabile di condanna e di critica, ma coraggioso e capace di sbloccare uno stato di cose assolutamente insostenibile [...].
Noi saremo fedeli interpreti della legge, saremo democratici e legalitari fino in fondo. Invitiamo i giovani (questo è un appello che non vuole avere un sapore retorico), i lavoratori, gli intellettuali, le forze politiche, sindacali e culturali calabresi a difendere l’istituto regionale che nasce dopo tanti disagi, dopo i tanti drammi vissuti in questi giorni, ad aiutarci a costruire una Calabria nuova e moderna senza municipalismi, ad abbattere le barriere che ci dividono, a riscoprire nella collaborazione con tutti le premesse di un cammino lungo e difficile per il nostro riscatto. Tali premesse sono scritte appunto negli articoli della Costituzione repubblicana e ci fanno riscoprire (riprendo le parole conclusive del nobilissimo discorso pronunciato dal nostro Presidente all’atto del suo insediamento) in tutto il loro valore morale e politico le regole della democrazia nello spirito innovatore che le anima. Solo attuando queste premesse di lealismo nei valori democratici e repubblicani, ritroveremo la vera Calabria, alla costruzione della quale noi vogliamo dare con la nostra opera, che ha inizio oggi, il nostro contributo, modesto ma certamente in buona fede’’.
Lettura terminata. Il vescovo si toglie gli occhiali, li poggia sul bracciolo della poltrona e dopo essersi accarezzato la fronte con la mano, esclama: «Così fregarono Reggio!». Ma la storia continua: passano i giorni, i mesi, gli anni e inevitabilmente l’uomo di chiesa, nel suo lungo percorso, incrocia i destini di altri esponenti della politica calabrese.
«Ho avuto buoni rapporti con Perugini e con Aragona, con altri un pò meno. Con Carmelo Pujia, per esempio, una delle figure più in vista della DC calabrese, dopo un lungo lasso di tempo in cui avevamo chiuso ogni tipo di contatto, siamo tornati a rivolgerci la parola, precisamente dopo la morte di suo figlio. Pujia è stato un esponente potente della Democrazia Cristiana: tre legislature alla Camera, un passato da assessore regionale e presidente della Provincia di Catanzaro. È stato grande amico di Giulio Andreotti, testimone di nozze di tre dei suoi cinque figli. Lo ammetto: non ero amico né con lui, né con Misasi. Li ho incontrati prima dei moti di Reggio Calabria, non ricordo bene in quale occasione. Ricordo, invece, che fu lui a presentarmi quelli che egli stesso definì “il futuro del partito dello scudo crociato calabrese”: Lillo Manti, Franco Quattrone, Gigi Meduri e Mimì Cuzzupoli».
«Possibile si fermi qui il suo rapporto con il mondo politico calabrese?», chiedo incalzando il vescovo.
«Vuole sapere se ho avuto rapporti con Giacomo Mancini?».
Attendo prima di rispondere, ma poi non mi trattengo e ammetto candiamente che la mia domanda mirava a questo, visto che è risaputo che i due non sono mai andati d’accordo.
Giacomo Mancini è stato l’esponente politico più importante della Calabria. Avvocato, antifascista, figlio di Pietro Mancini, uno dei fondatori del PSI, nel 1944 entrò a far parte dell’organizzazione militare clandestina a Roma. Dopo la liberazione, rientrato a Cosenza, diventò segretario, fino al 1947, della locale federazione socialista e membro della direzione nazionale del partito fino al 1948. Consigliere comunale di Cosenza dal 1946 al 1952, alla Camera entrò nel 1948, con 26.000 voti di preferenza tra la sua gente, eletto nelle liste del Fronte Democratico Popolare: ci restò per dieci legislature.
Nel gennaio del 1953 venne eletto segretario regionale del PSI. Nel 1956, all’indomani della feroce repressione sovietica della rivoluzione ungherese, le strade dei socialisti e dei comunisti si separarono e Mancini fu chiamato da Pietro Nenni a occuparsi dell’organizzazione del PSI. Autonomista, nenniano, uomo di governo nel centrosinistra, fu Ministro della Sanità nel primo governo Moro, Ministro ai Lavori Pubblici nel secondo e terzo governo Moro e nel primo e secondo governo Rumor, diventando ministro del Mezzogiorno nel quinto governo Rumor. Da ministro della Sanità impose, tra l’altro, l’introduzione del vaccino antipolio Sabin. Da Ministro dei Lavori pubblici realizzò l’autostrada Salerno-Reggio Calabria e fu durissimo verso gli speculatori dopo la frana di Agrigento del 1966. Consapevole di non disporre dei tempi tecnici per poter varare una riforma organica della legge urbanistica del 1942, portò in Parlamento un disegno di legge che, facendo da ponte all’auspicata riforma urbanistica, introduceva nella normativa in vigore una serie di disposizioni a...

Table of contents

  1. Prefazione
  2. Un prete speciale
  3. L’incontro
  4. I primi anni a Sbarre
  5. La rivolta di Reggio
  6. La guerra di mafia
  7. In Irpinia
  8. Cosenza, la politica e gli scandali
  9. L’incontro con Papa Francesco
  10. Processioni e “inchini”
  11. La fine del viaggio
  12. Elenco dei nomi