V
“Ci gridano briganti...”
Le truppe francesi giunsero a Cosenza fra l’undici e il dodici marzo. In quei giorni l’erede al trono del Regno di Napoli, principe Francesco, ed il fratello Lodovico, avevano già lasciato la città dei Bruzi e procedevano verso Reggio donde si sarebbero imbarcati per Messina, dove giunsero il 17 marzo. Intanto, proprio quando si riteneva che forse la partita, sulla parte continentale dell’ex Regno borbonico, fosse ormai chiusa e bisognasse pensare ad aggredire i borboniani in Sicilia, nei confronti dei francesi occupatori, nel cuore della gente, sorgevano e si diffondevano simpatie e antipatie.
Certo brillavano, soprattutto fra molti “intellettuali”, i fautori del nuovo pensiero giacobino. Questi vedevano nei francesi solo i felici latori e propagatori delle nuove idee illuministe sintetizzate nei tre principi libertà, uguaglianza, fraternità, secondo loro, vere e proprie categorie del nuovo ordinamento del mondo, alle quali sarebbe stato opportuno uniformare il reggimento dell’ex regno borbonico. Accanto a costoro, però, non mancavano i legittimisti, quelli che cioè difendevano il re Borbone ed il suo regno e che, insieme, sentivano fermamente la gravità del peso di un’occupazione straniera che, al Paese, avrebbe portato solo danni e problemi. Lentamente, fra questi ultimi, cominciava a montare un’insofferenza verso i francesi che, gradualmente, si sarebbe trasformata in odio.
Ad aggravare la situazione sopraggiungeva anche il dovere di provvedere alle necessità delle truppe francesi, che erano in realtà prive del necessario ed abbisognavano di tutto.
Napoleone, in merito, era stato molto chiaro col fratello Giuseppe, scrivendo e sottolineando testualmente: “Il paese deve fornirvi le vettovaglie, il vestiario, le rimonte e tutto l’occorrente, in modo che io non vi rimetta un soldo”. È doveroso, a questo punto, evidenziare che da parte dell’imperatore dei francesi, almeno in quel momento che lo vedeva impegnato in guerra, non ci si sarebbe potuto aspettare altro tipo di richieste. E lo sottolineava molto bene il Rotondo che, in una nota della propria opera, riportava quanto segue: “Napoleone chiedeva cento milioni al regno di Napoli per il regalo dell’occupazione militare. Frattanto suo fratello Giuseppe gliene domandava sei in prestito esprimendosi nel modo seguente: ‘Lo stato di questo reame è deplorevole. Non vi è numerario né commercio. L’esercito trovasi ignudo ed io non posso soddisfare i bisogni. V. M. mi mandi al più presto sei milioni, che restituirò nell’anno prossimo. Gaeta assorbirà questa somma. È necessario che io faccia pagare ai miei soldati le somme di cui sono in debito’. Al cenno che fa il re Giuseppe alle condizioni del reame dobbiamo aggiungere uno stornello, che il popolo da parte sua, in Calabria cantava in quel tempo: ‘Libertà ed uguaglianza, / li denari vanno ‘n Franza / e ntri ntri ci fa la panza’”.
La risposta di Napoleone fu molto eloquente ed è stata riportata di sopra. Il quadro, a quanto pare, era molto chiaro ed è importante aggiungere che, per venire incontro ai bisogni della truppa francese, gli abitanti dell’ex regno borbonico dovevano ospitarne nelle proprie case i soldati e fornirli di tutto il necessario. Le truppe francesi, come già detto, avevano bisogno di tutto, per cui spesso la necessità di rifornirsi di quanto necessario fece sì che si verificassero anche dei saccheggi.
E non solo: il fatto che i civili dovessero ospitare, nelle proprie abitazioni, i soldati francesi creò non pochi problemi e fu anche motivo di soprusi da parte delle truppe d’oltralpe. In questo contesto non poteva non nascere il desiderio di ribellarsi; e violenta fu la rivolta, repressa dai francesi con durezza. Del resto un popolo così legato al sentimento dell’onore non avrebbe potuto tollerare i soprusi dei soldati che avevano invaso le terre del Sud e si macchiavano di azioni turpi come i continui tentativi di insidiare le donne, non importava se nubili o sposate, e come le tante ruberie soprattutto di ori e di argenti. A questi insolenti occupatori della loro terra, ben presto calabresi e lucani avrebbero risposto con le armi in pugno.
Molti uomini, in quei giorni, cominciavano ad incontrarsi, magari pensando pure a mettere su delle vere e proprie bande in armi. “Molti – scriveva A. Rotondo – in quei giorni si riunivano armati nelle selve, formavano delle masse e ne eleggevano i capi aspettando il giorno della riscossa. Fra questi capi massa che campeggiavano sulle giogaie calabresi, più temuti erano il tenente colonnello Santoro, detto re Coremme, Parafante detto l’orso della Sila, Niriello, il Bizzarro, il Sorbo, Friddizza, Ronca, il tenente colonnello Pisani detto Francatrippa ed altri, che pei nostri monti spargevano fuoco di ribellione. Le loro organizzazioni erano chiamate battaglioni volanti o masse reali, organizzazioni già riconosciute dal decreto del 27 febbraio 1806, emanato da Ferdinando”.
Gli appartenenti a questi gruppi, come già scritto, ricevevano una diaria giornaliera che variava secondo il grado: 25 grani al milite semplice, 5 carlini a chi era capo centuria, 3 al Sotto-Capo, dieci carlini a chi comandava il battaglione, 7 al Sotto-Comandante. Il Rotondo ricordava che, però, non sempre i massisti riuscivano ad avere le proprie spettanze. I soldi sarebbero dovuti provenire dalla cassa di Campagna, come previsto dall’articolo 3 del dispaccio reale del 27 febbraio 1806. I francesi non tardarono a definirli briganti. Ma si trattava realmente di briganti? Era fin troppo facile per gli invasori denominare col termine “briganti”, cioè malviventi, coloro che invece combattevano da legittimisti in difesa della propria terra. Che, fra coloro che combattevano contro i franco- giacobini, non tutti fossero di specchiata fede era vero, ma liquidare sic et simpliciter il fenomeno del brigantaggio di quegli anni non sembra giusto, e non è giusto, e fra l’altro non è storicamente rispondente alla verità.
“Un ufficiale che nel 1830 scrisse i fasti e le vicende dei popoli italiani – si legge nel lavoro del tenente colonnello Ferrari sulle vicende dell’insurrezione calabrese del 1806 – ragionando di ciò, così si esprime: ‘(…) fa d’uopo rammentarsi ed esaminare attentamente le epoche in cui furono certi tali caratterizzati sotto quel titolo (di brigantì), spogliarli delle odiosità di cui le circostanze ed i tempi volevano rivestirli (…) Anche noi appellavamo briganti gli spagnuoli, durante la guerra dell’indipendenza, e poi se ne fecero degli eroi. L’uomo, qualunque sia l’opinione che adotta, se dal principio della sua scelta fino alla fine, dimostra coraggio, zelo, costanza ed energia, è stimabile. Potrà essere nell’errore, ma non meritare il vituperevole nome di brigante riservato agli assassini delle pubbliche strade’”.
È chiaro, pertanto, che il giudizio che molti hanno espresso sui cosiddetti “briganti” debba essere rivisto e l’intera vicenda del brigantaggio di quel periodo debba essere esaminata con maggiore serenità e obiettività. Abbiano combattutto dalla parte giusta o da quella sbagliata, quelli che combattevano nelle bande dei volontari, cioè con le masse, dette anche battaglioni volanti, hanno combattuto per i legittimisti contro il francese invasore. I capi erano stati chiamati fra fedeli sudditi di Ferdinando IV, ma anche fra “scaltri avventurieri, che però alla vecchia dinastia erano devoti per le concessioni avute in passato, o per benefici presenti, o per speranza nel futuro”.
A questi uomini venivano affidate le speranze di fermare lo straniero; attorno a questi uomini si strinsero i numerosissimi volontari che, davanti all’occupazione francese e ai soprusi che i soldati commettevano di continuo, insidiando le donne o rubando, non si tirarono indietro, ma si apprestarono a difendere il proprio sovrano, i propri centri, la propria casa, il proprio onore (è inutile ribadire quanto fosse importante l’onore per il meridionale), la propria religione ed i luoghi sacri: “ci gridano briganti, a contaminare la nostra fama (...) – aveva gridato in Fiumefreddo, parlando agli abitanti il capo massista e Preside Giovan Battista De Micheli – Noi briganti! Scuotere il giogo straniero, restituire il re legittimo; e ciò per rialzar gli altari, correggere il costume, riordinare lo stato a reggimento nazionale, solo scopo dei nostri voti, dei nostri gesti e delle nostre armi”.
Fu una guerra fra due posizioni contrapposte ben chiare e ben precise, una guerra che veniva combattuta da persone dabbene dalla parte dei legittimisti, nonostante qualche infiltrazione negativa, e da persone dabbene dalla parte dei giacobini meridionali che erano schierati a fianco dei francesi, ritenendo che questi ultimi pensassero solo al rinnovamento del regno napoletano nel segno delle nuove idee illuministiche. E chiaro e preciso era anche il fine d’ambo le parti: la difesa del regno legittimo e del vecchio ordine borbonico, da una parte, e la lotta per le nuove idee giacobine, dall’altra.
“Fra le persone fedeli al vecchio regime – si legge nel lavoro del Ten. Col. Ferrari – troviamo individui di specchiata vita e di costumi illibati, ottimi padri, ottimi figli, laboriosi ed onesti, e nell’altro campo stimabilissime persone che avevano abbracciato le idee portate dalla rivoluzione. Nei primi avevano prevalenza i sentimenti di nazionalità e di legittimità, negli altri quelli di libertà e di rinnovamento e, se non sono riprovevoli coloro che marciarono coll’armi in pugno contro i fratelli per imporre le nuove idee ed un nuovo sovrano, neppur debbono condannarsi coloro che a tale soggezione si ribellarono”.
Eppure coloro che combatterono nelle masse furono ritenuti dei briganti. Ed è inutile dire e ribadire l’errore umano e storico di una tale definizione! Non si dibatte, forse, ancora oggi sul brigantaggio meridionale degli anni 1806/ 1807 e degli anni risorgimentali? Ancora oggi, infatti, in merito ai fatti del 1806-1807, i simpatizzanti dell’una e dell’altra forza in campo discutono di briganti e di brigantaggio. Mentre alcuni non risparmiarono in passato e non risparmiano oggi i legittimisti ritenendoli, almeno in parte, dei semplici briganti, altri si spesero e si spendono per ricostruire la storia della rivolta contro i francesi e per recuperare la memoria di quanti avevano difeso onorevolmente la causa legittimista, fatta eccezione ovviamente per quegli avventurieri violenti che pure fra i “ribelli” c’erano stati. E ciò al solo fine di ristabilire il giusto equilibrio e di restituire, a quanti fra i massisti e fra i filo-borboniani avevano co...