Rapsodia per il Teatro
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Rapsodia per il Teatro

Arte, politica, evento

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Rapsodia per il Teatro

Arte, politica, evento

About this book

Una raccolta completa degli scritti di Alain Badiou sul teatro, dal 1990 ad oggi, che comprende la famosa Rapsodia per il teatro ed altri ulteriori interventi sui rapporti tra teatro e filosofia, teatro e politica e sulla commedia. Pubblicati per la prima volta in Italia, questi testi riconsegnano al lettore l'interezza dell'ultima grande teoria del teatro contemporaneo, il lungo e intenso lavoro di uno dei più importanti intellettuali e filosofi del nostro tempo. "Al nostro tempo non importa dell'eternità. È dalla parte del calcolo e dell'istante. La settimana prossima è già fuori dalla sua portata di significato. Ora, il teatro mostra come ogni misura reale del tempo implichi una presentazione dell'atemporale. Il teatro esibisce la connessione massima, quella dell'istante con l'eternità. Costruisce il proprio tempo, nel momento in cui noi sopportiamo la banalità del nostro. Il teatro ci dice che per sapere chi siamo, dove siamo, e quanto vale il nostro tempo, abbiamo bisogno di Amleto, di Antigone, del costruttore Solness, di Berenice, di Galileo, la cui esistenza atemporale è garantita dalla temporalità sperimentale e dalla singolarità dell'evento teatrale" (Alain Badiou).

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Information

eBook ISBN
9788868222833
Topic
Art
Subtopic
Photography

PARTE PRIMA

I. Gloria del teatro
nei tempi oscuri

Gli anni ottanta dello scorso secolo sono oggi comunemente considerati quelli della svolta «neo-liberale», vale a dire brutalmente capitalista, nello stile 1840, che da trent’anni colpisce ed infetta praticamente tutti i popoli del mondo. La sparizione – accelerata nel caso dell’URSS dalla venuta di Gorbaciov, mentre in Cina già presente a partire dalla morte di Mao – di tutto ciò che aveva costituito il «campo socialista» è stata in un certo senso la conseguenza di quello che era avvenuto durante gli anni settanta: ovvero il fallimento dei tentativi rivoluzionari che prima avevano sostenuto le rivolte studentesche, e poi le fazioni avanzate del mondo operaio, sia nei paesi imperialisti (il maggio 1968, i campus americani contro la guerra in Vietnam, le rivolte armate in Italia, Giappone e Germania, la Rivoluzione dei garofani in Portogallo…) che in quelli socialisti (la Grande Rivoluzione culturale proletaria).
Questi movimenti rimangono il tesoro storico a partire dal quale noi dobbiamo riflettere, e che abbiamo il dovere di trasmettere alla gioventù inquieta e disorientata di oggi. Ma è vero che prima di tutto, durante gli anni ottanta, il ritiro di tale gioventù, il suo sonno, come la comparsa in questo vuoto culturale di battaglioni interi di rinnegati convertiti ai meriti del capitalismo «democratico», inclusi molti intellettuali, ha costituito il terreno individuale su cui la manovra reazionaria dei maestri del Capitale ha potuto operare, senza preoccuparsi troppo di trovare resistenza.
C’è qualcosa allo stesso tempo di ironico e istruttivo nel fatto che in Francia, a partire dal 1983, sia stato proprio il potere “di sinistra”, guidato dallo scaltro Mitterrand, presentatosi come l’erede naturale dei movimenti precedenti, a farsi carico della liquidazione dello Stato “sociale” che era emerso tra il 1945 e il 1948, tra i tormenti del dopoguerra mondiale. Chi si ricorda veramente che la liberalizzazione finanziaria, chiave di volta della sottomissione di ogni cosa al potere del mercato, è stata l’opera ostinata del “socialista” Pierre Bérégovoy? Chi si rende conto che il governo Jospin ha privatizzato più di quello Balladur? E poi, a proposito della questione dei lavoratori stranieri – questione fondamentale dell’individuo che avvelena letteralmente tutta la politica parlamentare –, chi si rammenta che è stato il primo ministro socialista Pierre Mauroy a definire gli scioperanti della fabbrica Renault a Flins, certamente in maggioranza africani, violentemente attaccati dai criminali della direzione, come degli «stranieri alle realtà sociali francesi»? È ancora il primo ministro socialista Rocard ad aver affermato che la Francia non può accogliere tutta la miseria del mondo. Ed è anche vero che già un sindaco del PCF[1] aveva fatto assaltare un centro di accoglienza per lavoratori africani a colpi di bulldozer, sostenendo che i sindaci di destra «gli mandavano tutti gli immigrati».
In queste condizioni, insistere sull’ipotesi comunista, continuare il lavoro politico di organizzazione delle persone senza alcun interesse – elettorale o altro – da parte dello Stato, affermare che il cuore di tutto il processo politico popolare è, come sempre, oggi come ieri, costituito dalla massa dei nuovi proletari dei centri di accoglienza, dei cantieri, delle fabbriche e delle periferie, fare tutto ciò si diceva non andava affatto da sé. Diciamo che, quanto meno, noi non eravamo altro che un piccolo gruppo di persone che andava controcorrente.
Fu dunque durante quest’epoca mediocre della storia, grazie alla prima mediazione del mio amico François Regnault[2], uno straordinario artista e teorico del teatro, che ho incontrato, quasi fosse una luce inscalfibile, Antoine Vitez[3]. Una qualità eccezionale di questo grande artista è stata il suo mantenere tra sé e il mondo una meravigliosa distanza ironica, senza che questa intralciasse i suoi impegni sempre tenaci verso il comunismo, il nuovo pensiero e il sostegno alle lotte popolari. Desiderava e voleva un teatro destinato a tutti senza eccezioni, rifiutando però l’idea che si dovessero fare compromessi sulla sua sofisticazione e densità intellettuale. È quello che definiva essere, con una formula straordinaria, qualcosa di «elitario per tutti». Era sempre però un sorriso sarcastico, una sorta di sapienza contenuta, qualche cosa allo stesso tempo armata da una cultura immensa e disarmata da una complicata esperienza di vita, a mettere in un certo modo a distanza ed esporre al giudizio di tutti, compreso il suo, ciò che realizzava sulla scena teatrale o in quella del mondo.
In questa distanza, l’amicizia trovava posto, assiema alla costanza e alla lealtà, ma per chi non aveva il permesso di sconfinare su un territorio più intimo, più lontano e segreto, l’ironia di Antoine Vitez agiva da guardiana. Sono stato suo amico, credo, prova ne è la fiducia sorprendente che ripose in me. Nel 1984 mise in scena, in forma d’opera lirica, grazie alla bella complicità musicale di Georges Aperghis, la mia pièce La sciarpa rossa (L’écharpe rouge)[4], in piena epoca di reflusso delle idee comuniste di cui quest’opera si era nutrita, esattamente come il suo modello formale, La scarpa di raso (Le Soulier de satin) di Claudel – che Vitez intelligentemente mise in scena più tardi – lo era di quelle cattoliche. Ci fu del resto una bella tempesta mediatica! Mi ricordo che un mattino, dopo aver letto le critiche alla prima dello spettacolo all’Opera di Lione, lui mi disse, con il suo solito sorriso ironico: «Tutti i giornali dicono che sei un cretino». Poi aggiunse, allargando il sorriso: «Ma non lo dicono di me». Ha prestato degli spazi, prima a Chaillot poi a Odéon, all’associazione Les Conférences du Perroquet, fondata e diretta da Natacha Michel e da me, che lì vi organizzava memorabili conferenze su tutto ciò con cui si poteva ancora sostenere un’opposizione frontale a Mitterrand, tra gli intellettuali sopravvissuti del fronte contro-corrente. Vitez stesso fece in questo contesto due conferenze straordinarie. Ha voluto produrre sulla scena le letture virtuose di due altre mie pièce, allora inedite, L’acuto Ahmed (Ahmed le subtil) e L’incidente di Antiochia (L’Incident d’Antioche). A Chaillot ha partecipato ad una presentazione collettiva del mio libro di filosofia pura L’Essere e l’evento, di cui lesse numerosi passaggi. Mi ricordo, ancora con meraviglia, di una lettura che facemmo in due a Chaillot di una lunga serie di testi, poesie e prose di Mallarmé... In tempi bui, ecco un uomo su cui si poteva contare.
Dico tutto questo perché il presente libro, Rapsodia per il teatro, è assolutamente inseparabile da questo incontro fondamentale. Praticamente una buona parte del testo proviene da articoli che ho pubblicato in quella che era la rivista del TNP[5], intitolata L’Art du théâtre, di cui Vitez aveva preso la direzione, e di cui si occupava specialmente Georges Banu. Per un’altra parte, il numero di riferimenti teatrali, spettacoli, attori, autori, procedure di messinscena, ecc., provengono egualmente sia da produzioni di Vitez a Chaillot che da conversazioni con lui e il suo fedele entourage.
Con sincerità, direi che ho trovato nell’opera e nella persona di Vitez quello che potrei definire il “coraggio del teatro”, che in tutti gli anni ottanta ha operato come un’opposizione al voltafaccia politico di cui ora tentiamo di limitare gli effetti, non solo all’interno della politica stessa, tra i nostri amici lavoratori dei centri di accoglienza, delle fabbriche e delle periferie, non solo creando dei nuovi comunisti di fabbrica e comitati popolari, ma anche usando forme diverse del pensiero, che vanno dalla filosofia pura al romanzo o al cinema, passando, ovviamente, per il teatro, di cui Vitez è stato per noi l’emblema incontestabile.
Quando rileggo questo breve libro oggi, sono colpito soprattutto del fatto che non trovo passaggi che rinnegherei, come sono molto pochi quelli che modificherei.
Certo, si potrebbero arricchire i riferimenti. Oggi ci si potrebbe senz’altro interrogare sugli eventuali limiti di un certo «classicismo», rivisitato e demarcato da Brecht, a cui si potevano ancora appellare tra il 1960 e il 1990 Chéreau come Vitez, Peter Stein come Strehler; sebbene Grüber già mettesse in scena potenze più notturne, più prossime alle densità poetiche del primo romanticismo tedesco. Alla fine degli anni ottanta, infatti, sembrava difficile continuare ininterrottamente su questa via, in cui dominava una visione in qualche modo razionale, luminosa, fermamente didattica e allo stesso tempo sottilmente musicale, che spingeva il più largo pubblico possibile verso un teatro che, secondo la massima di Vitez, aveva come missione quella di aiutare ciascuno ad orientarsi dentro la «vita inestricabile».
È certo che in Francia, registi come Christian Schiaretti o Brigitte Jaques abbiano saputo farsi carico di questa eredità, stabilendo dunque come i suoi valori non si fossero esauriti. E già c’è stata data l’occasione di sperimentare altre strade, osservando il lavoro di artisti come Langhoff, Marthaler, Warlikowski, e dei loro eredi, come, sempre in Francia, l’insolita e originale esperienza di Marie-José Malis. In questa costellazione, che non rappresenta una scuola, mi sembra si faccia strada la convinzione che il teatro non sia più esclusiva di Figure perenni, che il movimento os...

Table of contents

  1. Francesco Ceraolo
  2. PARTE PRIMA
  3. PARTE SECONDA
  4. NOTA AL TESTO
  5. ELENCO DEI NOMI